Il futuro politico di Renzi è tornato ad essere il puzzle preferito sulla scena politica italiana. L’uomo – si sa – ha una marcia in più rispetto a tutti gli altri leader in campo. Più preparato, più scaltro, più spregiudicato. Tutte qualità che ne fanno l’interprete ottimale di quel mood fiorentino che sembrerebbe tornato ad essere lo spirito del tempo in Italia. Fratelli coltelli ad ogni canto, abbracci armati di pugnale, serenità a proprio rischio e pericolo. Per le doti di cui già dispone, non gli serve un novello Machiavelli. Ma anche per un’altra ragione. I consigli del grande Niccolò restarono inutilizzati non tanto perché mancò il Principe giusto. Ma perché vennero elargiti alla vigilia di un cambiamento di epoca storica nella gestione delle truppe: da quelle agili di ventura si passò – in pochi decenni – alle macchine degli eserciti nazionali. È questa la trappola di Renzi. Il suo carisma e la sua velocità nascondono una congenita riluttanza ed incapacità nel costruire una organizzazione. Proprio quando i partiti son tornati a misurarsi con il nodo storico della loro ascesa, e declino: l’efficienza del motore organizzativo.
Fateci caso. I discorsi sul renzismo ruotano sempre intorno ai sondaggi – qualche punto percentuale in più o in meno – ai seggi parlamentari disponibili, alle nomine su cui vorrebbe incidere. Mai una parola su quali e quante forze – militanti, simpatizzanti, follower – ci siano sul territorio o nell’etere, come siano collegate tra di loro, se e in che modo facciano rete. Se vi occupate di primarie USA, avrete una radiografia dettagliatissima di quanti incontri ogni candidato stia facendo, quanta gente vi stia partecipando, quanti soldi stia raccogliendo. E quanti ne stia investendo – e con quali riscontri – in quello che ogni politico americano considera l’arbitro della vittoria, il mondo social. Se avete fatto – dieci anni fa – l’errore di iscrivervi alla newsletter di Obama, vi beccate almeno due post al giorno dall’ex suo vice, in cui vi chiedono di mollare qualche dollaro, e sempre per la stessa ragione: Sanders e Warren sono in netto vantaggio nel fundraising grazie alle microdonazioni, e possono spendere molto di più su Facebook, Instagram e Twitter.
Cosa sta facendo Italia viva su questo fronte? Molto probabilmente, poco o niente. Renzi, da segretario del Pd, ha avuto per più di tre anni l’autorità – e l’autorevolezza – per rivoltare il partito come un calzino. Non ha mosso una sedia. Rimase celebre la sua promessa – dopo la debacle napoletana – di scendere con il lanciafiamme. Non si vide neanche un cerino. Come è possibile tanta riluttanza – al limite dell’insipienza – in un leader sulla cui attitudine a gestire la complessità del governo pochi – anche tra i molti nemici – nutrirebbero dubbi?
La risposta è di tipo culturale. Renzi concepisce il consenso come frutto di opinioni e interessi. Gli interessi del mondo moderato, che sa molto bene interpretare e che, infatti, continua a guardarlo con simpatia. Ma, numericamente, si tratta di un mondo molto limitato. Le cose, col circuito d’opinione, vanno – se possibile – peggio. Renzi parla ai lettori di giornali – notoriamente, in caduta libera–, ai reduci dell’ars retorica che amano le argomentazioni serrate – ricordate la ciceroniana orazione con cui al Senato celebrò la propria resurrezione? Un mondo che è l’esatto contrario di quello cui si rivolge Salvini. Grazie al bimotore del suo partito: la rete territoriale della Lega e quella virtuale della Bestia. Due motori che parlano due lingue, diverse, ma non incompatibili. La concretezza della tradizione, e la immediatezza della passione. Lasciate stare per un momento i contenuti, concentratevi sugli ingranaggi. Ingranaggi, insieme, antichi e moderni.
Chi continua a pensare che la rete sia il regno delle fake news, da illuminare e bonificare, è prigioniero di un’idea di progresso che appartiene, ormai, al secolo scorso. La rete – nel bene e nel male – è diventata la nostra vita quotidiana. Da quando, grazie ai social media, le masse si sono personalizzate, non si esprimono più come corpi collettivi. E se ne fregano delle opinioni con cui le elite litigano sui giornali. Per rompere la barriera del suono del partitino del 5 per cento, a Renzi servirebbe un motore per entrare nell’orbita del cyberspazio. Non basta più, però, un lanciafiamme. Ci vorrebbe – almeno – un lanciarazzi.
(“Il Mattino”, 4 novembre 2019).
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