Il silenzio dei democratici americani

Ma perché i democratici Usa non reagiscono? È la domanda che i miei lettori mi rivolgono sempre più spesso. Di fronte al bombardamento di ordinanze presidenziali al limite dello sbrego costituzionale, ci si aspetterebbe che il partito di opposizione attivi tutti i suoi mezzi per contrastare il potere di Trump. Invece, a leggere i giornali, pare che si stia muovendo poco o niente.

Ci sono tre principali risposte, che rimandano alla specificità del sistema politico americano rispetto al contesto europeo cui siamo abituati. La prima è che, col suo iperattivismo esecutivo, Trump sta monopolizzando la scena mediatica. Nell’ecosistema comunicativo contemporaneo siamo tutti sommersi di notizie, e siamo in grado di assorbirne solo in una dose limitata. Ciò rende ancora più difficile il compito di stampa e televisione, nel selezionare quelle più rilevanti. Un compito che in America diventa enormemente più arduo visto la complessità di un paese con cinquanta stati, e problematiche sociali molto diverse. Se il capo della Casa Bianca irrompe con una raffica di decisioni ad alto impatto sull’economia e sulle relazioni internazionali, la soglia dell’attenzione pubblica viene rapidamente saturata. Anche perché Trump comunica ormai in totale autonomia, attraverso il controllo diretto o indiretto delle principali piattaforme social. Una volta che è partito il messaggio, come si fa a non stargli dietro?

Costretti ai margini della notiziabilità, i democratici hanno anche un altro handicap. Diversamente dai cugini europei, hanno strutture di coordinamento molto fragili. Qualcuno di voi conosce il nome del segretario del partito, ammesso che ce ne sia uno? O vi è mai capitato di leggere una presa di posizione della loro struttura direttiva? Se cercate notizie di Kamala Harris, sta provando a leccarsi le ferite pensando a una candidatura a governatrice della California. Questo limbo non finirà presto. Aspettate pazientemente tre anni e rivedrete i democratici tornare alla carica – o meglio, alla conquista della carica – appena ripartirà la lotta per la presidenza, intorno alla quale ruota la più colossale spartizione di risorse di potere e di soldi del pianeta. Fino ad allora, l’unico avamposto dove un partito di opposizione conta qualcosa sono la camera e il senato.

O meglio, le camere e i senati di cinquanta stati, dove continuano a infuriare battaglie anche molto rilevanti – stati come la California e New York hanno un fatturato superiore a molte nazioni europee – ma incapaci di guadagnarsi la ribalta nazionale e internazionale. Con l’eccezione, ovviamente, del Congresso. Li ci sono, eccome, i poteri per mettersi di traverso a Trump. O, più precisamente, ci sarebbero, se in una o entrambe le camere i democratici avessero la maggioranza. Al momento, essendo in minoranza, possono al più fare interdizione, intervenendo dove hanno più influenza, cioè ogni volta che il presidente deve passare per battere cassa. Ma, per potere incidere davvero, aspettano le elezioni di midterm del novembre del 2026. Solo allora, se riusciranno a ribaltare gli equilibri, il quadro cambierà, e di molto.

Rimarrebbe comunque un’altra strada, per provare a frenare Trump: la strada dei movimenti di piazza. È quello che succederebbe in Europa. Ma in America, oltre alla debolezza mediatica e organizzativa dei democratici, gioca a sfavore dell’opposizione anche una diversa tradizione della cultura politica. Molto più attenta ai temi sociali – come quelli razziali e di genere – che a quelli strettamente istituzionali, come le regole del gioco democratico che Trump starebbe calpestando. L’ultima grande mobilitazione di massa risale alle manifestazioni di Black Lives Matter, che hanno riempito le strade delle città americane con proteste al limite dell’insurrezione. Ma il presidente è stato sempre molto attento, nella sua comunicazione populista, a stare alla larga da questo territorio altamente infiammabile.

Dunque, non c’è all’orizzonte nessun potere in grado di fermarlo? Per il momento sembrerebbe di no. A parte, naturalmente, i propri errori. Nelle frenetiche giravolte che sta facendo da quando è in sella, già diverse volte Trump ha finito con l’inciampare su se stesso. Se e quando gli inciampi dovessero diventare capitomboli, potrebbe far fatica a rialzarsi.

di Mauro Calise.

(“Il Mattino”, 2 giugno 2025).

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