Il puzzle della sfida climatica

Viste le aspettative negative sulla piega che avrebbe preso il summit di Dubai, ogni spiraglio di accordo viene salutato con comprensibile favore. Ma lo scenario è cambiato. Rispetto agli entusiasmi di qualche anno fa, si fa strada la consapevolezza che le intese che – forse – ci saranno rispecchieranno la dinamica multipolare che ormai segna il panorama internazionale. E con tempi e scadenze che si stanno notevolmente dilatando.

Con un’altra importante novità. Se fino a ieri ci si era illusi di puntare quasi esclusivamente sulle fonti di energia alternative, oggi si stanno rispolverando quelle antiche o che ritenevamo superate. A cominciare dal carbone, che – sul medio periodo – continuerà ad avere un ruolo importante. E arrivando al rilancio in grande stile del nucleare, che ha esorcizzato il tabù con cui era stato messo in stand-by ed è tornato ad essere un protagonista di primissimo piano – ovviamente per quei paesi che già ce l’hanno e molto più facilmente possono pensare a svilupparlo.

Per comprendere le resistenze a una marcia che appariva trionfale, basta affacciarsi nel retrobottega dei paesi che, con tre miliardi di abitanti, controllano quasi metà dell’infrastruttura civile – servizi, occupazione, consumi – che andrebbe modificata per diventare eco-compatibile. La Cina va avanti a stop-and-go. Mietendo un primato dopo l’altro nella corsa alle auto elettriche, che ormai stanno invadendo l’Occidente. Ma senza intaccare l’utilizzo di combustibili tradizionali, indispensabili per fare funzionare il proprio sterminato apparato industriale.  L’India, terza al mondo per emissioni globali, è la principale imputata per il rifiuto di diminuire la propria dipendenza dal carbone. Ma mettetevi nei panni di Modi. Dal carbone dipendono oltre due terzi della rete elettrica nazionale, e dà lavoro a tredici milioni di persone. Inoltre, le società fornitrici sono endemicamente a corto di quattrini, per la difficoltà a farsi pagare le bollette nelle – estesissime – aree più povere. Senza contare che si tratta di imprese che operano a livello regionale, e che l’assetto federale del paese lascia pochi margini di intervento al governo centrale. Anche se volesse cambiare, Modi potrebbe fare ben poco.

E, comunque, le potenze – a parole – più convinte, non avrebbero molti argomenti. Germania, Francia e Inghilterra, infatti, si stanno tenendo ben strette – e ben sfruttate – le proprie riserve di carbone. Consapevoli del nuovo imperativo che, dopo la guerra ucraina, sta dettando legge: autosufficienza energetica. Prima del cataclisma che ha sconvolto le reti di approvvigionamento internazionale di gas, ogni paese pensava a rifornirsi dove trovava i prezzi più convenienti. Oggi che buona parte dei traffici devono fare i conti con i blocchi – fisici e finanziari – della guerra, sono cambiate le priorità. Il durissimo inverno del ’20 e del ’21 ha reso tutti più cauti nell’affidarsi all’energia altrui. Il colpo più duro della crisi della globalizzazione sta proprio nell’incertezza che attanaglia i vertici governativi, industriali, finanziari quando si tratta di abbracciare politiche che mettono a repentaglio la sicurezza nazionale.

Col risultato che si sta creando una forbice paradossale tra i danni del riscaldamento climatico, sempre più drammatici e impellenti, e la nostra incapacità di correre concretamente ai ripari. È come se ci stessimo avvitando in una sindrome di impotenza. Da un lato la consapevolezza che potrebbe essere addirittura troppo tardi. Dall’altro, la presa d’atto che si stanno moltiplicando e addensando gli intoppi, sia internazionali che interni. I traguardi di riduzione dei gas serra continuano ad essere spostati, per la paura di danneggiare produzioni industriali strategiche – che si tratti di automobili o di armi – mentre altri paesi si avvantaggiano delle nostre politiche virtuose.

Mai come su questo fronte, così cruciale per il nostro futuro, si sperimenta il disallineamento tra le massime potenze mondiali. Russia e Cina, India e Stati Uniti, ormai parlano lingue diverse. Mentre l’Europa – come Mario Draghi amaramente ci ha ricordato – non proferisce parola.

di Mauro Calise.

(“Il Mattino”, 4 dicembre 2023)

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