È stata una Pasqua di sangue e confusione: sangue versato in un luogo forse sconosciuto ai più, ma che ha raccontato della fragilità della nostra società, di quel puzzle multietnico che abbiamo costituito nel corso del lungo periodo post-coloniale; confusione fatta non tanto dalle urla dei sopravvissuti, ma dalle troppe parole e dai troppi pochi fatti che hanno popolato i palinsesti e paesaggi politici nostrani ed internazionali.
Questo povero paesaggio è quello in cui viviamo, anche nel nostro piccolo: paesaggio da piccolo mondo antico in disfacimento in un prolifico bla-bla che dall’internazionale, scivola giù al regionale, e al locale; paesaggio dalle tante storie di antagonismi e gelosie, di aspirazioni personali ed ego spesso troppo dilatati; paesaggio segnato dal reiterare acriticamente nuovi e vecchi simboli dietro cui si nascondono troppo spesso sbiadite idee e viscerali antagonismi.
Questo paesaggio nella sua confusione non ci aiuta a riflettere sul senso del sangue che ci macchia le mani e le vesti. Non ne interpreta il comune colore, la comune sofferenza. Ci porta a pensare attraverso figure e parole che non danno più significato al mondo. Ci lascia persi, poveri, un contro gli altri armati, dimentichi del significato dell’uman catena.
Questa mia nota triste non è di resa, ma di presa di coscienza; della necessità urgente di capire dove siamo per ridare significato ad un agire. Le grandi parole-ideologie partorite nell’Ottocento, oggi, non servono più a costruire il futuro. Da socialismo, a nazionalismo, per non citare razzismo, sono parole che raccontano un mondo che fu, un essere uomini oleografico. Solo limitatamente riescono a spiegare le contrazioni dei corpi della nostra società.
Se queste parole non sono più scudo e guida, serve darvi nuovo senso o crearne di nuove. Creare nuove parole, infatti, non è un gioco meschino da parolaio, ma è scrivere mappe attraverso cui la nostra società si può ritrovare e fare largo nel mondo. Oggi, però, ostinandoci ad usare vecchie mappe, scopriamo che il segno è troppo sbiadito, tanto da fare anche le più semplici indicazioni, destra-sinistra, dei miseri deboli accenni di capo.
Volendo riprendere il cammino, si cerca la via e la si può ritrovare nel senso profondo di queste mani sporche di sangue; nel senso di responsabilità che si prova riconoscendo l’incompiutezza di processi storici di creazione di comunità, di dialogo, di eguaglianza; nella tristezza che si sente riconoscendo come “politica” e “cultura” oggi non siano parole per giovani; nel senso di urgenza che si prova, conoscendo la necessità di passare il testimone ad nuova generazione di protagonisti civici e riconoscendo, però, quella loro impreparatezza che le generazioni prima hanno saputo più o meno volontariamente ingegnerizzare. In queste cose si trova l’inizio della via, il senso della ricostruzione di cosa voglia essere veramente “politica”, costruire la città futura. Questa costruzione, però, non è fatta di istituzioni, ma di persone che riscoprono il senso di vivere assieme, nel camminare avanti, verso quel sole che oggi appare nascosto da pioggia e nubi.
Ecco un raggio di sole. Si riprende la via.
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