In questo particolare momento, in cui la regione più industrializzata d’Italia, la Lombardia, sta soffrendo moltissimo per le innumerevoli vittime del Coronavirus e si aprono delle diatribe circa responsabilità regionali o statali riguardo il gran numero delle vittime, soprattutto fra gli anziani, io rammento un periodo ben preciso della mia vita.
Nella seconda metà degli anni ’70, terminati debitamente gli studi universitari e seguendo degli stimolanti, ma necessari, studi linguistici, ho avuto modo di incontrare e collaborare con dei piccoli industriali lombardi, che iniziavano allora la loro attività di esportazione.
Pratici, sbrigativi, si esprimevano praticamente solo in lombardo e ignoravano l’italiano, ma per un poliglotta come me la cosa era assolutamente indifferente.
Questi volevano risultati, solo risultati, ed era facile intendersi.
Per prima cosa, ti portavano a visitare i loro impianti, che progettavano di estendere anno per anno.
Poi ti chiedevano esplicitamente, quasi brutalmente, di quali mercati ti saresti interessato ed esprimevano il massimo di ammirazione per le mie conoscenze linguistiche, che tenevano in giusta considerazione.
Era una Cultura pratica, non astratta o parolaia, ma che si rivolgeva a un mondo della produzione tutto terra terra, molto comprensibile, non solo in Italia, ma anche all’Estero, per cui, dietro mia richiesta, si affrettavano a preparare magnifici cataloghi su cui spendevano ingenti somme.
La loro estrema praticità poteva essere intesa come una forma di scarsa istruzione, visto che per la maggioranza i miei interlocutori non avevano un titolo di studio da scuola media o superiore, ma io la prendevo come una forma di Lavoro, in senso letterale e non figurato, il lavoro come impegno manuale ed intellettuale per produrre Cose.
Di fronte ad odierne manifestazioni parolaie talmente vaghe e contorte, per cui si perde completamente il senso delle Cose, si contrapponeva la realtà, la fisicità di questi personaggi che riducevano all’osso, ma in modo efficace, quanto doveva essere fatto, prodotto, e che, con una stretta di mano, firmavano un contratto, avevano una sola parola e ti promettevano di crescere con la loro azienda.
In poche parole, cresceva il fatturato, crescevo anch’io.
Chiaramente, si parlava soltanto di soldi, ma, come voi potete ben capire, i soldi si possono trasformare in cose buone o cattive, anche nel sistema capitalistico.
Lo Stato era rigorosamente escluso da questa visione, era visto come un elemento di disturbo, di peso, che, puramente e semplicemente, “impediva” di lavorare.
Era da parte di questi piccoli industriali una visione, che potremmo definire “pre-bossiana”, ma estremamente chiara, e per certi versi (forse) giusta.
Certo che di fronte a una visione Romacentrica, imbutiforme, in cui i soldi arrivano senza sapere da dove e vanno senza sapere dove, il mondo di questi piccoli industriali era molto concreto, ma eran loro ad assumere decine e decine di operai, non sicuramente lo Stato italiano.
Ed io, nella mia funzione di manager, di venditore in giro per il mondo dei loro prodotti, mi sentivo parte di un’identità nazionale, che non è quella delle cerimonie e delle fanfare, nazionalismo di basso calibro, ma di un paese che lavora, opera, produce e fa conoscere i suoi prodotti reali in tutto il mondo.
Io ero una sorta di giunto cardanico fra queste fabbriche in sviluppo e il mondo esterno, reale, concreto, competitivo, senza il bisogno della mediazione di inutili chiacchere e vana retorica.
Quella era l’Italia del fare, non del dire baggianate, e quest’ultima Italia è esattamente quella in cui viviamo.
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