Ricordando Gianni Ferraris

Gianni Ferraris (12 agosto 1951- 10 maggio 2025) è mancato questa mattina. Era stato un collaboratore di Città Futura e poi di alcuni blog e giornali pugliesi. Ha scritto alcuni saggi per il “Quaderno di Storia contemporanea” e alcuni libri, uno dei quali dedicato al fratello Aurelio, caduto tra Nicaragua e San Salvador, mentre combatteva in uno dei gruppi rivoluzionari tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta del Novecento.

Eravamo una generazione che sembrava destinata a restare per sempre giovane, la prima che aveva potuto godere il lusso dell’adolescenza. Ci appropriavamo con gioiosa insolenza delle strade e delle piazze, sventolando bandiere, giocando tra paura e goliardia a rimpiattino con i celerini in assetto di guerra, gridando slogan di cui oggi un po’ ci vergogniamo, sfilando beffardi e prepotenti, saltando tutti a tempo, come ora non sapremmo più fare, tenendoci per mano per fare cordone e a tratti correndo per tenere unito il corteo, tra le nostre risa gridate al cielo e gli sguardi di rimprovero di quelli che allora chiamavamo vecchi, gli impiegati che “contavano i denti ai francobolli” e che avevano metà degli anni che abbiamo adesso.

Nelle fotografie che restano di quel nostro tempo lontano, siamo ancora e sempre giovani e sorridenti, capelli al vento, jeans e maglietta con il Che e noi ragazzine ancora con le gonne, i calzettoni e i mocassini, con l’allegra improntitudine di chi crede d’esser padrone del mondo e del futuro, con l’orgoglio di chi crede di poter essere un eroe destinato a cambiare il mondo. Eravamo giovani, eravamo vivi, eravamo entusiasti, perché ancora non sapevamo cos’è la vita. Noi, ultimi arrivati nell’ultima ondata di quel lungo Sessantotto che avevamo quasi perso per ragioni d’età. Noi, che imitavamo i fratelli maggiori e volevamo fare la rivoluzione di maggio ch’essi avevano tentato e che, quando arrivammo, era già fallita, com’era inevitabile che fallisse. Noi che avevamo perso la primavera francese e ci affacciammo alle lotte studentesche quando l’autunno era già arrivato, ma – per gramsciano ottimismo della volontà – pensavamo di essere ancora in tempo. In tempo, già, perché avevamo ancora il tempo, tutto il tempo di questo mondo.

Dov’è ora quella nostra hybris, dove si è nascosta quella nostra intransigenza seriosa e pungente che d’improvviso mutava in riso, dov’è sgocciolato il tempo eterno che credevamo di avere, ora che uno a uno i compagni di quegli anni se ne vanno? Se ne è andato Carletto; se ne è andato Nuccio e al suo funerale ci guardavamo spaesati, tanto era penoso contare le assenze, tanto era struggente riconoscere sotto le maschere della nostra vecchiaia i volti di allora.

E ora se ne è andato anche Gianni, che per tutta la vita ha inseguito il sogno vagheggiato dal fratello maggiore Aurelio, Elio come lo chiamavano tutti, in cerca di una rivoluzione impossibile da un paesino della pianura piemontese alla Puglia, fino al Nicaragua; Gianni, che per tutta la vita ha cercato Elio, a lungo dato per disperso e poi per morto in un Paese e in un conflitto che non erano i suoi. A lui ha dedicato una delle biografie più toccanti e delicate ch’io abbia mai letto.

Gianni, con quel suo carattere da Emiliano, più che da Piemontese, era sempre accogliente, sempre pronto ad aiutare tutti, sempre aperto all’ascolto e al dialogo, capace di costruire legami con chiunque, capace di mettere a proprio agio anche le persone più timide e riservate; ma, da Piemontese, non riversava mai sugli altri le sue sofferenze e, se gli domandavi, mormorava una frase, poi scrollava la testa e cambiava discorso. Aveva mille interessi, mille conoscenze e mille progetti e mille volte era capace di rialzarsi e di intraprendere un nuovo lavoro, una nuova avventura, un nuovo programma di vita.

Gianni per tutta la vita ha tenuto la stessa pettinatura a caschetto, prima di capelli nerissimi, poi bianchissimi, su un volto che pietosamente gli anni non avevano cambiato di molto. Ma quando è tornato a trovarci a dicembre era già smagrito e per la prima volta si sentiva fragile e non faticava più a restare fermo. Abbiamo poi scambiato qualche frase su facebook e qualche messaggio, ci siamo sentiti un paio di volte al telefono. Da inizio marzo, il silenzio.

Sembra impossibile che quel ragazzone allegro e saltellante, che mi chiese la matricola il primo giorno di scuola, che voleva a ogni costo ch’io uscissi con uno dei suoi amici (e in effetti uno dei suoi amici ho sposato) e che correva ridendo, davanti a me, nei cortei, non ci sia più. È corso avanti, nell’ultimo nostro manifestare, questa volta noi stessi.

di Patrizia Nosengo

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