Il primo giorno di scuola

Il mio primo giorno di scuola fu duplice, uno a Potenza, il 1° ottobre 1961, un altro a Alessandria, l’8 gennaio 1962.

A Potenza, l’edificio scolastico era una palazzina residenziale adibita a scuola, collocata in piazza Crispi, sulla quale si affacciavano costruzioni di una certa eleganza.

Caratteristica della nostra scuola erano i balconi. Dalle aule vi si poteva accedere semplicemente aprendo le relative porte finestre. Nessuno però si permetteva di farlo, né i maestri, né gli scolari (neppure quelli di quinta). Erano gli anni in cui gli insegnanti usavano ancora la bacchetta e non solo per spiegare…

Perché un alessandrino si trovasse a Potenza il primo giorno di scuola è presto detto: mio padre, in servizio al penitenziario di piazza Goito, era stato comandato a Portici, nei pressi di Napoli, per seguire un corso che gli avrebbe consentito di avanzare di grado.

Per non stare lontani, i miei genitori decisero il nostro trasferimento temporaneo nella piccola casa della nonna materna, Anna, l’unica ancora in vita.

La distanza fra Portici e Potenza era breve e mio padre avrebbe potuto così stare con noi quasi ogni fine settimana.

Alla notizia del trasferimento, mia sorella ed io reagimmo con entusiasmo. Maria Antonietta, la maggiore, era addirittura euforica. Avrebbe visto le cugine, sarebbe uscita con loro, avrebbe fatto nuove amicizie e forse si sarebbe fidanzata (…e poi sposata) con un potentino. Era il suo sogno.

Anch’io ero contento, avrei giocato con Giannino, mio cugino, che abitava proprio vicino alla nonna, avrei corso all’impazzata con gli altri bambini che abitavano nella via, via Pascongrande appunto. Seduto poi davanti alla casa di nonna avrei visto passare tanta gente, soprattutto tanti cavalli, muli e asini carichi di ogni mercanzia, diretti dalla campagna in città al mattino e viceversa nel primo pomeriggio.

“Che bello! Viene anche Volga?” Chiesi, dando per scontato che ci avrebbe seguito anche la nostra cagnolina, una meticcia di un anno.

“No, Volga resta qui. – rispose papà- Non c’è posto dalla nonna, starà nella cascina di un contadino che conosco. Starà bene, sarà libera nel cortile. Quando torneremo la riprenderemo.”

Era una pietosa bugia, i miei avevano già deciso che sarebbe rimasta là dopo il nostro ritorno, anche perché la cagnolina era uno dei motivi di attrito con la signora del piano di sotto e speravano così di rasserenare i rapporti di vicinato.

A parte Volga, c’era tanta voglia di partire. Per una famiglia come la nostra, lontana dalle proprie radici, con un numero di amici sempre più ridotto, per ragioni diverse, tornare nella città d’origine significava reimmergersi in un contesto parentale e amicale di cui, specie la mamma, sentivamo la mancanza.

Partimmo dopo la metà di agosto. Papà avrebbe trascorso con noi alcuni giorni di licenza ordinaria prima di recarsi a Portici e partecipare al corso per sottufficiali.

Ci sistemammo dalla nonna Anna, ma l’appartamento era piccolo, non ci stavamo tutti, così mia sorella, con sua somma gioia, fu ospitata da zia Lucia, che abitava al piano di sopra in una casa ampia.

La via dove abitavamo collegava le masserie dei dintorni a borgo San Rocco e quindi al centro vero e proprio della città, collocato sul dorso dell’alta valle del Basento e contenuto entro le antiche porte medievali.

Era abitudine dei contadini e di quelli del borgo, quando si recavano in centro, dire” salgo a Potenza” oppure “vado a Potenza”. Erano modi di dire che risalivano al passato, quando il borgo, sorto attorno all’omonima chiesa, era un corpo distinto e distante dalla città.

Giannino, Franco, Vito, io ed altri bambini di via Pacongrande scorrazzavamo, giocando a nascondino, a fare la guerra o a fare semplicemente baccano, urlando e vociando. Allora interveniva qualche adulto, mia nonna in primis, a minacciare chissà quali sanzioni.

Giochi e schiamazzi però cessavano quando passava il treno, allora ci lanciavamo tutti verso il ciglio della strada, sotto il quale correva un binario solitario.

Da lì ammiravamo vecchie motrici a vapore trainare, sbuffando, altrettanti vecchi vagoni merci o passeggeri.

A volte si fermavano proprio lì, davanti ad un casello sottostante, e frenando, producevano suoni simili a lamenti.

Invidiavo gli abitanti del casello:” Chissà quanti treni vedono passare…che bello…”

Addentratisi i convogli nella galleria antistante, tornavamo alle nostre occupazioni. Eravamo liberi di muoverci. ad Alessandria non godevo di quella libertà, sempre controllato a vista dalla mamma o da Maria Antonietta.

Via Pascongrande era molto animata nelle ore del mattino e del primo pomeriggio, quando i contadini si recavano in centro, con asini e muli carichi di ortaggi da vendere o di sacchi di grano da far macinare al mulino, e facevano ritorno alle proprie masserie con gli animali carichi dei prodotti della città, dalle sedie alle damigiane nuove di zecca.

Alcune contadine, all’andata, si fermavano davanti alla casa di nonna per salutarla e cambiare gli scarponi con più comode scarpe da passeggio. A volte, quando gli scarponi erano infangati, li depositavano al lato dell’ingresso, sorvegliati a vista da “zi’ Anna” (zia Anna) come la chiamavano per rispetto. Qualcuna per ringraziarla le donava sei uova fresche o due cespi di insalata appena raccolta oppure un mazzo di fiori di campo.

Per un bimbo di città era una festa vedere transitare quell’umanità variegata accompagnata da muli, asini e cavalli. In un’occasione vidi un contadino con una pecora. Andava in città per venderla.

Lo rividi al ritorno con la stessa pecora, che non aveva venduto perché chiedeva un prezzo troppo alto.

Per me tutto era nuovo e bello. L’unica cosa che non sopportavo era fare colazione con la “zuppa di latte”. Non amavo vedere galleggiare i pezzi di pane rustico nella scodella. Ma tutti i bambini della via facevano colazione così e io rischiavo di apparire un bimbo del Nord, viziato e pretenzioso.

Le giornate trascorrevano veloci. Passò agosto. Giunse settembre e papà partì per Portici.

Rimanemmo soli, con la nonna, i cui orari e abitudini dovevamo rispettare.

Si andava a dormire presto, verso le dieci di sera, però il dopo cena non era per niente noioso. C’era sempre qualche visita.

Venivano zio Raffaele, fratello di nonno Rocco e cognato di nonna, oppure zia Giuseppina e zio Antoniuccio, del quale nonna Anna era stata balia. A volte zio Antonio, il fratello di papà, e zia Maria, la moglie, che ci portavano sempre qualche dolcetto.

In certe serate venivano pure alcune vicine di casa con le figlie per imparare da “zi’ Anna” a lavorare con l’uncinetto.

Era bello ascoltare le conversazioni degli adulti e le storie più disparate da quelle di guerra alle familiari, a volte drammatiche.

Intanto all’estate seguì l’autunno, con i suoi tipici profumi di legna bruciata e di mele appena colte, e le conversazioni continuarono davanti ad un braciere che scaldava la piccola cucina e le persone.

Mi mancava un po’ la televisione, specie “Carosello”.

Chi seguiva i programmi TV era mia sorella, ospite di zia Lucia.

Il giorno dopo, scendendo al piano terra, faceva il riassunto di ciò che aveva visto, non era la stessa cosa, comunque era meglio di niente.

Una mattina di settembre, mia madre dopo avermi vestito di tutto punto, mi condusse in piazza Crispi. Entrammo in un edificio grigio, salimmo le scale, che a me sembrarono particolarmente buie, entrammo in una sala, o un’aula, dov’erano sedute tre persone dietro un lungo tavolo.

Di quel momento non ricordo molto, se non l’atmosfera severa e queste parole:

“…Ma il bambino non ha ancora l’età.”

“Compie sei anni a novembre…non può perdere l’anno…mio marito vuole che cominci. Ci tiene molto alla scuola.”

I tre insegnanti, due uomini e una donna, si guardarono fra loro e dopo un attimo di silenzio la maestra rispose: “E va bene…lo iscriviamo.”

Mia madre ringraziò e quando uscimmo sembrava più sollevata, mentre mi decantava le bellezze della scuola.

“In classe starai con Giannino… insieme nello stesso banco. Farete tante belle cose… così non starai solo a casa quando gli altri andranno a scuola.”

“E se Giannino vuol stare con Franco Di Stefano? Sono amici.”

“No, sta con te.” Rispose sicura la mamma.

“Ma potremo giocare?”

“Giocherete, farete le aste, i disegni, i copiati, leggerete.” Rispose senza incertezze mia madre.

“E come farò a leggere? Io non so leggere.”

“Lo imparerai dalla maestra.”

“Ma come farò?” Chiesi preoccupato.

“Imparerai.” Tagliò corto la mamma, comunque sollevata per la mia iscrizione.

Tornammo a casa quasi allegramente, facendo di corsa la discesa di via Pascongrande.

A casa demmo la “bella notizia”. Furono tutti contenti. Maria Antonietta celebrò le bellezze dello studio. Ora anche io facevo parte della scuola.

Quelle parole mi suonarono un po’ strane, considerato il suo poco entusiasmo per la vita scolastica…

Ero contento di iniziare la scuola ma non più di tanto. Mi piaceva correre, giocare con i miei amici, ascoltare le storie dei grandi, ma ero preoccupato di stare tante ore seduto in classe. Ricordavo la brutta esperienza della scuola materna e temevo che potesse ripetersi. Non avevo resistito alla lontananza dalla mia casa e dalle mie cose, né le suore avevano cercato di mettermi a mio agio. In certi momenti ero apparso addirittura poco disciplinato, anche se fossi rimasto a casa… poco male. E così fu.

Passarono i giorni. Ritornai a giocare e momentaneamente mi dimenticai della scuola.

Venne il primo ottobre. Ritornai alla realtà. Quel mattino ero mesto, poco loquace. La mamma cercava di entusiasmarmi mentre mi pettinava e mi vestiva, senza grandi risultati. Il solo pensiero di allontanarmi dalle mie cose e dal mio ambiente mi rattristava.

Mi fece indossare i calzoncini che mi piacevano di più, una camicia e un maglioncino, quindi calze e scarpe nuove, per ultimo il grembiule nero, con il colletto bianco e il fiocco blu. Poi si vestì lei e prima di uscire mi fece ancora indossare una piccola giacca perché non prendessi freddo…

Uscimmo di casa, era una giornata luminosa. A noi si unirono Giannino e la sorella Annamaria, che avrebbe frequentato la quinta.

Lungo la strada incontrammo numerosi scolari accompagnati da mamme, padri e sorelle. Non riuscivo a capire l’allegria dei più, inoltre mi infastidiva vedere gli altri bambini solo con il grembiule mentre io dovevo indossare una fastidiosa giacchina in una giornata di sole. Non ero già abbastanza coperto sotto il grembiulino?

Giungemmo davanti alla scuola. La bidella, una vecchia amica della mamma, fece entrare prima gli alunni di quinta. Vidi Annamaria varcare il portone ridendo e scherzando con le compagne. Non capivo proprio quella gioia.

Venne il momento delle prime. Non volevo staccarmi dalla mamma. Avevo paura.

“Vai- mi disse sorridendo- ti aspetto qui. Rimango qui, così quando esci mi trovi subito.”

Credetti a quella piccola bugia e, incoraggiato da Giannino e Franco Di Stefano, entrai. Salimmo al primo piano. La scala mi parve buia come quando l’avevo fatta la prima volta. Anche Giannino per un attimo mi sembrò intimorito.

Entrammo nell’aula. Rimasi per un attimo incerto, poi mi sedetti nel banco accanto a mio cugino, a fianco a me si sedette Rosalba, la figlia di un vecchio compagno di giochi della mamma. Mi sentii più sicuro. C’era un grande silenzio.

La maestra era di fronte a noi, davanti alla cattedra, indossava un grembiule nero. Ci seguiva con lo sguardo mentre ci sistemavamo: la maestra Adalgisa Cappella. La guardavamo intimoriti.

Non ricordo bene l’aula. Mi sembrò spoglia. Rammento le file di banchi di legno di fronte alla cattedra e alla lavagna, che mi parvero tetre.

I banchi erano uniti uno all’altro e disponevano di un piano ribaltabile, sotto il quale mettemmo le nostre cose. Nella parte superiore di quello c’erano una scanalatura, dove porre lapis, gomma e temperino, e un foro per il calamaio, per quando lo avremmo usato.

Ero nella seconda fila, fermo, in attesa non so di che, accanto a Giannino, che mi sembrava aver perso un’altra volta la sua abituale sicurezza.

Mentre scrutavo l’aula, notai alla sinistra delle pancate una porta finestra che dava su un balcone, che si affacciava a sua volta sulla stazione ferroviaria.

Intanto la maestra, dopo essersi accertata che fossimo tutti al nostro posto, iniziò con l’appello.

A mano a mano che pronunciava il nostro cognome rispondevamo:” Presente!”. Giunta a Tancredi, non si sentì risposta. Urlò:” Tancredi!” Sentimmo bofonchiare un “presente”.

Giannino, che aveva recuperato la sua sicurezza, mi disse a bassa voce: “Non conosce il suo cognome… è abituato a essere chiamato con il soprannome…Mezzacalzetta.”

Eravamo una classe mista e tutti, maschi e femmine, indossavamo il grembiule nero con il colletto bianco e il fiocco blu o azzurro.

Delle bambine ricordo Pizzuti, una morettina con i capelli ricci e un po’ arruffati, sempre scontrosa, Rosalba, la mia vicina di banco e Restaino.

Terminato l’appello, la maestra Cappella fece alcuni aggiustamenti, i più alti nelle file posteriori, i bassi davanti. Io rimasi al mio posto, in seconda fila, accanto a Giannino e a Rosalba.

Passammo quindi all’elencazione di quelle che sarebbero state le pratiche quotidiane: la preghiera, l’appello, la rivista (il controllo della pulizia personale), la correzione dei compiti a casa e quindi la lezione vera e propria. Tutto spiegato con un tono di voce squillante che mi intimorì ulteriormente.

Dopo questo discorso, l’insegnante passò alla rivista, lo faceva tanto per abituarci, non ci avrebbe sgridato se avesse trovato le unghie, il collo o le orecchie sporchi. Ma solo per il primo giorno. Poi sarebbero fioccati i rimproveri e le punizioni.

Ci controllò uno per uno, tenendo in mano la bacchetta, che usava per ogni attività. Risultammo tutti a posto… tranne uno.

“Eh- sussurrò Giannino- Mezzacalzetta vive in campagna…”

Finalmente la maestra ci comunicò cosa avremmo dovuto portare per il giorno successivo: il libro di lettura, due quaderni a quadretti di prima elementare, l’astuccio con matita, gomma, temperino e colori.

Detto ciò, ci fece tirare da sotto il banco il quaderno e la matita che avevamo portato, mentre lei cominciò a tracciare sulla lavagna linee verticali di diversa lunghezza. Di ognuna di quelle avremmo dovuto riempire una pagina. Lavorammo fino alla fine della mattinata.

Suonò il campanello. L’insegnante ci mise in fila e ci condusse fin sulla soglia della scuola, da dove uscimmo quasi tutti schiamazzando. Il primo giorno era terminato e io mi sentivo sollevato.

All’uscita rimasi deluso, ad attendermi non c’era la mamma ma Maria Antonietta.

“Mi aveva promesso che mi avrebbe aspettato qui.” Dissi quasi piagnucolando.

“Ha dovuto tornare dalla nonna-rispose mia sorella- domani verrà lei.”

“Ma… devo venire anche domani? La scuola non è finita?” Chiesi angosciato.

“Devi andare a scuola anche domani. Hai del compito?”

“Dobbiamo fare delle aste sul quaderno di casa. La maestra vuole due quaderni…a quadretti di prima. Ma domani ho finito?”

“Adesso andiamo a comprarli. -rispose mia sorella- Il negozio è di fronte… è ancora aperto.”

Ci dirigemmo verso la cartoleria. Entrammo. Era una cartoleria di altri tempi, dentro fui avvolto da una penombra e da un sentore di carta e grafite, di un qualcosa che stava lì da tempo immemorabile.

Dietro il bancone, immobile, c’era la cartolaia. Era una signora magra, secca, secca, con i capelli grigi e l’espressione seria. Dentro il suo grembiule grigio a me bambino sembrò ancora più vecchia di quello che era in realtà.

Dietro di lei notai uno scaffale su cui erano deposti in bell’ordine scatole di colori e di matite, pile di quaderni, tutti dalla copertina nera, album da disegno, confezioni di pennini di vario tipo e boccette di inchiostri dai colori diversi.

Quando fummo vicino al bancone, salutammo. La signora rispose a labbra strette.

Alla richiesta di due quaderni replicò con un “perché no,” voltandosi e prendendo dallo scaffale dietro di lei, da una di quelle pile ordinate, due quaderni dalla copertina nera, che emanavano lo stesso odore che mi aveva avvolto entrando.

Dopo aver pagato e salutato, uscimmo all’aria aperta. C’era un bel sole. Mi rinfrancai.

Camminando verso casa, cominciai:

“Hai sentito, Antonietta? Ha detto:” Perché no.” Volevamo comprare i quaderni, perché non ha detto:” Perché sì”?

“Ha detto così per far capire che aveva i quaderni e non aveva problemi a darceli.”

“Ma dice sempre “perché no” quando qualcuno chiede qualcosa?” chiesi fra il serio e lo scherzoso.

“Mah…sarà un suo modo di dire.” Rispose Maria Antonietta, mentre affrettava il passo.

“Poteva dire: “Perché sì.”

Mia sorella non rispose.

Cominciai a ripetere in maniera fastidiosa:” Perché sì, perché sì… perché no, perché no, perché…”

“Finiscila!” Mi intimò spazientita.

Giungemmo a casa. Appena vidi la mamma, cominciai la litania: “Non mi hai aspettato… credevo che fossi davanti al portone …me lo avevi promesso.”

“Domani… domani ti aspetto davanti al portone.”

Mia nonna, da donna del suo tempo (era del 1888) rimproverò la mamma per quella falsa promessa e mi invitò a prendere sul serio la scuola e ad essere responsabile, perché era una cosa importante.

Dopo pranzo, dimentico di ogni responsabilità scolastica, chiesi di uscire per andare a giocare con Giannino. E qui ebbi una grande delusione perché seppi che prima di uscire dovevo fare i compiti per il giorno dopo. Vedendo mio cugino già fuori, mi fu risposto che lui i compiti li aveva già fatti. Era stato diligente!

E così, di malavoglia, seguito da mia sorella, mi misi al lavoro. Riempire quelle poche pagine di linee verticali di diversa lunghezza (le cosiddette aste) fu quasi un tormento. Non venivano dritte, dovevo cancellarle e rifarle. Che fatica. Ma finalmente terminai e potei uscire a giocare.

Quello fu il primo giorno di scuola. I successivi furono peggio. Per tanti giorni, al momento di lasciare la mamma e salire in aula, cominciavo a piangere. E continuavo in classe. A nulla servivano le consolazioni di Giannino, Rosalba, Franco Di Stefano e della maestra Cappella, dalla quale mi sarei aspettato invece un rimprovero.

Col tempo però la cosa invece di placarsi continuava, rallentando, almeno momentaneamente l’attività didattica.

La maestra si preoccupò e quindi decise di consultarsi con la mamma.

“Il bambino piange, non vuole venire a scuola…come dobbiamo fare?”

“Eh…. come dobbiamo fare… ci deve venire… è il suo dovere …e chi lo sente mio marito se sta a casa… è la scuola.”

Ricordo frammenti di conversazione. Rammento la maestra dire: “… Qualcosa che gli ricordi la casa.”

“Che lo tranquillizzi.” Aggiunse la mamma.

“Cosa gli piace? “Domandò l’insegnante.

“Uh…i soldatini…i fucili…i treni. Gli piacciono tanto i treni. Starebbe ore a guardarli. Dove abitiamo passano vicino e lui corre sempre a vederli insieme a Giannino. “

Giunsero ad una soluzione: nel momento in cui avessi avuto una crisi di malinconia, avrei potuto chiedere di uscire sul balcone per guardare i treni che partivano o arrivavano nella stazione sottostante, magari accompagnato da mio cugino o da un amico.

La decisione mi venne comunicata prima dalla mamma e poi, per rassicurarmi, anche dalla maestra Cappella.

E così ebbi il privilegio, unico della scolaresca, di affacciarmi al balcone e guardare i treni, insieme ad un amico, per non più di dieci minuti.

Fu sufficiente a tranquillizzarmi. A poco a poco mi abituai alla vita scolastica. Cominciai a star bene e a legare con i miei compagni, tanto più che questi facevano a gara perché li scegliessi per farmi compagnia in quei pochi minuti di libertà.

Iniziò il freddo. A novembre non uscii più, ma ebbi la promessa di poterlo fare a primavera.

Cominciai ad apprendere, a rispondere alle domande della maestra. Ero attivo soprattutto nell’ora di religione (“di dottrina”), quando don Salvatore ci permetteva di intervenire anche con una certa libertà.

Venne il 22 dicembre, l’ultimo giorno prima delle vacanze di Natale. Dovevamo leggere ad alta voce in classe un breve testo (quattro righe) sull’inverno.

Noi scolari lo avevamo preparato a casa, per compito, ma ero comunque emozionato. Non volevo fare brutta figura. Uno per volta leggemmo e quasi tutti lo facemmo bene. La maestra era soddisfatta, sapevamo leggere. Ero eccitato.

Quando la campanella suonò la fine delle lezioni, trovai la mamma dietro la porta dell’aula. Non badai alla cosa, era già successo i primi giorni di scuola, capii però che era attesa dalla maestra. Si avvicinò a lei, parlarono, l’insegnante le consegnò alcuni fogli, si salutarono. La salutai a mia volta contento. Non avevo capito niente…

Giunti a casa trovai papà, che finalmente aveva terminato il corso ed era tornato per stare con noi. Che bello, avremmo trascorso il Natale tutti insieme. Volli leggergli a tutti i costi il breve testo che avevo preparato per la prova. Ormai sapevo leggere.

Mio padre mi ascoltò attentamente, mi lodò, quindi mi diede la notizia. Saremmo tornati ad Alessandria e sarei andato in una nuova scuola, con nuovi compagni.

Rimasi confuso. “E i miei compagni? Giannino? Franco? Rosalba?”

“E’ una bella scuola. Si chiama “Galileo Galilei”, il nome di uno scienziato. Ti troverai bene. Avrai nuovi compagni. La maestra è giovane, però non devi più piangere perché lì non potrai uscire come nella vecchia scuola.”

“Ma neanche per andare al gabinetto?”

“Quello sì, ci mancherebbe. Ma non altro.” E terminò la conversazione per intraprenderne una più importante con la mamma.

Giunsero Natale e Capodanno, che festeggiammo insieme alla nonna. Il 2 gennaio 1962 partimmo per tornare ad Alessandria.

Ero di nuovo a casa, fra le mie cose, però ricordavo Giannino, Franco Di Stefano, Mezzacalzetta, Pizzuti, la maestra Cappella e la sua minaccia quando voleva zittirci:” Silenzio! Oggi sono una iena!”

Durante il resto delle vacanze comunque ebbi modo di distrarmi. Incontrai di nuovo i miei amici di via Rivolta, che mi chiesero dove fossi finito, dato che non mi avevano più visto. E io a spiegare che ero stato a Potenza e che lì ero andato a scuola. Mi ascoltavano meravigliati ma nello stesso tempo mi prendevano in giro perché ero stato in una scuola non di Alessandria e per giunta in meridione…mah…

All’ Epifania, come tradizione a casa mia, Maria Antonietta ed io ricevemmo i doni che avevamo chiesto nelle letterine che avevamo fissato alle calze attaccate alla cappa della cucina.

Giocai tutto il giorno. “Se potessi stare ancora un po’ a casa … per giocare ancora un po’…” Dicevo, tra me e me, ad alta voce.

“Domani starai a casa- sentenziò papà- giusto per riposarti ancora un po’.”

“Diremo che sono stato malato?”

“Diremo così. Ma solo un giorno, poi dovrai andare a scuola…senza piangere.”

“No, no, non piangerò” promisi, rasserenato da quel fugace giorno in più di vacanza.

Giunse l’8 gennaio 1962. Quando la mamma mi svegliò non ero contento. Parlai poco e praticamente non feci colazione. Dopo essermi lavato il viso e i denti, fui pettinato e vestito dalla mamma, tenendo sempre il “muso lungo”.

Mia madre parlava, si raccomandava, mi dava consigli. Io annuivo senza quasi proferire parola.

Suonava la sirena della Borsalino, quella di cinque minuti alle otto, quando uscimmo di casa.

Nel cortile di via Rivolta c’erano altri bambini ed altre mamme. Percorremmo via Palermo e poi via Pacinotti, unendoci ad altri scolari e accompagnatori. Anche se conoscevo molti di loro, in quel momento, ai miei occhi, erano tutti estranei. Il pensiero era rivolto ancora alla salita che portava a piazza Crispi, mi mancavano Giannino e Annamaria.

Giungemmo di fronte alla scuola “Galilei”, mi sembrò imponente e severa.

“Hai visto che bella! – disse la mamma- Mica come a piazza Crispi.”

L’intento era di entusiasmarmi, ma non mi strappò più di un mezzo sorriso. Anche molto tirato.

Aspettammo tutti fuori fin quando non fu aperto il portone. Gli altri entravano vociando e ridendo, io seguivo la mamma, che mi teneva per mano, quasi facendomi tirare.

“Cerco la I B.” Chiese la mamma ad un cortese bidello, che gliela indicò.

Era vicino all’entrata. Di fronte c’era un piccolo acquario con alcuni pesciolini rossi.

Ci avvicinammo alla porta. La maestra ci venne incontro. Era una giovane e bella signora siciliana, con i capelli neri e gli occhi castani, la maestra B. Anche lei indossava il grembiule nero. Era bella, sì, ma mi sembrò tanto distaccata, lontana.

Entrammo in aula. Questa mi apparve ancora più ampia di quello che era. All’ingresso, sulla destra, c’erano la lavagna, la cattedra e alcune carte geografiche srotolabili fissate alla parete, rimasi colpito da quella novità.

Sui muri laterali erano attaccati fogli che riportavano grosse lettere dell’alfabeto e alcuni bei disegni. I banchi, di legno, erano divisi in tre pancate da due. Tutto si presentava ordinato e lindo. Gli alunni, già seduti, in silenzio, si stavano preparando per l’inizio della lezione.

Rimasi un po’ confuso ed intimorito. Non era una classe mista, erano tutti maschi e c’era un silenzio che destava soggezione.

Mentre mi guardavo attorno, captai un frammento della conversazione fra la mamma e la maestra.

“… Soffre un po’ la scuola…ma è educato.”

“Vedremo. – rispose quella con espressione seria- Da quanti giorni siete ad Alessandria? Vi trovate bene? Avete già un lavoro?”

Ricordo l’espressione attonita della mamma.

“Veramente stiamo ad Alessandria dal 1948. Ci siamo trasferiti a Potenza perché mio marito doveva fare un corso a Portici, per poter avanzare di grado. Mia figlia maggiore ha frequentato le scuole commerciali qui, ad Alessandria.”

Rammento l’espressione un po’ delusa della maestra.

Terminata la conversazione, la mamma mi affidò all’insegnante, che mi fece sedere accanto ad un bambino dall’aria vivace e simpatica, Fulvio. Mi salutò e io risposi, mi rincuorai.

La mamma uscì, salutando me ancora una volta e i miei nuovi compagni. Io rimasi lì con gli occhi degli altri puntati addosso. Non una presentazione, non una parola spesa per me dall’insegnante, solo la preghiera e poi l’appello.

Quindi mi venne vicino. Mi aspettavo un controllo della pulizia. Avevo messo già le mie cose sul banco, compreso il vecchio libro di lettura, non disponendo ancora di quello nuovo. Guardò il testo, poi rivolse lo sguardo su di me, ebbi paura, pensavo di aver fatto qualcosa di sbagliato.

“Vediamo come leggi.”

Fece aprire al mio vicino il libro ad una determinata pagina e mi chiese di leggere le poche righe di un breve testo illustrato.

Ero emozionato, non avevo mai letto quelle parole. Faticai un po’ ma giunsi alla fine.

Mi guardò, sempre con quell’espressione di distacco:” Sai leggere, ma sei incerto.”

Quasi per scusarmi e per far vedere che mi volevo impegnare replicai:

“Se mi fa leggere la lettura del mio libro, la leggo bene.”

“No, non mi interessa. Volevo capire se sai leggere… hai messo le tue cose sul banco, ma questo non è il tuo posto. Ti ho fatto sedere accanto a lui solo per farti leggere. Il tuo posto è là.” E mi indicò un banco in fondo alla pancata vicino alla porta. Era il penultimo banco, davanti a quello di Angelo, un ripetente, svogliato e molto vivace.

A fianco non avevo il compagno perché ammalato. C’erano quelli davanti, ma fin da subito non si rivelarono particolarmente disponibili.

Ero lì, in quel posto, non perché fossi alto o indisciplinato, ma perché era l’unico banco vuoto e per me non valeva mutare l’armonia della classe… altro che inserimento o inclusione.

Rimasi solo per qualche giorno, ero disorientato, davanti c’erano due ultra diligenti e dietro, solitario, Angelo, disponibile, ma inaffidabile: un giorno non aveva l’astuccio, un altro aveva dimenticato di fare il compito o di portare il quaderno dei lavori a casa. Dovevo arrangiarmi.

Una mattina, non era tornato ancora il mio compagno di banco, stavo disegnando e mi accorsi di non avere un colore. Lo chiesi ad Angelo, ma aveva dimenticato l’astuccio, mi rivolsi ai due davanti, ma si girarono solo per bofonchiarmi un: “Ci serve”.

Vidi il colore sul banco di Fabrizio, nella pancata centrale. Glielo chiesi. Era così intento a disegnare che non mi rispose. Insistetti, niente. Allora mi alzai e glielo presi. Non avevo mai fatto un gesto del genere. Ero intimorito per ciò che avevo fatto. La sua reazione fu pronta:

“Cosa fai! Il colore è mio!”

“Te lo do subito… coloro e te lo do…”

“Maestra! Mi ha preso il mio colore!”

Cercai di calmarlo, di imbonirlo… niente, tutto inutile.

La maestra si avvicinò, tentai di spiegarmi ma il suo sguardo distaccato mi gelò. Mi rimproverò senza alzare la voce. Comunque riuscii a tenere il colore per il tempo utile a completare quella parte del mio lavoro.

L’episodio mi fece sentire solo. Ebbi la sensazione di essere messo da parte. E questa sensazione venne rafforzata dall’ atteggiamento sempre distaccato della maestra verso di me, ma non verso altri, ai quali sembrava mostrare aperta simpatia.

Passate le settimane, i rapporti cambiarono lentamente e miei compagni iniziarono a parlarmi, a chiedermi perché fossi arrivato dopo, a prestarmi un colore quando ne avevo bisogno o a raccontarmi cosa avevano fatto la domenica.

I primi giorni però mi era sembrato di essere tornato agli inizi di ottobre, solo che non c’era la maestra Cappella a tentare di consolarmi e neanche Giannino. Ero solo. Quando mi prendeva quel momento di tristezza, chiedevo di uscire per andare in bagno. Ma potevo farlo solo una volta al giorno e non mi era consentito stare fuori a piacere. Uscivo dall’aula lentamente, ma prima di andare in bagno mi fermavo di fronte all’acquario, guardavo i pesciolini, e, rivolgendomi a quello più vicino a me, dicevo:

“Pesciolino…pesciolino, tu sei fortunato, hai la tua casa nella scuola, non la devi lasciare. Io invece sono lontano.”

Egidio Lapenta

1 Commento

  1. Un racconto poetico, “antico”, commovente. Un tempo andato, la famiglia… la scuola… la comunità…
    Grazie.
    Monica Occhi

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