Felice chi è diverso
essendo egli diverso.
Ma guai a chi è diverso
essendo egli comune.
(1938)
Sandro Penna (1906-1977) è ritenuto il più grande poeta lirico italiano del ’900 (Cesare Garboli e non solo). Questo è un epigramma (poesia breve concisa rapida, che esprime una riflessione concettuale in tono sentenzioso): una quartina di settenari canonici, con la parola chiave in rima-identica tre volte: “diverso”, e “comune” in ossimoro. L’unico verbo: “è/essendo” (poliptoto) è replicato alternativamente nei 4 versi; anafora di “chi” e di”egli”. L’avversativa “Ma” è rafforzata dall’esclamazione ammonitoria “guai”, non polemica, bensì a guisa di avvertimento/constatazione.
Penna era omosessuale, come Pasolini, viveva a Roma. Pensiamo a cosa significasse in quei decenni. Qual è il senso della lirica? In primo luogo l’invito a non vergognarsi della propria diversità e di viverla come un arricchimento, di non cercare la normalità (ipocrita) per essere accettati dalla società, di essere orgogliosi del proprio essere. E anche, a un livello più alto: chi è diverso trova (o almeno ci prova: Leopardi) la propria felicità nella diversità. Qualora, oltre a essere diverso, cercasse di essere comune (uguale gli altri), la propria felicità si muterebbe in dannazione. Tale splendida osservazione di Penna vale per tutti, non solo per gli omosessuali.
Poiché il fascino delle poesie brevi di forte intensità semantica consiste nel prestarsi a molteplici interpretazioni, simili e dissimili nel contempo, aggiungo due commenti non miei. “Interpreterei la seconda parte come un monito: non fare della diversità un vessillo. Non necessariamente dobbiamo apparire “diversi”; ”guai” a chi non è se stesso, sia diverso sia comune” (Lorella Torti).
“Va bene essere diversi, ma, siccome la diversità non è un handicap (e ci mancherebbe), a mio parere essere “comuni” significa: essere come gli altri nella propria diversità. Ecco il valore che si dovrebbe trasmettere in manifestazioni come il Pride” (Maria Teresa Damiano).
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