Si è aperta alla Triennale di Milano una mostra dedicata a Elio Fiorucci, a dieci anni dalla sua morte.
Quando scoppiò la moda di Fiorucci, Milano non era ancora “quella da bere”, ma una città che ancora sapeva mantenere in armonia tradizione e innovazione, vecchio e nuovo.
Per chi, come me, lavorava in pubblicità c’era sempre una gran gioia di incontrarsi e di discutere, furiosamente ma senza violenza alcuna, si chiacchierava bevendo il Cuba liber, portatori sani di un entusiasmo creativo senza confini, mangiatori bulimici di tutto, non ancora annientati ed abbruttiti da quella globalizzazione che iniziava ad allungare le sue grinfie demoniache nelle nostre anime.
La creatività era genuina, sommessamente dialettale, pulsava di genialità, parlava dei propri colori, odori, sapori.
Ancora c’era nell’aria aria di “Carosello”, i ritornelli istigavano il fischiettare nelle strade, i negozi erano piccoli e genuini: il panettiere e il salumiere, il fruttivendolo e il droghiere erano casa, raccontavano una sana quotidianità e ancora qualcuno aveva il libricino blu per annotare il conto della spesa.
Lo yogurt era lo Yomo, il formaggino era Mio, le calze SiSi e si faceva la battaglia natalizia tra il Panettone Motta e quello di Alemagna.
Iniziavamo allora quel tradimento che poco a poco ci ha portati nell’agonia di oggi.
Si iniziava a cambiare Gianni in John, a ricevere sorridenti i primi doni avvelenati dall’America, nascevano le prime copiature che scavalcavano la verità di chi veramente eravamo, facendoci assumere nomi impropri e distruttive andature da miseri cowboys.
Fiorucci stava a metà strada. La bilancia cominciava appena a pendere dalla parte del neoliberismo disperato d’oggi.
Da buona famiglia di pantofolai, Fiorucci portò a Milano un’America ammorbidita tra pin-up e angioletti.
Piazza San Babila era ancora divisa in due, una casereccia guerra fredda: al Pedrinis con le borsette di Gucci quelli di destra, sui marciapiedi con l’eskimo quelli di sinistra.
Ma tutti insieme, al sabato, da Fiorucci. Si respirava già aria di finti bisogni, ma non ci accorgevamo che non ne avevamo bisogno.
Siamo stati abbacinati dalle luci, dalle scorpacciate possibili di tutto, iniziava lo spettacolo di nani, ladri e ballerine.
Aveva ragione Pasolini, ci vedeva per quello che ancora non eravamo diventati, avevamo già tutte le caratteristiche della massa, che aderisce sempre al peggio, come la nostra Rai, che si adeguò alle televisioni commerciali.
Per andare a vedere la mostra alla Triennale ci vuole coraggio, almeno per noi che con quelle cose abbiamo fatto la storia.
La storia con la s minuscola, s’intende, quella storia che ora passa di qua, ora va dall’altra parte e non si capisce perchè.
Fiorucci è stato un grande creativo, ce ne erano allora, prima che ci vendessimo l’anima al diavolo.
Peccato che con quegli angioletti azzurri, Fiorucci non c’abbia messo dentro anche un rosso diavoletto.
Un avvertimento che avremmo compreso ?
di Patrizia Gioia
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