Sfide e incognite del trumpismo

Dopo nemmeno un mese dall’insediamento alla Casa Bianca, si è capito che il trumpismo è un fenomeno destinato a durare. Oltre la permanenza del suo intestatario, e oltre i confini americani. E il lascito più duraturo non riguarda il fronte economico, dove politiche migratorie e tariffe si adegueranno ai vincoli imposti dalla globalizzazione. A Trump interessa incassare i notevoli dividendi di immagine di questa sua partenza a razzo, ma è consapevole che a tirare troppo la corda rischia di compromettere il benessere del suo stesso paese: gli immigrati sono indispensabili per la crescita industriale, come pure è opportuno non scombinare troppo le supply chain di fabbriche e servizi. Ben diversa, invece, è la partita che si sta giocando con l’espansione incontrollata dei poteri dell’esecutivo.

Il dato più rilevante – e inquietante – è che la raffica degli executive order (una sorta di decretazione d’urgenza presidenziale) con cui Trump è intervenuto a tappeto ha dimostrato l’impotenza del sistema dei «pesi e contrappesi» su cui si è retto – per due secoli e mezzo – il primato della democrazia americana. L’analisi di Philip Bump sul Washington Post mostra quanto sia difficile «fermare un presidente che non intenda rispettare la legge». Trump e/o Musk, infatti, «hanno bloccato spese autorizzate dal Congresso, decapitato una agenzia governativa, licenziato ispettori generali senza il dovuto preavviso, messe a rischio informazioni confidenziali» consentendo allo staff di Musk l’accesso al sistema informativo del ministero del Tesoro.

In teoria, il potere giudiziario potrebbe contrastare queste decisioni. E alcuni giudici stanno già intervenendo in tal senso. Ma si tratta di stop temporanei, con procedure farraginose che possono essere facilmente bypassate. Anche perché, di fronte a eventuali violazioni delle ordinanze della magistratura, il presidente ha la potestà di graziare – preventivamente e retrospettivamente – l’imputato. Ancor più della impotenza della magistratura, colpisce l’assenza di reazioni sui banchi parlamentari. Deputati e senatori repubblicani appaiono ferreamente allineati alle decisioni del loro capo, con un blocco partitico compatto senza precedenti. Tra i democratici, prevale lo sconcerto, e la incapacità di dar vita ad azioni di opposizione o quantomeno di ostruzione. Bravi ad esercitare tutte le prerogative per rallentare un iter legislativo, si scoprono disarmati di fronte alla valanga di ordinanze esecutive che si moltiplicano a vista d’occhio.

Qui troviamo un altro fattore che l’ideologo di Trump, Steve Bannon, aveva da tempo preannunciato. Concentrando in poche settimane una enorme potenza di fuoco decisionale, il governo ha seminato il caos nell’opposizione – politica e istituzionale – che non riesce a scegliere le priorità su cui provare a imbastire una controffensiva. Col che si arriva all’altro elemento sorprendente rispetto alla esperienza della prima presidenza Trump: l’assenza di una risposta adeguata dell’opinione pubblica. A parte qualche manifestazione sporadica, la presa d’atto di questa svolta epocale è relegata agli editoriali della stampa progressista, vigile quanto inconcludente nelle sue denunce.

È forse qui la chiave di quanto sta accadendo. Per anni abbiamo assistito all’ascesa della democrazia del leader, e registrato – sondaggio dopo sondaggio – il gradimento dell’elettorato per l’uomo forte al comando. Un fenomeno letto in chiave di efficienza e decisionismo, e di risposte più o meno simboliche alle domande emotive dei cittadini. In questo quadro, però, c’è poco spazio e pochissima attenzione per gli aspetti procedurali che sono stati, fin dalle origini, il sale e la salvaguardia della democrazia. Si spiega così anche il gradimento per il fatto che accanto al presidente si trovi come plenipotenziario un privato cittadino, che ha però il merito di essere un miliardario e un geniale imprenditore. Per il popolo del web, è ciò che basta a legittimarlo.

Al momento, nessuno sa quanto strada Trump riuscirà a fare nella direzione che ha imboccato. Ma almeno tre certezze le abbiamo. La prima è che sta creando un precedente che i presidenti dopo di lui – indipendentemente dal partito – cercheranno di replicare. La seconda è che gli alleati europei devono confrontarsi – al più presto – con questa inedita prospettiva. Non si tratta di alzare o abbassare le quote dell’immigrazione, o le tariffe per le esportazioni. Ma di capire che in seno all’Occidente rischia di aprirsi una frattura storica, una frattura sul modo di intendere le garanzie costituzionali. Chi si illude che si risolva il problema sterzando a destra o ripiegando a sinistra non coglie la portata del cambiamento. Come invece sta facendo la Cina, che – come recita l’ultimo editoriale di Foreign Policy – «si sta preparando ad approfittare degli sconvolgimenti in atto». Cogliendo nella svolta trumpista un’occasione per ribaltare la secolare egemonia culturale e geopolitica degli Stati Uniti d’America.

di Mauro Calise.

(“Il Mattino”, 10 febbraio 2025).

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