Il tesoro di re Mida

Abitando vicino ad Arezzo, era chiaro che una delle principali attività economiche della città fosse quella della lavorazione dell’oro, e la cosa mi incuriosiva.
Nella mia lunga attività di manager era la prima volta che mi occupavo di metalli preziosi e finora ne ero informato solo dal fatto che ad Hong Kong, dove avevo spesso lavorato, si trattava ampiamente questa oggettistica.
Mentre Hong Kong era ed è una città dalle molteplici attività, per Arezzo si trattava di qualcosa di fondamentale: migliaia di persone se ne occupavano.
Ebbi un’imbeccata da un conoscente: venni a sapere che una piccola industria locale cercava di vendere i propri prodotti nel grande, immenso mercato di Dubai, conosciuto in tutto il mondo perché migliaia di piccoli negozi si accalcavano nel vecchio Souk e grandi supermercati dell’oro sorgevano modernissimi.
Per me si trattava di una sfida, di fare qualcosa di nuovo.
Per cui mi recai presso la piccola ditta, che lavorava appunto braccialetti, collane ed altri gadgets di design molto moderno.
In realtà, mi trovai di fronte a una piccola struttura e mi accolsero tre personaggi dall’aria molto circospetta, in una stanza dove campeggiava un’enorme cassaforte.
I tre soci erano interessati, ma non sapevano come gestire la cosa, non conoscendo il mondo arabo.
Io dissi loro che potevo fare un tentativo di ricerca, visto che la vendita di tali prodotti si svolgeva per lo più di sera, dalle sette in poi, quando il clou delle mie attività era finito.
I tre confabularono per un po’, poi estrassero dalla gigantesca cassaforte un piccolo velluto blu, che conteneva cinque catenine, cinque di numero, che a mio avviso non potevano dare l’idea di una produzione completa.
Ma tant’è…
Le cinque catenine vennero pesate e ripesate tre volte, finché mi furono consegnate e nel contempo dovetti firmare un documento, con tanto di fotocopia, in cui si dichiarava che avevo preso in carico dei valori che dovevo debitamente riconsegnare.
La cosa mi divertiva e imbarazzava al tempo stesso, pensando alla mia normale attività di manager, in cui i campioni andavano e venivano come il pane, come una cosa normale da offrire ai clienti.
Presi finalmente commiato e alcuni giorni dopo partivo per Dubai.
Le sere seguenti approcciai il mondo dell’oro, sia nel vecchio Souk che in quello grandissimo e nuovo, sfavillante di gemme, ori ed argenti.
Ebbi modo di visitare alcuni mercanti, i quali si compiacquero della qualità dell’oro, ma mi dissero che francamente i normali venditori si presentavano con delle valigie intere, mentre la mia collezione era molto misera.
Mi chiesero dei campioni, che io evidentemente non potevo lasciare ed ebbi l’impressione di essere un pesce fuor d’acqua, uno che faceva un favore senza avere una reale competenza.
Lasciai quindi dei cataloghi, delle foto e mi ripromisi di far inviare successivamente qualcosa ai clienti selezionati, in modo tale da far ricordare in qualche modo la mia visita.
Giravo, giravo, ma in realtà non concludevo nulla.
Con dei mercanti tanto abili, sembra impossibile lasciare qualche foto o qualcosa di cartaceo per concludere gli affari: lo scambio deve essere tangibile.
Considerai questi contatti come un’esperienza di vita, ma non ero molto convinto.
Il finale della storia mi sembrò poi ancora più assurdo…
Quando ritornai dai tre gioiellieri, fui accolto da un’aria sospetta, pesarono e ripesarono le cinque catenine come se ci potesse essere il sospetto che li volessi derubare.
Ad un certo momento pensai che volessero pesare anche me per accertarsi se fossi quello di prima.
Abbandonai quell’ufficietto misero, ma dotato dell’immensa cassaforte entro cui le cinque catenine riposavano al sicuro e decisi che questo non era sicuramente il mestiere per me.
Alcuni giorni dopo, venni a sapere dai giornali che un signore che si occupava in grande stile di questo commercio era stato attaccato da dei banditi ed aveva dovuto rispondere estraendo una rivoltella.
Decisamente la compravendita dei preziosi non era un’attività per intellettuali.

Giorgio Penzo

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