L’ultimo libro di Domenico Quirico, “Il pascià”, edito dalla UTET, è la storia di Romolo Gessi, che operò in Sudan al servizio degli anglo-egiziani, metà esploratore e metà combattente, contro la tratta dei neri.
La tratta ci fa pensare al grande fenomeno che diede vita alla triangolazione Europa, Africa, America, ma non alla triangolazione Africa, penisola arabica, Istambul, a causa della quale nei secoli milioni di esseri umani furono catturati e venduti da mercanti arabi sulle piazze egiziane, di Istambul e d’ Arabia.
Di ciò ci si dimentica sia per il ” mea culpa “ europeo sulla tratta, sia per il “terzomondismo” che ha rifatto una certa verginità al mondo arabo.
La stessa verginità che oggi ammanta il colonialismo cinese in Africa e non solo.
Oltre alla schiavitù, Quirico tratta il tema della notorietà dei nostri esploratori. Purtroppo, oggi pochi ricordano i loro nomi, specie di quelli che batterono le piste africane.
Chi rammenta Casati, Massaia, Gessi, Bottego o Antinori?
Questo a causa del ventennio fascista, che arruolò sotto la bandiera dell’imperialismo italiano tutti coloro che diedero un contributo alla conoscenza del continente africano, in particolare del Corno d’Africa.
Caduto il regime, gli esploratori italiani finirono in una specie di oblio.
Eppure, la maggior parte di questi si mosse spinta da un reale desiderio di conoscenza, spesso con mezzi limitati, al contrario di altri, abbondantemente finanziati dai loro governi.
Solo Bottego, per Quirico, operò anche per scopi politico- economici nazionali, tanto da essere paragonato al più famoso Cecil Rhodes.
Molti esploratori italiani inoltre agirono per conto di paesi stranieri. Gessi fu uno di questi. Dopo aver partecipato alle vicende unitarie italiane, fu ingaggiato dal leggendario Gordon pascià, che conosceva dai tempi della guerra di Crimea (1855-1856), per battere il Sudan con lo scopo di definirne i confini, ricercare le sorgenti del Nilo e stroncare la tratta degli schiavi, praticata da negrieri arabi con la complicità di funzionari egiziani e turchi.
L’ Egitto era ufficialmente una provincia ottomana, in realtà era governato da una dinastia vicereale, il cui capostipite, Mehmeth Alì, di origine albanese, aveva avviato l’espansione verso il Sudan, in arabo “paese dei neri”, con lo scopo di giustificarne l’aspirazione indipendentista.
Dietro l’Egitto c’era la Gran Bretagna. In Sudan la presenza anglo-indiana era mal tollerata dall’elemento arabo, che la giudicava opprimente, sia per i tentativi egiziani di regolamentare la tratta, sia per quelli inglesi di stroncarla definitivamente.
Questa era una voce importante dell’economia sudanese, producendo un gigantesco flusso di denaro dall’Egitto e dalla penisola arabica.
Gli schiavi erano usati anche come moneta, ma con le loro incursioni i negrieri arabi, oltre a creare veri e propri domini personali, stavano causando lo spopolamento soprattutto del sud Sudan (Darfur e Kordofan).
Il governo di sua maestà mirava ad una stabile area cerniera fra l’Egitto e domini in Africa australe, quindi avviò un’opera di repressione della tratta tramite l’esercito egiziano, guidato però da ufficiali britannici, come Gordon pascià appunto.
Romolo Gessi, portando avanti in parallelo il piano politico inglese, cercò le sorgenti del Nilo. E per questo si affiancò ad altri esploratori, come Piaggia, con il quale circumnavigò il lago Alberto alla ricerca di un immissario, che però non fu localizzato.
I due successivamente si separarono, perché, come fa notare Quirico, Piaggia non accettava i comportamenti spicci, al limite della ferocia, del collegai nei confronti dei negrieri.
Quando il loro capo, Suleiman, si arrese, Gessi lo fece subito passare per le armi insieme ad alcuni suoi fedelissimi.
Ferocia dettata dalla convinzione di fare la cosa giusta ma anche dal timore di una ripresa dell’iniziativa dei negrieri arabi, dopo lo sbandamento dovuto alla cattura del loro capo.
Il suo operato era però osteggiato da funzionari egiziani corrotti ed incapaci, in combutta con i negrieri arabi, tanto da essere accusato di aver fatto sprofondare il Sudan del sud nella miseria.
Per discolparsi, Gessi affronterà un rovinoso viaggio per il Cairo a causa del quale morirà (1881).
La biografia termina a questo punto, ma proprio allora prende piede la rivolta mahdista (1881/1898).
Egitto, Sudan. Eritrea e Uganda sono investiti dal vento della predicazione religiosa di Muhammad Ahmed, detto il Mahdi, “il redentore dell’Islam”.
Alla base del suo successo c’è il desiderio di palingenesi religiosa accompagnato dall’aspirazione da parte araba di liberarsi degli anglo-egiziani e di tornare alla tratta con le proprie regole.
Una ventata integralista musulmana che ricorda quella attuale e concretizzatasi nella creazione dello stato islamico dell’ISIS nel territorio compreso fra Siria ed Irak.
La lotta al Mahdismo fu lunga ed atroce. Nel 1885 cadde Khartum, con la morte del suo difensore, Gordon pascià.
La rivolta investì l’impero etiopico e il nord dell’Equatoria, estrema propaggine del Sudan. Sembrava inarrestabile, anche dopo la morte del Mahdi, per tifo.
Il suo successore, Kalifa Abd Allah ibn Tursh, trasformò il Sudan in uno stato mahdista ben amministrato.
Per aver ragione di un nemico che appariva inarrestabile dovette scendere in campo direttamente l’impero britannico.
I primi successi si ebbero nel 1896 e continuarono fino alla disfatta mahdista, nel 1899.
La storia la fanno i vincitori, che a volte dimenticano anche il contributo di amici ed alleati.
Mentre gli anglo egiziani subivano la pressione derviscia, gli italiani, stanziati in Eritrea, benché inferiori per numero e mezzi, e in territorio ostile, ottennero una vittoria sui mahdisti ad Agordat e occuparono la città sudanese di Cassala, difendendola dagli attacchi degli uomini di Kalifa, nonostante Adua (1896), fino al 1897, quando la consegnarono al nuovo governatore egiziano.
Egidio Lapenta
Commenta per primo