Provaci ancora, Enrico

La situazione del Pd la conosciamo. Un partito di correnti e notabili chiuso nelle stanze del potere, e con scarsi e arrugginiti canali di comunicazione con l’esterno.  E, quel che è peggio, con una proterva velleità di autorappresentarsi come messianico salvagente del paese. L’addio traumatico di Zingaretti ha coraggiosamente squarciato questo velo di ipocrisia, e di ignoranza. Enrico Letta, nel suo discorso di ieri, ha ribadito questa denuncia, e rilanciato. Col tono pacato di antileader, ha accolto con il coltello tra i denti l’abbraccio di quello stesso partito che – solo sette anni fa – lo aveva mandato in esilio. È tornato con la statura morale – ed intellettuale – di chi non ha niente da perdere. E ha fatto partire tre siluri destinati ad affondare la vecchia classe dirigente. O, se fallisse l’obiettivo, a far saltare la sua segreteria.

Il primo riguarda i cambiamenti negli assetti istituzionali in parlamento. Dei quattro annunciati, due rischiano di impantanarsi facilmente. Cambiare il sistema elettorale e regolamentare i partiti sono riforme tanto necessarie quanto aspramente divisive negli attuali equilibri interpartitici. Di maggiore – e più facile – portata sarebbe varare le altre due proposte. Modificare i regolamenti delle camere per tagliare le ali ai gruppi misti, invece di incentivarli e foraggiarli, darebbe un colpo durissimo al trasformismo, senza intaccare il sacrosanto privilegio della libertà di mandato. Ancor di più, introdurre anche in Italia il meccanismo della sfiducia costruttiva darebbe al Presidente del Consiglio un’autorevolezza – e un potere – pari a quelli dei partner europei. Può darsi che si stia sognando ad occhi aperti. Ma mai, nel turbinio di segretari di partito a sinistra, c’era stata una enunciazione così asciutta e perentoria di riforme istituzionali – fattibili – che darebbero un nuovo assetto al sistema paese.

Il secondo impegno strategico riguarda il rapporto con l’Europa. Questo aspetto era più scontato, fa parte – almeno a parole – del Dna dei democratici. Colpisce, però, il linguaggio, la dimestichezza dei dossier di cui Letta ha dato prova elencando, con chiarezza in pochi minuti, quali saranno gli appuntamenti chiave in cui l’Italia si giocherà la partita di una vera svolta in Europa. Si è capito che il nuovo segretario, grazie anche alla seconda vita francese, ha maturato una consapevolezza degli attori e degli scenari europeisti all’altezza di quella accreditata al premier e alla sua squadra. Una buona notizia per chi crede che le elite, senza un raccordo popolare, hanno inevitabilmente il fiato corto.

Il siluro più dirompente e rischioso – per la vecchia nomenklatura e il neosegretario – riguarda la ricostruzione del partito. È stato l’esordio di Letta: non vi serve un nuovo segretario, vi serve un nuovo partito. Ed è stato lo sprint conclusivo, arrivato dopo quasi un’ora di soporifera minuziosa rassegna di ogni tema e relativa constituency sull’agenda dei prossimi dieci anni. In poche battute il segretario ha parlato di modelli di partito come un docente – aggiornato – di scienza politica (per fortuna con parole semplici), indicando senza mezzi termini una strada. Tra il modello leaderistico e quello orizzontale, alla Rousseau, deve esserci una terza via. Che non può che partire da Internet, e dalla centralità che oggi riveste nella vita di tutti i giorni. Con la rete – grazie alla rete – si può aprire rapidamente la partecipazione all’esterno, immettendo aria nuova nei circoli e spalancando le porte del partito ai giovani che sono i grandi assenti, tra gli elettori come tra i militanti.

A questo punto vi starete chiedendo come è possibile che, con un simile programma, Letta abbia raccolto una bulgara unanimità dei votanti. Potete scegliere tra due ipotesi. O molti tra i delegati si erano appisolati durante la prima parte della relazione, e si sono svegliati soltanto col campanello della votazione. O, sull’orlo del precipizio, perfino tra i politicanti più incalliti ha prevalso l’istinto di sopravvivenza. In ogni caso, col discorso di ieri, Letta ha dato prova che c’è, ci sarebbe la strada per risorgere dalle ceneri in cui il partito è ridotto. Per questa lezione di coraggio, chapeau.

di Mauro Calise.

(“Il Mattino”, 15 marzo 2021).

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