Privacy e pandemia

Il problema è saltato fuori a proposito degli «obiettori di vaccino» nell’ambito del sistema sanitario. È stato – relativamente – semplice emanare una legge che li penalizzasse perché rappresentano un pericolo per i malati che dovrebbero curare. Ma, nel momento dell’identificazione, i computer sono andati in corto circuito. Mettere in comunicazione gli elenchi delle varie fonti istituzionali coinvolte – regione, ordini professionali, autorità giudiziarie – solleva possibili violazioni delle normative vigenti sulla privacy, a livello nazionale e, salendo per li rami, europee. Una bella patata bollente. A chi spetta il compito di pelarla? Ci sono due scenari, e sarebbe il caso di chiarirsi le idee, e di scegliere.

Il primo è quello favorito dal circuito partitico-burocratico, con gli annessi e connessi tribunalizi la cui tendenza – e prerogativa – è di attivare un processo – kafkiano – di deduzioni e controdeduzioni il cui risultato principale è di non produrre risultati. In questo caso, gli insabbiatori hanno un – ulteriore – vantaggio nel fatto che la questione della privacy non è limitata a questo – pur importantissimo – caso. Ma si estende, per analogia, a tutto il combinato disposto del contact tracing che la pandemia ha innescato – o avrebbe dovuto – nell’interesse della salvezza dei cittadini dal rischio Covid. Sappiamo come l’Italia sia – nel panorama occidentale – tra i paesi che hanno accusato i ritardi più clamorosi in questo obiettivo strategico. A cominciare dall’app Immuni, impantanatasi nel back-office delle amministrazioni regionali che, per salvaguardare l’anonimato degli utenti, si erano viste assegnare il compito di inputare più o meno manualmente le informazioni che ricevevano dall’app. Sono noti i casi clamorosi di alcune regioni che si sono praticamente dimenticate di farlo, vanificando l’efficacia dell’intera rete di rilevamento.

In gran parte, queste disfunzioni hanno origine – e un’alibi – nella notoria arretratezza informatica della pletora di organismi che hanno un qualche titolo a raccogliere e gestire elenchi di vario ordine e grado. Contrariamente all’opinione comune, fare dialogare questi elenchi – tecnologicamente – non è semplice. Ma nel caso italiano la missione è quasi impossibile. Anche quando – raramente – c’è un chiaro indirizzo politico, è facile dissiparla invocando l’assenza di risorse – hardware, software e know-how – indispensabili per attuarlo.

Per uscire da questa impasse, ci sarebbe il secondo scenario: fare decidere al governo. È la linea che hanno seguito i paesi del sud-est asiatico, democratici o autoritari: dalla Cina alla Corea del Sud, passando per Singapore e il Giappone. Utilizzando un’esperienza ventennale nella centralizzazione telematica delle informazioni e un livello di digital literacy molto elevato dei propri cittadini per attuare con molto più rigore e – sembrerebbe – migliore efficacia policy di regolamentazione e vigilanza su alcune libertà elementari. La reazione in occidente è stata – come spesso succede – ambivalente. Abbiamo letto prese di posizione – di opinionisti e di partiti politici – che peroravano di adeguare le nostre policy sanitarie alle avanguardie di quei paesi. Salvo udire – spesso, dai medesimi attori – catalinarie contro gli abusi che quelle policy comportavano per la salvaguardia della privacy.

È bene dirselo con franchezza. L’equilibrio tra queste due spinte non è facile, e chiama in gioco alcuni delicati capisaldi della democrazia. Ma, al tempo stesso, occorre – al più presto – prendere atto che, col passare del tempo e il protrarsi della crisi pandemica, crescerà per i governi la spinta ad adottare soluzioni efficaci. Ci sono, nella storia democratica, due principi di legittimazione che competono per la supremazia nel consenso popolare: utilità versus procedure. A seconda delle circostanze, la spinta delle masse propende per decisioni politiche ispirate al massimo dei risultati concreti, o, viceversa, al rispetto puntiglioso dei vari requisiti normativi. Nel panorama attuale italiano, la prima opzione riscuote maggiore favore a destra, mentre la sinistra tende ad arroccarsi sulla seconda.

Ma è tutt’altro che una costante. Nel caso che, per eccezionalità e ampiezza della crisi da affrontare, più assomiglia alla contingenza odierna, FDR non esitò a bypassare le pastoie burocratiche dell’epoca e a sfidare l’ira e le reazioni della Corte Suprema, rifacendo da cima a fondo la macchina del governo per lanciare – e fare funzionare – il mastodontico programma del New Deal. Il nodo che Draghi deve sciogliere, oggi, non è molto diverso. Approfittare degli investimenti ingentissimi in digitalizzazione per imporre una svolta chiara in direzione della efficienza, anche a costo di sollevare un ampio coro di reazioni indignate. Ormai dovrebbe essere chiaro che il vero nodo non è trovare risorse, ma spenderle velocemente. Liberandosi di lacci e lacciuoli, anche quelli che – spesso impropriamente – si nascondono dietro lo scudo della privacy.  Con l’autorevolezza di cui gode, il premier è ancora in tempo per farlo. Per usare una formula nota: whatever it takes.

di Mauro Calise.

(“Il Mattino”, 26 aprile 2021).

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