In un suo recente e assai stimolante editoriale il direttore di un quotidiano della mia regione segnalava un tema di assoluta rilevanza e di stringente attualità: quello della necessità di una riflessione approfondita sul rapporto tra lo sbalorditivo progresso tecnico-scientifico dei nostri giorni e l’assetto democratico della società. Per usare le sue parole: ”tra le sempre più travolgenti trasformazioni tecnologiche e la sopravvivenza della democrazia”. Anche se non del tutto nuovo, il tema ha, però, effettivamente oggi la forza di determinare il destino di molti Paesi. La scienza e la tecnica sono diventate protagoniste del nostro modo di produrre e di vivere. I processi industriali procedono spediti verso la loro completa digitalizzazione, si servono di tecnologie ad altissima intensità di know how. Anche il nostro Paese sta cercando di sviluppare un “ piano nazionale industria 4.0” che dovrà portare verso una produzione del tutto automatizzata e interconnessa. Robotica, digitalizzazione, intelligenza artificiale sono entrate d’impeto nelle nostre case. In alcune regioni del mondo la produzione di cose e strumenti è imponente e parte della ricerca scientifica e della tecnologia sono orientate verso l’ottenimento di un apprezzabile prolungamento della nostra vita biologica. Tenendo conto degli scenari delineati da alcune teorie scientifiche e realizzazioni tecniche, i futurologi non esitano a dibattere sulla possibilità di sconfiggere non soltanto mortali processi degenerativi ma la morte stessa in tempi non lontanissimi. C’è, insomma, un potenziale enorme di crescita quantitativa e di benessere come mai nella intera storia dell’uomo che, tuttavia, non può autorizzare ad un giudizio encomiastico o esageratamente positivo -come spesso si è portati a fare- dell’assetto generale della nostra società. Coglie nel segno il direttore quando scrive che non si può avere una “visione progressiva e positiva dell’innovazione” prescindendo dagli effettivi “processi che essa mette in moto”. Proprio nella nostra età, infatti, il miraggio di una più alta fruizione della vita si scontra come non mai con una realtà fatta di laceranti discriminazioni, ingiustizie sociali, nazionalismi, razzismi. Così, l’ammonimento che ci viene da una società dominata dalla scienza e dalla tecnica è quello della impossibilità di avviarci verso una nuova epoca senza un aggiornamento culturale e illudendoci di poter continuare ad applicare soluzioni di un’altra epoca a problemi assolutamente inediti. C’è chi pensa che una soluzione necessaria debba essere quella di un ripensamento radicale dei sistemi democratici e della stessa democrazia fino all’ipotesi estrema della loro sostituzione. Per due ordini di ragioni: perché la rivoluzione tecnologica ha di fatto svuotato di ogni contenuto e garanzia la democrazia rendendo possibile ai titolari delle grandi ricchezze di manipolare a piacimento l’opinione pubblica grazie proprio ai potenti mezzi informatici disponibili. E, soprattutto, perché la scienza e la tecnologia, basandosi sulla competenza, confliggono con l’eguaglianza politica e con la democrazia rappresentativa basata sul suffragio universale.
E’, questa, in verità una posizione che appare di una qualche plausibilità e alla quale già in passato è stata data una certa dignità teorica. Infatti, a metà del secolo scorso il filosofo Ugo Spirito, esponente autorevole dell’idealismo italiano, scriveva che nella società tecnico-scientifica “il potere non appartiene a tutti in quanto tutti naturalmente sovrani, ma a tutti in quanto ciascuno sovrano nei limiti della sua funzione”. E il liberale Raymond Aron ,forse ironizzando un po’, considerava la democrazia contemporanea il luogo in cui “degli specialisti sono governati da dei dilettanti”. In realtà queste posizioni portano del tutto fuori strada in quanto non tengono conto del fatto che sulla cristallizzazione delle competenze e degli specialismi non è possibile costruire nessuna comunità in quanto competenze e specialismi nascono proprio come strumenti bisognosi della ricomposizione politica(democratica)del tutto perché “non soltanto nelle sue aspirazioni, ma nella sua stessa vita pratica e culturale l’uomo è un essere ‘totale’, cointeressato e anzi coinvolto nella comunità”(U. Cerroni). Anche nella società tecnico-scientifica la libertà non nasce dalla fine della politica (della democrazia). La scienza si divide in discipline e procede per specializzazioni per conoscere meglio la totalità dell’oggetto; e l’attività pratica si divide in molteplici mestieri per offrire alla totalità degli uomini più opportunità di godimento del mondo. La stessa politica e la stessa democrazia sono il risultato della divisione storica del lavoro. La moderna democrazia rappresentativa non è tanto una scelta ma in qualche modo una necessità: siamo ‘costretti’ a scegliere, attraverso il voto, alcune persone perché si occupino degli affari generali (della comunità) proprio perché tutti siamo impegnati quotidianamente nella nostra privata attività professionale e lavorativa. Quando si muovono critiche al sistema democratico non si dovrebbe mai sottovalutare questa cogenza storica, tra l’altro già magistralmente illustrata nel lontano 1819 da Benjamin Constant nel suo famoso discorso sulla libertà degli antichi e dei moderni. Certo, sappiamo tutti che la democrazia corre sempre molti rischi e che dobbiamo essere sempre pronti a difenderla. Possiamo anche perderla, ma in questo caso i sistemi moderni di produzione e di riproduzione della nostra vita materiale e intellettuale funzionerebbero male e tutti noi sentiremmo più acuto il bisogno di lottare contro autoritarismi e privilegi. In un mondo ricco di potenzialità di crescita e di liberazione la rassegnazione non ha tempi molto lunghi. La partecipazione paritaria alla costruzione della comunità è un bisogno imprescindibile. La forza (e la bellezza) della democrazia sta proprio nel fatto che i voti li conta e non li pesa e che se voglio il voto dell’altro devo avere argomenti, non peso sociale .
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