Il tracollo dei Cinquestelle in Sardegna – seguito a quello in Abruzzo – non avrà conseguenze immediate sul governo. Questa è l’unica affermazione attendibile che Di Maio e Salvini pronunceranno – affannosamente – in questi giorni. Per il resto, cambierà tutto. Indipendentemente dalla volontà dei due leader che – dipendesse solo da loro – terrebbero in piedi l’alleanza a tempo indeterminato e ad ogni costo. Il problema non sono solo i voti che i Cinquestelle stanno perdendo ad ogni tornata elettorale. Sono quelli che perderanno in futuro. Perché ormai è chiaro a tutti che la parabola del Movimento è in discesa. Ripida. E arrestarla non sarà facile.
Come sempre accade in politica, ora lo scontro interno riguarda le responsabilità individuali, con Di Maio come imputato principale. Ma il problema va molto al di là degli errori che può avere commesso. Riguarda la struttura del partito, e i nodi che inesorabilmente stanno venendo al pettine. I Cinquestelle appartengono alla categoria dei partiti personali. Partiti che devono il successo – e la sopravvivenza – al leader che li ha fondati. Sono stati la geniale creatura di Beppe Grillo, come Forza Italia lo fu di Silvio Berlusconi. Nei partiti personali, il controllo di un solo uomo – ancorché fondatore carismatico – non è certo, però, una cosa semplice. Qui interviene la componente proprietaria, il modo in cui il capo si assicura la gestione verticistica senza la quale il partito si sfarina. Berlusconi utilizzò Mediaset, coi suoi canali televisivi, insieme alle reti territoriali – con corredo di professionisti – di Mediolanum e Publitalia. Grazie a questa componente aziendale privatissima, il Cavaliere è riuscito a tenere saldamente in mano il partito per un quarto di secolo. Grillo, ricco solo di ingegno, si è affidato alla società di Casaleggio. Piccola ma – grazie all’uso strategico del web – potentissima. Dando vita al peccato originale dei Cinquestelle: un partito personale, in duplex.
Mi sono chiesto, fin dall’inizio, come avrebbero risolto il problema della successione. Ci hanno provato nominando Di Maio, d’imperio, capo – quasi – supremo. Ma rimettendoci il carisma di Grillo, e rendendo il nuovo re nudo al cospetto dei militanti. Il partito era ancora di tipo personale-condominiale. Ma la persona che lo comandava non se l’era guadagnato sul campo. Bensì nel chiuso delle stanze del potere.
Il difetto, dunque, è nel manico. Chiunque avessero messo al posto di Di Maio – che non si è mosso per niente male – avrebbe avuto lo stesso destino. Un capo nato illegittimo. Ora, per correre ai ripari, Di Maio e Casaleggio proveranno a creare una struttura territoriale che freni la frana. Ma si tratta di una struttura dall’alto. Che, nel migliore dei casi, avrà vita difficilissima tra gli iscritti in sommovimento. Una organizzazione – vera – non si improvvisa in qualche settimana. E comunque non si cala dal vertice. Al vertice può funzionare un leader, se amato e riconosciuto dai seguaci. La nascita di un cerchio magico oligarchico sarà vista come un Politburo, e finirà, molto probabilmente, con l’accentuare le fratture. Con ripercussioni a cascata sulla tenuta elettorale. E, ovviamente, parlamentare.
I due vicepremier faranno tutto il possibile per tenere l’esecutivo al riparo da questi contraccolpi. Ma il mutamento è stato troppo rapido. In meno di un anno i rapporti di forza tra i due partner si sono ribaltati. E ogni elezione prossima ventura – regionale, municipale, europea – non farà che rigirare il coltello nella piaga. Il minimo che possa accadere è che aumenti la confusione. Considerando come siamo messi oggi, con un balletto decisionale che accompagna ogni scelta – si fa per dire – del governo, è facile immaginare che il teatrino si trasformi in farsa, o in tragedia. Con la possibilità che ci scappi – senza che lo si voglia – l’incidente che scateni la crisi. Salvini comincia a darlo per scontato. La battuta un po’ gradassa con cui ha salutato la sua vittoria sul Pd non è solo il tentativo di sviare l’attenzione dai guai dell’alleato. È anche un modo per cominciare ad affilare le armi contro quello che si annuncia come il suo vero nemico. È presto per dire se il centrosinistra – dato fino a ieri per spacciato – stia cominciando a resuscitare. È certo, però, che una mano – non piccola – gliela ha data proprio il Capitano. Che con la sua ingordigia di consensi a spese del proprio partner di governo, è stato il principale artefice della sua deflagrazione. Ci ha guadagnato un bel po’ di voti. Ma rischia di rimetterci il governo.
(“Il Mattino”, 26 febbraio 2019)
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