Liberismo e statalismo
Comprendere che cosa sia la Sinistra in un tempo come questo non è troppo facile. Potrà essere utile cominciare a rispondere “per negazione”. Chi sono, o sarebbero, oggi, gli avversari irriducibili della Sinistra?
Molti amici e compagni risponderebbero certamente: sono i “liberisti”, ossia sono tutti coloro che difendono il carattere se non esclusivo quantomeno il più ampio possibile del libero mercato privato. Sono i teorici-pratici del “laissez faire, laissez passer”. Sono i difensori ad oltranza della “logica” privatistica (o quanto più privatistica sia possibile). Com’è noto l’opposto del liberismo è lo statalismo. Perciò gli statalisti sarebbero “di sinistra”. O, come diceva Sherlock Holmes: “Elementare, Watson”.
Ora io mi sentirei di dimostrare – e a richiesta di eventuali amici potrò sempre farlo – che per Marx non era affatto così. Per non complicare troppo le cose, per ora non dirò nulla su ciò. Si potrà sempre tornarvi in seguito. Sulla resistenza di Marx nei confronti del “socialismo di Stato” io concordo sempre. L’opposizione tra liberismo e statalismo, infatti, mi pare fasulla. Ci sono cose che funzionano meglio se sono private e altre che funzionano meglio se sono di Stato. Personalmente ritengo che tutto ciò di cui tutti hanno bisogno in modo niente affatto occasionale, ma per interi periodi della vita, o addirittura sempre, è bene che sia “di Stato”, o almeno prevalentemente tale, come l’istruzione obbligatoria, o la sanità, o la viabilità, o l’ordine pubblico; e che sul resto si possa sempre discutere con criterio puramente pratico sociale, variabile a seconda dei contesti storici specifici, per stabilire se sia meglio che sia – o diventi – privato o di Stato.
Queste cose non erano state comprese dai marxisti e comunisti italiani, che vedendo nello statalismo la precondizione del socialismo aspettavano sempre – me compreso, e per un paio di decenni – che i paesi del “socialismo reale”, e più di tutti l’URSS, si liberassero dal bubbone burocratico autoritario valorizzando le “basi del socialismo”, individuate appunto nello statalismo economico. Ebbene, il socialismo “reale”, o comunismo di stato, è caduto, da Vladivostock a Berlino, tra il 1989 e il 1991, senza che ciò accadesse: per cui se siamo della gente minimamente onesta intellettualmente dobbiamo riconoscere che ci eravamo sbagliati (cosa che i cittadini e lavoratori di “quelle parti” sapevano da molti decenni avendolo provato sulla loro pelle e – se mi si consente un’espressione un po’ forte – sulle loro palle).
Le “basi del socialismo” non sono affatto nel potere economico, ma nel potere dei lavoratori stessi, sia il capitalismo privatistico o di Stato. Aver creduto che lo statalismo fosse la base del socialismo, anche in presenza delle forme più gravi di burocratismo autoritario preteso comunista, ha fatto un gran male alla sinistra: in Italia contribuendo in modo decisivo a tenere la sinistra fuori dal governo per cinquant’anni, dal 1947 in poi. Ha impedito a moltissimi elementi socialisti di sinistra e ai comunisti di comprendere e soprattutto di proclamare in modo chiaro e forte che in Russia e nei paesi consimili da Stalin in poi non c’era una sola briciola di socialismo, perché dove i lavoratori non possono dire e scrivere e scioperare come loro pare – almeno dopo brevi parentesi “d’eccezione”, che certo non possono durare per decenni – i lavoratori stessi non possono essere detti “al potere” se non dai matti (tra cui noi, per troppo tempo); e che la subordinazione dei paesi dell’Europa dell’Est da parte dell’URSS era un imperialismo politico militare bello e buono. Se l’avessero compreso e proclamato alto e forte, almeno da quando potette essere capito – dopo la denuncia dei crimini di Stalin e l’invasione sovietica dell’Ungheria del 1956 o dopo l’invasione sovietica della Cecoslovacchia del 1968 – tutta la storia della sinistra in Italia sarebbe stata diversa. Infatti quello che consentì alla Democrazia Cristiana di governare senza e contro il PCI dal 1947 al 1993 fu la comoda “rendita di posizione” costituita da un PCI – secondo partito per consensi dal 1948 – che per ragioni di politica internazionale, in un Paese chiave della NATO, non poteva prendere il posto della DC al governo, e che infatti sarebbe sempre stato ben lieto di essere accettato almeno come alleato, come durante la Resistenza antinazista. Con quel “nome” e soprattutto con quegli alleati o compagni a Mosca, al cuore del Mediterraneo non si poteva fare di più. Ma ove fosse avvenuta, in modo chiaro e inequivocabile, la rottura del PCI con l’URSS e col socialismo reale, l’Italia avrebbe potuto avere una grande socialdemocrazia come nei grandi paesi europei, e ci sarebbe stata un’alternativa democratica di sinistra al potere democristiano di tipo praticabile, e così il nostro Paese non sarebbe diventato marcio, corrotto e col debito pubblico sempre più grande: frutti non certo del PCI, sempre all’opposizione o quasi, ma della permanenza al governo della stessa gente: permanenza che prima o poi, almeno tra noi “latini”, se non ha ricambio al potere diventa una consorteria di corrotti, per quanto magari capaci e “navigati” come pochi altri.
Per non cadere nella trappola dello statalismo come preteso socialismo avremmo dovuto capire la lezione addirittura di Lenin, che nel 1921 era arrivato a comprenderlo perché, almeno dal 1895, considerava la teoria di Marx né più né meno che una scienza. Su tale base, dopo i disastri del “comunismo di guerra” del 1918/1920, avendo appreso da Marx che gli stadi economici non si saltano a volontà, e avendo visto che la rivoluzione in Germania e Europa non era arrivata, Lenin non esitò a cambiar linea di 180°: non verso il capitalismo di stato, ma verso il più puro capitalismo privato, semplicemente controbilanciato dalla dittatura comunista a livello di potere “politico” (Nuova Politica Economica, o NEP). Quello che Lenin nel suo Testamento chiamò “il beniamino del nostro partito”, Bucharin, era il “neppista” più convinto. Lanciò lo slogan: “Arricchitevi!”. Era la stessa identica logica di Deng Hsiao Ping, che ponendo fine ai disastri del “grande balzo” del 1959 e poi della rivoluzione culturale di Mao del 1966/1970, disse che “non importa che il gatto sia nero o bigio, ma che sappia prendere i topi” (fare sviluppo: poco conta se in un contesto privatistico o meno). Se la Cina è diventata quasi la locomotiva economica del mondo, è accaduto per il mix tra un capitalismo quasi selvaggio nei rapporti di produzione e l’autoritarismo politico che lo supporta totalmente, cercando di far rifluire servizi, ma in primo luogo infrastrutture: la via dell’ultimo Lenin. Non dico affatto che vada bene oggi (perché la libertà politica è un valore primario), ma affermo che lo statalismo in economia va preso a piccole dosi. In certe fasi e ambiti va bene, ma in altri fa male.
Fu poi Stalin, dal 1928 in poi, il grande statalizzatore. Spargendo gli immani fiumi di sangue ormai noti anche ai pargoli (oltre dieci milioni di morti, già prima della spaventosa invasione hitleriana del 1941), collettivizzò l’agricoltura e costruì l’industria pesante. Vennero accampate varie spiegazioni economiche di quella svolta statalistico-economica così sanguinaria per tutto il periodo in cui Stalin governò. In realtà la fine della NEP fu un disastro, specie per l’agricoltura, che non si sollevò mai più dopo la cura (come si evince pure in: M. Lewin, Economia e politica nella società sovietica. Il dibattito economico in URSS da Bucharin alle riforme degli anni Sessanta, 1974 e poi Editori Riuniti, 1977). La vera spiegazione fu data dalla grande filosofa ebrea Hannah Arendt, in Le origini del totalitarismo (1955, e Comunità, 1967). Per lei il totalitarismo da un lato era stato quello di Hitler e dall’altro quello di Stalin (ritenuti, nei loro regimi, due facce della stessa cosa). Spiegò che la logica del totalitarismo consiste nel voler subordinare tutti allo Stato, persino abolendo le classi, ma per ridurre tutto il popolo a una plebe informe, succube, spesso miserabile o povera, osannante il potere centrale in quanto ogni dissenso al suo interno è abolito.
Il vero fondatore del comunismo mondiale, “maestro” pure quando fu rinnegato, fu Stalin. Fu lui a far diventare senso comune l’idea che il socialismo fosse il capitalismo di stato (guidato da un apparato, burocratico e poliziesco, che si diceva comunista e pretendeva di incarnare la volontà generale del proletariato, anche quando questo lo detestava o odiava).
Statalismo e estrema destra: da Mussolini a Salvini (e Di Maio)
La confusione tra sinistra e statalismo è però tanto più grave in un Paese come l’Italia dove, considerando gli ultimi cent’anni (1919/2019) si vede benissimo che a parte la nazionalizzazione dell’energia elettrica del 1962 tutto il resto del capitalismo di Stato è stato fatto dal fascismo, che sino a prova contraria era, almeno in gran parte, di estrema destra.
E anche oggi quelli che s’inteneriscono per il governo M5S-Lega mostrano di non essere neanche più in grado di vedere la differenza tra ciò che è palesemente fascistoide e il suo opposto. Non si può dire che la Lega sia fascista, e il dirlo sarebbe troppo schematico e fazioso. Ma non è “acqua fresca”. Il movimento è fascistoide, anche se non fascista. Il sovranismo è il nazionalismo del nostro tempo. E il nazionalismo è il principale ingrediente del fascismo: è fascismo senza fascismo. Il “sovranismo” – in specie della Lega di Salvini – non è “fascista” perché non è autoritario: anche se svuota di potere, e sterilizza, in gran parte, il parlamento. Ed è meno pericoloso del fascismo solo perché al nostro tempo – segnato dall’elettronica, da Internet e dalla TV mondializzata fatalmente – l’opinione del popolo si è fatta molto mobile, e chi ha il potere difficilmente ha il tempo di farsi regime. Almeno in Paesi di lunga storia liberale e democratica, con grandi avanzamenti non certo “venuti dal Cielo”, a dispetto degli amici pessimisti per vocazione. Anche se seguitando ad accumulare invece che sciogliere le contraddizioni, e ciò persino mentre il Paese avanza, come potesse però portare sulla sua navicella una zavorra sempre più grande, ormai gli sviluppi di tipo autoritario, finalizzati a un dolorosissimo taglio chirurgico, purtroppo in Italia non possono più essere esclusi del tutto; e se verranno o se mai venissero, potranno venire solo da destra (forse come sempre in Occidente). Ma anche a bocce ferme, restando all’oggi, il potere che c’è e soprattutto già latente è palesemente fascistoide. Anzi, si porta già dietro i fantasmi che in Italia dilagarono solo dal 1938 in poi, con le leggi razziali. Magari la xenofobia non sarà proprio razzismo, ma gli “arrissomja tanto”, come avrebbe detto un noto poeta romanesco. Anche se la xenofobia non riguarda gli ebrei (almeno tra i sovranisti non apertamente fascisti, da Trump a Salvini, amici di Israele, a quanto pare, ma senza giurarci per sempre). I tempi, comunque, sono tali, purtroppo, che un buon 50% (se non 80%) del successo di Salvini è dovuto alla xenofobia. Essa fa venire a galla e vezzeggia la paura del diverso, specie di pelle nera o di religione musulmana, sentito da folle sempre più grandi come uno scocciatore, un disturbatore e un concorrente dei più poveri. Invece di porre il giusto problema del gestire – o almeno cogestire come Europa o ONU – i centri che fermano i migranti il Libia, che sono ora veri lager; e di fare accordi con i paesi più poveri dell’Africa per portare là non già soldi per i governi locali corrotti, ma imprese; e per far lavorare in qualunque modo gli immigrati in casa nostra in attesa di regolarizzazione; e invece di battere i pugni sul tavolo nell’UE per distribuire equamente gli immigrati tra tutti gli stati membri – si preferisce respingere la “povera gente”: e basta. È qualcosa che mi fa orrore.
Il reddito di cittadinanza
Ma – si dice – “questi” governanti di oggi danno il reddito di cittadinanza e attenuano la morsa delle pensioni, e questo è “di sinistra”. Mi pare vero per la “quota 100” delle pensioni, ma quanto al reddito di cittadinanza si tratta di vedere se sia economicamente compatibile con una politica espansiva, d’investimenti. Se sì, Dio li benedica. Non sono un economista (purtroppo), e mi piacerebbe essere illuminato in proposito da chi, anche tra noi (come l’amico Bruno Soro), lo è davvero. Io mi limito a intuizioni che ritengo fondate. Generalmente non le metto neanche per iscritto, per coscienza professionale dei miei limiti. Ciò posto il reddito di cittadinanza fatto com’è stato fatto mi pare inefficace economicamente. Rischia di essere l’erede della Cassa del Mezzogiorno. Pur essendo in dissenso assoluto da LeU ho trovato molto ragionevole Bersani in una delle ultime sue sortite dalla Grüber. (Del resto è stato e sarebbe ancora un ottimo ministro in ambito economico, anche se lo ritengo un pessimo leader politico). Bersani diceva alla Grüber che da un lato lui, invece di fare il reddito di cittadinanza, avrebbe affrontato puramente e semplicemente il problema dei più poveri riunendo esponenti esperti della Caritas, assessori all’assistenza sociale dei Comuni e esponenti dei sindacati che se ne occupano, per fare un piano volto ad aiutare le persone più bisognose; e dall’altro avrebbe puntato tutti i soldi possibili per far ripartire i cantieri, ossia per promuovere o sostenere investimenti urgenti, TAV compresa.
Invece oggi siamo addirittura tornati in recessione, da quando ci sono questi pretesi innovatori.
Chi è “di sinistra” oggi
Su tali basi a me pare che il criterio per distinguere tra destra e sinistra non possa più essere in nessun modo lo statalismo economico, ma piuttosto il favorire la forza lavorativa. Per me è di sinistra chi lotta e opera per dare più lavoro, anche a chi non ce l’abbia; e anche chi si batte per dare più potere ai lavoratori sui luoghi di lavoro e “anche” nello Stato, che però metto al terzo posto, perché la “società civile”, in cui ciascuno lotta per migliorare la propria sorte, per affermarsi sul lavoro e per esprimere le sue idee – anche senza essere “un politico” – oggi mi pare più importante. Su ciò forse la penso esattamente come Landini, che ha preferito operare sul sociale che come capo partito.
Oltre a tutto mi sembra anche che sia saltato – oltre al frusto statalismo – pure un punto chiave del vecchio marxismo: il nesso tra crisi del capitalismo e rivoluzione, che era stato tra i punti cardine si può dire dal 1848 sino agli anni Ottanta del Novecento. Invece la realtà ha sempre dimostrato che le grandi crisi economiche hanno fatto il gioco della destra; e che è invece sempre stato lo sviluppo, l’espansione economica, a fare “il gioco” della sinistra e del mondo del lavoro. Perciò oggi, accanto all’espansione dei posti del lavoro e del potere dei lavoratori sul luogo di lavoro (e “inoltre” sullo Stato), metterei – come criterio distintivo dell’essere di sinistra – la capacità di espandere le forze produttive, sempre ricordando che già Marx sapeva perfettamente che la principale forza produttiva è il lavoro umano. Ma oggi bisogna dire che espandere l’economia è di sinistra, anche se deve essere un’espansione che non faccia male alla salute dei produttori, e che perciò sia ecologica, senza mucchi di spazzatura per strada o gas inquinanti prodotti dalle auto.
Su questo non siamo affatto all’anno zero. L’Italia ha avuto un grande sviluppo civile e sociale dal 1945 in poi, e in esso il ruolo della sinistra – dalla fabbrica allo Stato, dall’opposizione sociale e politica ai governi condizionati “da dentro” e “da fuori”, dalla sinistra stessa – è stato immenso. Nei limiti di un Paese senza vero ricambio di governo e con un’ipoteca incredibile da parte dei moderati, che meriterebbe un discorso a parte. Siamo andati avanti, tra spaventose contraddizioni persino cresciute col tempo, ma l’ottica credibile mi è sempre parsa quella di vedere le contraddizioni dentro una ricerca, e tendenziale realtà, dello sviluppo.
Quale politica economica per espandere lavoro e produzione?
Ciò posto, le domande “di sinistra” che a me paiono essenziali oggi per me sono le seguenti: “Che cosa moltiplica le forze produttive in Italia? Che cosa può dare più lavoro? Che cosa può attrarre più investimenti e quindi creare più lavoro?
Non partiamo affatto da zero, ma da tempo qui “casca l’asino”. Il discorso sarebbe lungo e io non sono un economista. Mi limito perciò ad elencare semplicemente le cose che darebbero appunto di più, in termini di espansione del lavoro e degli investimenti, mettendo una piccola osservazione sommaria tra parentesi, su ciascun punto: 1) Un forte sindacato unitario (da questo punto di vista trovo bellissimo che la CGIL abbia eletto Maurizio Landini segretario generale, dandosi per la prima volta, dai tempi remoti di Di Vittorio, un leader operaio e carismatico; e non me ne importa niente se sia o no “riformista”, perché nella mia logica come il padrone deve saper moltiplicare i profitti, così il sindacalista – che è il suo antagonista complementare – deve saper difendere i lavoratori senza fare sconti a nessuno e in modo concreto, anche se naturalmente io non sono mai stato e non sarò mai d’accordo in tutto con nessuno, riservandomi i miei margini di dissenso anche su punti decisivi); 2) Una congrua detassazione delle tasse su lavoro e investimenti (che invece non si può fare – quando si hanno 2350 miliardi di debito pubblico – ampliando pure la spesa assistenziale com’è giusto, come se i soldi si potessero stampare a volontà e non dirottare, non dico del tutto, ma in modo prevalente, per espandere lavoro e produzione, indebitati sino al collo come siamo); 3) Un grande piano di lavori pubblici, dalla TAV a tutti quelli pendenti, con impegno a impiegare lì gran parte dei soldi pubblici disponibili (su ciò avremmo pure potuto sfidare la Commissione Europea: e non già per dare contributi, anche moralmente sacrosanti, ma non direttamente espansivi); 4) Governi stabili di legislatura (i soli che siano cari – qual sia il loro colore – agli investitori; e da questo punto di vista la bocciatura del referendum “renziano” del dicembre 2016 a mio parere è stata una scelta reazionaria “con basi di massa”, e una sciagura nazionale); 5) Una giustizia rapida (perché l’idea che un investitore straniero accetti di insediarsi dove l’ultimo addetto può farti perdere dieci anni in un contenzioso in tribunale, e magari ti possono pure imporre “il pizzo”, non sta in piedi); 6) La definitiva sconfitta della criminalità organizzata in tante zone del Paese (in cui le potenzialità d’espansione, ad esempio turistica, sarebbero immense).
Non credo che invece funzionerà nessuna patrimoniale. Sarebbe certo giusto, ma a meno di manovre del tipo di quella che nel 1994 indusse all’improvviso il governo Amato a prelevare quote di soldi dei cittadini in banca dai conti correnti, non verranno. Bisognerebbe abolire il contante e costringere tutti a usare il bancomat, colpendo così l’evasione alla fonte, ma ci sarebbe la sollevazione del Paese. Sulle case c’è già patrimoniale di fatto. E, del resto, il problema non è quello di far scappare all’estero i capitali che debbono investire, ma di attrarli e incoraggiarli a farlo.
I governi del PD e le elezioni
Nelle direzioni indicate qualcosa di molto buono era stato fatto o tentato dal vituperato “renzismo di governo”. Come si fa a non vedere che nel periodo quinquennale Renzi-Gentiloni lo spread era stato sconfitto; c’era stato oltre un milione di posti di lavoro in più (pur a metà a tempo determinato), e si era in ripresa (pur lenta), ed erano stati introdotti nuovi diritti civili, mentre ora, col governo M5S-Lega, si è in recessione aperta, con pericoli per i fondamentali dell’economia sempre più gravi?
È vero che il PD ha perso e riperso le elezioni, e non solo per il “fuoco amico”, ma per un evidente scontento delle masse, specie al sud; ma ciò per me è accaduto soprattutto perché risolvere i problemi del Paese, “guarire il malato” – che ha 2350 miliardi di euro di debito sul groppone – in modo anche solo minimamente soddisfacente, richiederebbe non già “supposte” o anche “punture di penicillina” di buon governo, ma un’inaccettabile chemioterapia. Di lì, da parte del popolo sovrano, è venuta la ricerca dei “Di Bella” (demagoghi salvatori dal tumore). Ma quelli arrivati sinora sono stati tutti inaffidabili; e questi “in sella” sono risultati i più inaffidabili di tutti dal 1945 in poi, essendo al tempo stesso i governanti più incompetenti di tutta la storia d’Italia nell’area del M5S e i più reazionari con cariche di governo dal 1945 nell’area Lega. Ed è prevedibile che tra poco se ne accorgeranno tanti che li hanno votati, anche se dato il folle fuoco di fila contro la sinistra, anche da parte di tutti i pretesi progressisti, se ne avvantaggerà la destra di Salvini, che viaggia verso il 40% e più come “blocco d’ordine” di centrodestra spinto, e durerà un bel po’, e che quando sarà stabile farà la dolorosa politica anticiclica invocata dal capitalismo del nord, ma contro il movimento dei lavoratori e contro la sinistra, che solo allora smetteranno di gridare come aquile contro chi all’interno aveva cercato di tirarci fuori dai guai. Non vi è piaciuto Renzi o Gentiloni? – Adesso godetevi Salvini, perché quello che sta arrivando sul cavallo bianco, come un Alboino in feltra, alla testa di una destra con basi di massa mai sognata dai suoi esponenti negli ultimi settant’anni, con una spruzzatina di “sinistri velleitari” pentastellati che lo seguiranno sino al crollo, è solo lui; e sottovalutarne capacità e carisma popolaresco, come si fece con quello dalla mascella quadrata, sarebbe pura idiozia. Anche se per fortuna ormai da noi la libertà è solida e la nostra folla “è mobile qual piuma al vento”, e quando avrà finito il “lavoro sporco” del rimettere in marcia il capitalismo “essa”, a partire dalla borghesia capitalistica, gli darà un calcio nel culo e lo manderà a casa. Ma tra quanti anni?
Sinistra “a cinque stelle”?
Ma che dire del M5S, che è tanta parte del governo d’oggi?
Non nego minimamente che ci sia nel M5S un’intenzionalità profonda di sinistra: solo che è il genere di sinistra, demagogica e parolaia, pseudorivoluzionaria e pseudoriformista, che è sempre stato incompatibile con la sinistra di governo (fosse essa ultrariformista o, in altri Stati, comunista). Se la Lega di Salvini, che non è fascista, è “fascistoide”, e infatti piace tanto a Casa Pound e a Marine Le Pen col suo Front National, il M5S ha, insomma, una natura più ambigua: però non componibile, finché non si scinderà, con una sinistra di governo. I paragoni storici sono sempre un po’ forzati, e ne va colta la strumentalità, il carattere di metafora. Ciò premesso ne propongo uno: Salvini non è Mussolini, come Napoleone III non era Napoleone Bonaparte. Ma il M5S ricorda il “milieu” che alle origini del fascismo, partendo dall’estrema sinistra d’anteguerra (anarcosindacalista e del Mussolini leader dei socialisti “intransigenti”) fu – prima in modo riluttante, e poi sempre più succube – cooptato dal nazionalismo di destra (oggi “salvinismo”). Quell’apporto già di ultrasinistra servì persino alla destra dominante nel fascismo, bilanciando l’anima “nera” con quanti di riformismo “rosso”, sempre subalterni. Solo per questo il fascismo potette essere a lungo un movimento reazionario “con basi di massa”, come lo definì Togliatti in un notevole vasto saggio del 1935 (Lezioni sul fascismo, Editori Riuniti, 1970).
Ora di fronte a fenomeni del genere sono possibili due tattiche. Una è quella che era stata cara a Giovanni Giolitti, a Filippo Turati e poi pure a Palmiro Togliatti e successori, che mira sempre ad attrarre una parte più malleabile degli avversari “contigui” o pronti a diventarlo nella propria area, dividendo il fronte “nemico”. Ad esempio nel PD Franceschini ha ragionato così, e domani potrebbe farlo Zingaretti. Io stesso sin dal lontano 1966/1968, come potrei dimostrare, ero per tale tattica, che del resto era ben nota ai romani antichi, teorici del “Divide et impera”. Perciò sarei stato portato a trattare col M5S (dopo il marzo 2018). Ma alla luce di quel che si è visto dopo – con un M5S complice in tutto e per tutto della Lega in materia di immigrazione e pronto a salvarne il Capo votando contro l’autorizzazione a procedere, contro “i suoi” principi fondativi; e in più politicamente infantile come ha dimostrato con assurde sfide gladiatorie che han fatto salire lo spread, ci hanno contrapposto contemporaneamente a Francia e Germania come non era mai capitato dal 1848 in poi, e ci isolano persino su faccende come il Venezuela, per tacere dei primi passi come la richiesta di impeachment contro Mattarella – trovo che la linea del lasciare che quelli del M5S si sputtanassero da soli – sostenuta da Renzi e compagni – si è rivelata giusta. Evidentemente l’arte del compromesso ha i suoi limiti.
Anche Giolitti nel 1921/1922, di fronte alla marea nera che montava nella Valle Padana, pensò, alleandosi, di poter trasformare il fascismo in forza parlamentare di governo (a danno dei violenti). Non fu una scelta giusta. Quella tattica del compromesso col più vicino tra chi è lontano, evidentemente non va sempre bene. A volte le forze antisistema vanno lasciate decantare. Se dopo il 1994 Berlusconi avesse potuto governare per tre o quattro anni di seguito, come auspicava Montanelli, che lo conosceva assai bene, a tal fine, egli sarebbe stato “preso fuori” molto prima dal popolo italiano. Il M5S, alleato con la Lega, ha perso quasi il 10% (dal marzo 2018 a oggi). Dubito che alle europee prenderà più del 20: il PD gli sarà “incollato” alle spalle. Lo verificheremo.
La mia previsione è che dopo le europee il M5S si spaccherà, o cadrà in tremenda crisi, e sarà proprio quello il momento di dialogare con la parte che non seguirà Di Maio e Di Battista, che diverranno, anzi resteranno, come i neo-reazionari che sono, parte organica del gioco di Salvini, che politicamente è l’opposto di un fesso (purtroppo). Così si compirà il destino del movimento reazionario novecentesco, che ha da essere “reazionario con basi di massa”, e per ciò due terzi “nero” e un terzo “rosso” (o “rosa”, a seconda delle circostanze), ossia che pur essendo di destra estrema nell’insieme deve pure includere un quantitativo minoritario, ma non irrilevante, di vero riformismo sociale, però incapsulato nell’area.
Il Partito democratico
Il PD comunque è rimasto il solo polo progressista possibile. E se non commetterà l’errore di spaccarsi, che sarebbe imperdonabile e nocivo alla “democrazia progressiva” come quello di D’Alema e Bersani degli anni passati, avrà un grande avvenire. Probabilmente sarà costretto a stare all’opposizione per diversi anni (anche se in questo Paese “non si sa mai”): nel che non c’è niente di male (anzi). Ma comunque il PD è rimasto il solo polo progressista in piedi, mentre gli altri gruppi di sinistra sono risultati e saranno minorance négligeable. Anche la brava Emma Bonino o Pizzarotti, rifiutando l’alleanza proposta da Calenda per le elezioni europee (ossia col PD), faranno, esattamente come LeU: il danno loro, e però nostro. E quelli che continuano nell’arte infantile dello sputacchiare sulla “sinistra ufficiale”, come se sul mercato ce ne fosse un’altra, bocciando la storia come se non ne facessero parte, si sbagliano fortemente.
I pretesi compagni della sinistra esterna o interna al PD, non senza l’involontario apporto di osservatori di sinistra “critici critici” anche geniali, hanno dato un contributo decisivo a far fallire il referendum istituzionale di Renzi, determinando la grande sconfitta da cui è iniziata la rovina del PD di Renzi e quindi del PD e della sinistra. E seguitano. E pensare che non ci voleva l’intelligenza politica di Niccolò Machiavelli per capire che avendo Renzi preso il 70% due volte in primarie del PD, anche dopo una disfatta, rovinare Renzi significava rovinare il PD e per ciò stesso far vincere Salvini (e chi, se no?).
“Errare è umano, ma perseverare è diabolico”. Purtroppo si persevera. Il punto debole dei tantissimi che a sinistra fanno così consiste nel non-ragionare per confronto. Io posso dire che la tal dei tali è la più bella del paese, perché la paragono con le altre compaesane, ma se dico che sono tutte brutte perché nessuna è come quella che ho in mente io o come la Primavera di Botticelli, ho le idee confuse sul definire le bellezze in campo. Il PD per intanto ha sicuramente governato meglio, in base ai risultati, dei governi Berlusconi e di quello Di Maio – Salvini. Per il governo M5S-Lega vogliamo aspettare sino alla fine del 2019? – Aspettiamo, ma si vede già. Lo spread è quello che è e siamo già in recessione. Come dicono a Torino: “A basta nèn?”
Inoltre il PD, al suo congresso – che con opzione di una stupidità politica senza precedenti ha trascinato dalla sconfitta di un anno fa a oggi – ha già visto votare 160.000 persone e ne porterà al voto più o meno un milione il 3 marzo. Se faccio il paragone, in Italia nessun partito ha fatto e fa meglio. In sostanza il PD risulta il più democratico e ricco di base – per quanto ristretta in questi tempi – sul mercato politico.
Anche i tre candidati e l’altro leader emergente – Zingaretti, Martina, Giachetti e poi Calenda – né sono reciprocamente incompatibili né sono persone poco stimabili. Io voterò Giachetti, perché rispetto al “renzismo” sono per un rapporto di novità nella continuità, volto a rimarginare e non a far sanguinare le “ferite”; e perché Giachetti ha fatto le scelte più giuste, anche rispetto alla grande maggioranza del suo partito: come nel 2013, quando a ridosso delle elezioni di allora voleva indurre il PD e il parlamento a votare subito per ripristinare il Mattarellum, o come quando con parole di fuoco bollava il mancato rispetto del principio di maggioranza da parte della “sinistra” interna, o quando, unico tra tutti, voleva che dopo la sconfitta di un anno fa si andasse a congresso al più presto. Ma debbo dire che, pur con qualche riserva in più su Martina – che mi pare politicamente modesto – mi sembrano tutte persone assolutamente valide. Le idee dei “quattro” sono compatibilissime. E non credo minimamente che Renzi e compagni faranno un altro partito. Negli ultimi giorni tramite You Tube ho ascoltato per molte ore i dibattiti di Renzi, e “mi sono fatto persuaso” (come dicono nella Sicilia di Montalbano) che Renzi non voglia affatto fare scissioni, ma semmai tornare con ruoli importanti al Governo. Non credo minimamente che Renzi vorrà essere il Casini del XXI secolo o il Bersani di un LeU alla rovescia. Del resto non è tanto stupido da farlo.
Con ciò non è che tutto vada “per il meglio” nel “migliore dei mondi possibili”, nel PD. Ci sono anche tante ragioni per essere disgustati di tutto nel mondo d’oggi, in cui pur essendo io oramai vecchio non invidio politicamente i ventenni. Vale pure per il PD. Lo scacco matto subito da tutti gli “ismi” nati tra il 1830 e il 1919 – nessuno escluso – unito alla successiva globalizzazione economica, e ad epocali migrazioni di massa, ci hanno immesso in una sorta di vita collettiva confusa e senza bussola, in cui tutto si mescola come in una grande marmellata di idee e valori effimeri, davvero indigesta. Il PD è il migliore del tempo della decadenza. Uno può benissimo decidere che i tempi sono tali che preferisce essere “inattuale”, porsi fuori, non proprio a torto. Ma se invece, come tutto sommato ritengo lodevole, decide di dare un contributo costruttivo, anche minimo, deve passare di qui, e scegliere quel che storicamente c’è, e che oggi, al di là dei raccattapalle in campo, si chiama: M5S, Lega e PD. Il PD a me pare il meglio, o se si preferisce il “meno peggio. Ma dal più al meno – tanto più in un tempo buio com’è questo in tanti grandi Paesi europei e in America – è sempre così.
(24/2/2019)
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