Nel panorama irrazionalmente gremito dell'”offerta cinematografica” plurimediale multitasking ormai riuscita a sopraffarci, l’attenzione al tradizionale declinare tardoprimaverile e anonimo della vecchia cara stagione nelle rare sale superstiti consente, come quasi ogni anno, isolati quanto splendidi incontri.
Il ritorno, per fortuna… “dal 14 giugno, al cinema” (!) della firma di Terence Davies è stato già di per sé un evento: a priori, senza neppure andarne a scoprire le carte. Ancora di più, se disvelato a tempo debito: coraggio e testardaggine di una recente distributrice hanno fatto finalmente giungere questo film, a due anni dall’uscita originaria preceduta da positivi passaggi a Toronto, Londra e Berlino. E grazie ancora una volta a Paolo Pasquale, che ad Alessandria è riuscito a farlo vedere…
Davies mancava dal circuito italiano dal 2000 (La casa della gioia da Edith Wharton). Poi lo straordinario Il profondo mare azzurro (da Rattigan) aveva dovuto accontentarsi del –qui benemerito…- digitale Rai; dell’immediatamente precedente Sunset Song (2015, dal primo volume della trilogia scozzese di F.G. Gibbon, ) al momento nemmeno l’ombra. Volutamente rammentate le fonti letterarie, per constatarne la persistenza nell’orizzonte del Davies maturo.
Se non altro la voce, già, della Dickinson si era già affacciata direttamente nel suo cinema dieci anni fa, nell’assai riuscito e suggestivo documentario, ancora una volta profondamente ed esplicitamente autobiografizzante, sulla sua Liverpool designata a capitale europea della Cultura, Of Time and the City. Una sua poesia (quella contrassegnata dal numero 301 sulle 1775 dell’edizione definitiva) vi sopravveniva nel finale, quasi a sigillare in via definitiva la riflessione profonda sui sessant’anni di dopoguerra nella città, in Gran Bretagna e nel mondo. (Ma chi scrive, anche in quanto coetaneo di Davies, è forse particolarmente “esposto” a determinati discorsi e registri). Ha comunque fatto piacere constatare nel particolarissimo film il ritorno di immagini, temi, suggestioni e suoni immediatamente richiamanti il suo probabile capolavoro, Voci lontane sempre presenti (sono passati trent’anni: già questo grande film rischia di essere a sua volta oggetto di una metanostalgia; né si può dimenticare il prodigio originario della sua Trilogy). Of Time and the City metteva anche in campo la produzione locale di Liverpool (Hurricane/Potemkino di Boulter e Papadopoulos) che avrebbe poi realizzato tanto questo film che l’immediatamente antecedente Sunset Song.
Quanto alla produzione poetica dickinsoniana, al di là di sporadici sondaggi in rivista negli anni Trenta, aveva cominciato a essere resa parzialmente disponibile da noi in versione solo a partire dall’immediato dopoguerra, con molteplici apporti concorrenziali (largo e reiterato quello di Margherita Guidacci). Gli ultimi stessi trent’anni, determinanti per la definitiva consacrazione e la corrispondente disponibilità completa dei suoi testi in Italia: anche Emily insomma… voce lontana sempre presente! Col meritorio lavoro di coordinamento appassionato di Marisa Bulgheroni, fino al suo affidamento della revisione complessiva dell’intera maxi raccolta via via tradotta in italiano nel tempo a Massimo Bacigalupo, che a sua volta aveva anticipata la propria versione (Oscar Mondadori, 1995), producendo l’imprescindibile Meridiano di due anni dopo. Nel quale il saggio introduttivo della Bulgheroni è magistrale quanto la sua successiva biografia Nei sobborghi di un segreto (ancora Mondadori, 2001). Anche le reiterate edizioni italiane delle Lettere hanno completato il quadro: le une con le altre costituiscono l’intero patrimonio letterario e biografico della Dickinson, consentendo di seguirne giorno dopo giorno, a incastro, la privatissima e ritirata quanto interiormente intensissima parabola esistenziale.
Proprio l’obiettivo perseguito da Davies, in questa prova assai felice pur nata su commissione. Selezionando in progressione i passaggi salienti, grazie a un’approfondita conoscenza delle intime vicende, resa possibile dalla minuziosamente mai esaurita ricostruzione a posteriori da parte di una critica letteraria e biografica appassionata e agguerrita, sfociata nei decenni più recenti in un’autentica moda internazionale, agevolata anche dalla solo apparente e malintesa “semplicità” dei suoi brevi versi.
Con una straordinaria capacità, sempre in Davies, di ricostruire nell’essenza il cuore culturale bicentenario del Puritanesimo americano del XIX secolo, affacciato su di una letteratura nello stesso tempo provinciale (le rade e incerte pubblicazioni dickinsoniane nei periodici di seconda classe; i contatti con l’intellettualità periferica locale) e di primaria grandezza (contemporanei e strettamente conterranei di Emily i protagonisti, poi accomunati dalla geniale intuizione critica del Matthiessen, lanciato da Pavese, di “Rinascimento americano”: in particolare Emerson e Thoreau, signori dell’area bostoniana in quei decenni). Operazione sublimata da una cura scenografica, costumistica e arredativa pari se non superiore a quelle di Visconti per Senso [ Scotti-Brosio ed Escoffier/Tosi] e Gattopardo [Garbuglia-Pes/Hercolani-Tosi] o di Scorsese per L’età dell’innocenza (Ferretti e Pescucci: e sulla Wharton era tornato di recente, come ricordato, lo stesso Davies).
«Una prodigiosa adolescente, nata vecchia e tale rimasta per tutta la vita», come ha sintetizzato felicemente Luigi Sampietro recensendo l’antologia poetica di Nicola Gardini Il cuore in libertà (Salani: Domenica» de «Il Sole-24Ore», 106, 22 aprile 2017). Quando Emily nasce, nel 1830, di qua dall’Atlantico Leopardi ha già trentadue anni (gliene restano solo sei e mezzo), è tornato per la seconda volta a Firenze immerso nel tentativo di pubblicarvi i Canti, oltre che di costruire utilmente le fondamenta dell’amicizia con Ranieri, e inutilmente quelle dell’innamoramento per la Targioni. L’apparentemente estemporaneo accostamento ha un senso non peregrino: al di là della casuale simultaneità biografica di due tra i massimi poeti mondiali dell’Ottocento, l’operazione di Davies richiama strettamente quella dedicata al poeta di Recanati dall’altrettanto grande (rispetto a Davies, non a Leopardi…) Martone del 2014. Non solo per le vistose analogie estrinseche di epoca e livello poetico, seppure in una visione complessiva della vita, del mondo e del poetare stesso, nei due autori, quanto più possibile immaginabile agli antipodi. Non lo sono però le posizioni “filosofiche” di fondo, e neppure i rispettivi rapporti con i più o meno selvaggi borghi natii, sebbene Emily cerchi di risolverli con l’autoclausura, dopo le sporadiche e rade incursioni esterne, e Giacomo all’opposto con un patetico, reiterato tentativo di illusorio andarsene per il mondo, appunto tra Firenze e Napoli. Ma ad accomunare i film è soprattutto la capacità eccezionale, denotata dai registi, di entrare realmente nella sostanza dell’opera degli autori ritrattivi e nel suo senso. Operazione delicatissima e rara (cosa potrebbe sortire, ad esempio, su Pascoli dal lavoro di Garboli, se nelle giuste mani…): del tutto opposta, ad esempio, ad una situazione totalmente estrinseca come quella del Campana affrontato da Placido in Un viaggio chiamato amore (facendo peraltro leva piuttosto sul personaggio e sull’opera dell’Aleramo).
Straordinario il modo in cui Davies ha saputo raggiungere nel profondo il nucleo esistenziale e la sostanza ultima dell’esperienza di Emily nella sua resa poetica, destinata a un sensazionale scoppio ritardato, che forse non ha pari nel panorama di quella un tempo definita “letteratura universale”. «Perché stupirsi che una donna, capace di scrivere i versi che scrisse, a metà Ottocento, in un’America ostile a qualsiasi forma di vacillamento della “fede” (nei confronti della religione, della politica, dell’uomo stesso), “nascondesse” il suo lavoro, o perché chiedersi se fosse vero o meno che le interessasse pubblicare? L’intimità, la purezza, l’inflessibilità del suo dettato poetico non avrebbe trovato in lettore preparato a quei tempi ad accettare che una donna (o un uomo) potesse arrivare a “tanto” » ha scritto Barbara Lanati nell’altra sua biografia, L’alfabeto dell’estasi (Feltrinelli 1998): «A tanto e tale senso della rivolta, della ribellione, a tanta dilacerante consapevolezza dell’abisso che divide il desiderio dalla sua stessa realizzazione, da costringere se stessa e il suo potenziale lettore a guardare da vicino lo spettacolo agghiacciante di un io che vede l’abisso che separa “anima” e corpo. A osservare, entomologo del dolore, quella separazione e accettarla come necessaria e incolmabile. Quella separazione infatti è per Emily sorgente primaria e approdo finale del lavoro della poesia».
Non a caso la cosa della sua vicenda maggiormente piaciuta a Davies, per sua stessa ammissione, è stata «la sua sfida solitaria al mondo». Tratteggiata aggiungendo «qualche [sua] nota personale» a quanto appreso dagli accademici di Amherst, il luogo effettivo e originario di Dickinson, utilizzato per gli esterni.
Nel leggere le sue poesie «si ha sempre l’impressione di entrare in un terreno minato. E, soprattutto, di violare qualcosa di sacro. Anche perché, più che pensieri intimi affidati alla carta da una voce narrante, sembrano gli appunti di un colloquio tra sé e quella parte di sé -il punto luminoso della nostra interiorità, come dice Emerson» (è ancora Sampietro) «in cui si rivela il divino. […] Una poesia oracolare-profetica, che si esprime sul piano dell’eterno». Tesi rafforzata da Leonetta Bentivoglio: «Sfiorando zone di trascendenza, Emily guarda lontano, ma senza rinunciare alla concretezza di un’osservazione declinata al presente»: ed è proprio su questo risvolto che Davies si è saputo muovere con estrema lucidità e coerente determinazione.
Una sensazionale impressione, che avrebbe potuto persino farsi anche sensorialmente tattile (come sarebbe piaciuto alla Sontag teorica dell’”erotica dell’arte”) attingendo direttamente ai manoscritti, che Davies invece è stato costretto a limitarsi a far intuire (si allude e rinvia al libro d’artista di Jen Bervin dedicato alle 52 poesie manoscritte da ED su buste usate o loro frammenti, studiate da Marta Werner: ora anche nella versione italiana e cura Fusini, Buste di poesia, Archinto 2017).
Precisa e motivata anche la sua scelta linguistica di Davies (che certo non sarebbe dispiaciuta … all’ interessata!): «Non mi piace il montaggio veloce, è come il cibo poco nutriente di un fast food. Per questo faccio lunghi piani sequenza: quando si è obbligati a guardare si cominciano a intravedere quegli “attimi fuggenti” che nascondono un senso più profondo». Posizione stilistica cementata da una straordinaria colonna musicale selezionata, come già per il film su Liverpool, da Ian Neil, che qui mescola a brani contemporanei pagine di Beethoven, Eduard Strauss e altri raggiungendo un’eccezionale acme di coerenza con le immagini (il personaggio della divina Jenny Lind canta Bellini e Schubert).
C’è una profondità di lezione finale, sconfinante provvidenzialmente nell’attualità. Questo ritrarsi, questo scomparire, questo preferire la lentezza, l’isolamento, il silenzio al loro contrario, potrebbero rappresentare anche, e forse soprattutto oggi, un prezioso quanto presumibilmente poco ricercato antidoto. Ma se… avesse avuto ragione lei nella decisione radicale di “stare da sola” –sembra voler sottintendere Davies- ci riscopriremmo tutti quanti dalla parte sbagliata della storia (o della Storia?).
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