Solo la scienza è conoscenza

Viviamo in una età di formidabile sviluppo scientifico. La scienza è a tutti gli effetti il primo valore portante e positivo della nostra “civiltà di massa”. E’ essa soprattutto che consente e garantisce sviluppo produttivo, economico e, anche, culturale. Giustamente, la nostra è definita “l’età della conoscenza”. Naturalmente , della conoscenza scientifica e non di  “conoscenze altre”. Anche perché la conoscenza è una sola: o è scientifica o non è conoscenza. Aver avuto l’uomo da molto tempo la capacità di pensare non vuol dire, infatti, che abbia conosciuto. Diceva Kant che <<pensare un oggetto non equivale a conoscerlo>>, e così, oltre ad un pensare senza conoscere, ci indica un conoscere che non si esaurisce nel pensare: il conoscere scientifico, appunto. La scienza. Dunque, non esiste un conoscere non scientifico: il solo “conoscere” è quello che produce certezze verificate dalla scienza, che produce, come dice Galileo Galilei, <<le vere cose, cioè le necessarie, cioè quelle che è impossibile ad essere altrimenti>>. Grazie alla scienza penetriamo sempre più nell’infinitamente grande e nell’infinitivamente  piccolo, ragioniamo di quasar, di pulsar, di Big  Bang; su una Via Lattea, “sosia” della nostra, distante dodici miliardi di anni luce e individuata proprio in questi giorni da una mia conterranea ricercatrice presso il prestigioso “Max Plank Institut” di Monaco.

Ciò nonostante, continuiamo a leggere sui quotidiani non pochi articoli che mettono in discussione il significato decisivo della scienza, che la sottomettono al pensiero speculativo, intuizionistico, irrazionalistico. Che auspicano il ritorno della scienza al servizio della filosofia. Da questi articoli non si capisce bene cosa altro debba fare la scienza per ammettere che essa si sia guadagnato definitivamente piena autonomia e “potenza”.

A volte, si ha l’impressione che sia in atto una netta regressione oscurantista, premoderna, precedente addirittura al tentativo di Averroè, o di Tommaso d’Aquino, o di Dante, di abbozzare una visione laica del mondo. Precedente al XII secolo! Già con Averroè, infatti, si ha la prima distinzione tra scienza e fede, tra religione e ragione. Tommaso d’Aquino e Dante cercheranno di procedere lungo le linee segnate dall’averroismo. Si tratta di un primo percorso laico che proprio in Italia trova solida affermazione sino a Pomponazzi. Per tutti questi pensatori non si tratta di stabilire il primato dell’una sull’altra, ma di affermare che scienza e fede hanno compiti completamente diversi e che, perciò, niente impedisce ad un credente di essere un valente scienziato o ad uno scienziato di essere uomo di fede. Del resto, proprio i “laici” Dante, Tommaso, Galilei erano anche profondi credenti.    C’è da dire che, per ragioni storiche, si è  radicato un certo carattere antiscientifico della nostra cultura umanistica. La “scienza dell’uomo” non si rende pienamente conto della  portata liberatoria e ‘umanistica’ della scienza. Fra conoscenza scientifica e “conoscenza umanistica” c’è un divario enorme che, se non colmato, può portare ad una condizione  di vita dissestata. Non avendo ancora consapevolezza piena di come stiano veramente le cose, pensiamo, così, di potercela cavare ricorrendo a stucchevoli sofismi presentati come “riflessioni profonde e vere”. Tempo fa, qualcuno appropriatamente li ha definiti <<sofismi dell’equivalenza scettica>>.

Sono sofismi di tale natura proprio quelli che appaiono, nel fulgore dell’intero repertorio,in un articolo del 15 scorso su un quotidiano della mia regione dal titolo “La scienza e la fede tra misteri e ricerca”, generosamente ospitato con rilievo in prima pagina col rischio di dare l’impressione sbagliata di una liberalità editoriale indifferentista. L’autore, in verità, non è nuovo in queste intemerate pensose sui limiti e sui pericoli della scienza, sul presunto rischio che la scienza prosciughi la nostra umanità. Anche in questo articolo il catalogo appare completo, addirittura arricchito. Si parte dalla individuazione di una equivalenza fra scienza e fede, riguardante non il metodo (bontà sua) ma l’orizzonte(sic!). Questa equivalenza si fa poi più stringente davanti al <<mistero della vita e della morte>>, <<sulle cose che riguardano l’origine e la fine>>, di fronte al <<mistero dell’universo>>. Ma la scienza, per l’autore, ha però molte meno carte da giocare perché purtroppo <<la nostra poca intelligenza>> consente ad essa di poter capire solo fatti e fenomeni <<che hanno minor rilievo, un’importanza marginale>>. Così, spetta ad altri dare le risposte che contano veramente. Poiché sopra la scienza c’è la trascendenza; poiché alla scienza è precluso il mistero dell’onnipotenza; poiché <<c’è qualcosa di molto più grande sopra di noi e nulla potrà mai superarlo>> la conclusione da trarre non può essere altro che alla scienza non resti che dichiarare forfait, perché, comunque, le risposte che la scienza non è capace di dare sarà la “non-scienza” a darle.

Qui c’è per intero il <<sofisma dell’equivalenza scettica>> innanzi richiamato. Esso –proprio come fa l’autore dell’articolo- non parte dalle innumerevoli, straordinarie risposte che la scienza ha già dato, ma, come ha fatto notare qualcuno, chiama la scienza a discolparsi per le cose che ancora non ha spiegato. Dà molto credito a ciò che non è “scienza”, ma alla povera scienza non concede alcuna attenuante per non aver ancora detto proprio tutto tutto. La parola d’ordine è che alla scienza non si può dare credito.

Il dubbio, in altri contesti sempre legittimo, qui non è credibile perché non è il “dubbio cartesiano”, ma, per così dire, è “dubbio scettico”, “pirroniano”: non solo esclude la verità razionale, ma insinua che essa è possibile raggiungerla solo “non-razionalmente”. Si tratta di una regressione che va combattuta con la cultura e la civiltà, ma anche con grande fermezza.

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