Molti ricorderanno i miniassegni (1975/1978), veri e propri assegni che si distinguevano da quelli tradizionali per le dimensioni e il taglio fisso (50, 100, 200 e 250 lire).
I possessori potevano recarsi nelle filiali delle banche di emissione e riscuotere il dovuto, anche solo 50 o 100 lire, oppure rimetterli in circolazione, spendendoli, dato che erano accettati universalmente.
La loro funzione era proprio quella di integrare o sostituire la moneta metallica, che in quel periodo, nel nostro paese, tendeva a scarseggiare se non a mancare del tutto.
Oggi possiamo dire che non era vero che la zecca italiana non coniasse giornalmente un sufficiente numero di spiccioli e che questa rarefazione era creata ad arte per qualche oscuro interesse.
I consumatori, stanchi di ricevere come resto una caramella, un gettone telefonico o, a volte, un francobollo di piccolo taglio (10 lire), accolsero di buon grado questa novità, che risolse i problemi di tanti negozianti e clienti.
I miniassegni furono però un grande affare sia per le banche sia per i falsari. Molti di essi non furono mai portati all’incasso, rimanendo nei cassetti e alimentando successivamente un’altra branca del collezionismo numismatico. Più di un consumatore invece si trovò in possesso di miniassegni emessi da banche inesistenti.
Ricordiamo fra tutti gli eleganti esemplari del torinese Banco di San Paolo.
La carenza di moneta metallica non è una novità nella storia italiana.
In tempo di guerra molte ditte ovviarono all’ inconveniente emettendo gettoni di valore diverso o dischetti di metallo contenenti francobolli di piccolo taglio (5 e 10 centesimi).
Un altro momento molto importante fu il periodo successivo all’unità d’Italia (1861).
All’atto dell’unità uno dei problemi più importanti fu l’unificazione amministrativa e monetaria del paese. Si dovevano sostituire le valute dei vari stati italiani e nel 1862 venne introdotta la lira, pari a 100 centesimi.
Esistevano due tipi di lira: metallica e cartacea.
La metallica era così divisa:
monete d’oro, pezzi da 100, 50, 20(marengo), 10 e 5 lire;
argento, pezzi da 5, 2, 1 lira e 50 e 20 centesimi;
rame, pezzi da 10, 5, 2 1 centesimo.
I biglietti venivano emessi partendo da un taglio minimo di 20 lire.
Passato il momento dell’euforia unitaria e giungendo al pettine i problemi, cominciò a manifestarsi in tutta la penisola una progressiva rarefazione della moneta metallica.
La carenza fu così grave da ostacolare, se non impedire, molte attività commerciali.
Gli storici parlano di più cause alla base della progressiva scomparsa prima della moneta d’argento e poi di quella di rame. Una delle principali fu la sfiducia dei cittadini verso il nuovo stato, caratterizzato da una forte pressione fiscale, attuata per colmare i pesanti deficit di bilancio.
La notizia poi che l’Italia stava preparando un’altra guerra contro l’Austria (III guerra d’indipendenza), dagli esiti incerti, aumentò i timori della popolazione, moltiplicando i sospetti verso la moneta cartacea, che sarebbe diventata carta straccia (a detta di molti) in caso di vittoria austriaca.
Alla tesaurizzazione si affiancò un altro problema, la differenza di valore fra monete e banconote dello stesso taglio: ad esempio, un biglietto da 20 lire poteva valere anche il 12% in meno rispetto alla corrispettiva moneta d’oro (il marengo).
In previsione della guerra, il governo Lamarmora decretò il corso forzoso delle banconote, che così dovevano essere accettate obbligatoriamente in pagamento dai cittadini.
Fu il colpo di grazia che decretò un’ulteriore carenza di moneta d’argento, accaparrata anche per l’aumento del prezzo del metallo.
La crisi si abbatté soprattutto sui commerci al minuto, paralizzati dalla rarefazione degli spiccioli di ogni tipo.
Negozianti ed artigiani non riuscirono più a lavorare mentre i ceti meno abbienti furono sconvolti dagli arrotondamenti e dai conseguenti aumenti dei prezzi.
Da qui la necessità dei biglietti fiduciari, così chiamati per la loro circolazione in ambito locale e sulla base della fiducia del ricevente nei confronti dell’emittente.
Fu un’esplosione di biglietti di taglio e stili diversi.
Le prime emissioni furono anche abbastanza rozze e questo perché mancavano in Italia tipografie specializzate nella produzione di banconote, che dovevano essere quindi commissionate all’estero.
La stessa Banca Nazionale (antenata della Banca d’Italia) commissionava all’estero i propri biglietti. Anche questo spiega la lentezza dello stato ad intervenire con proprie emissioni per evitare falsi e frodi. I biglietti stampati con carta scadente si sgualcivano subito e diventavano inesigibili.
Emisero moneta fiduciaria praticamente tutti: banche, comuni, aziende, monti di pegno, società di mutuo soccorso, singoli commercianti e singoli cittadini.
I commercianti primeggiarono nelle speculazioni, emettendo grandi quantità di biglietti senza indicare la propria sede o addirittura trasferendosi dopo averli emessi.
Specularono le istituzioni. Certi comuni cambiavano i loro biglietti solo se presentati all’incasso per un valore pari o superiore a cento lire. Le banche si accontentavano di cambiare somme non inferiori a dieci lire.
Fra il 1867 e il 1872 il fenomeno prese una brutta piega, considerati l’ammontare dei biglietti in circolazione e il numero di emittenti: 40 milioni nel 1873 e più di 2000 fra privati ed enti pubblici.
A questo punto lo stato intervenne non solo per motivi economici ma anche per salvaguardare la propria credibilità. Fra febbraio e aprile 1873 vennero imposti la sospensione delle emissioni dei biglietti e il successivo rimborso di quelli già emessi entro il dicembre del 1876.
Il Monferrato non fu esente da tale fenomeno.
In questa sede presentiamo un biglietto da 20 centesimi emesso dal comune di Casale Monferrato, uno da 1 lira emesso da un consorzio di banche di Alba, Asti, Casale e Saluzzo, e quello da 50 centesimi del comune di Moncalvo.
Il primo esemplare è di fattura semplice e molto sgualcito. Quest’ultimo particolare dimostra che ha circolato molto, quasi che i possessori avessero fretta di liberarsene.
Con il nome del Comune emittente, lo stemma e il valore compare anche “Cambio in somme non minori di lire venti- contro biglietti della Banca Nazionale”
Il secondo, oltre i nomi e gli stemmi dei comuni di appartenenza delle banche consorziate (Alba, Asti, Casale Monferrato, Saluzzo), il valore e la data del decreto (1872) non porta altre diciture, a dimostrazione che potevano essere cambiati anche singoli pezzi.
Meglio conservato e con qualche velleità artistica l’esemplare di Moncalvo, spicca in alto a destra il busto di Michelangelo. Questo biglietto riporta chiaramente: “Cambio a decine dal tesoriere municipale, contro biglietti della Banca Nazionale”.
In una condizione di povertà diffusa, in cui 1 lira o 50 centesimi facevano la differenza, quanti avevano la possibilità di mettere da parte dieci o venti biglietti e portarli all’incasso?
Mettiamoci nei panni del padre o della massaia di una famiglia numerosa, come tante nell’ Italia della seconda metà del XIX secolo, le cui disponibilità per la spesa non superavano le due o tre lire giornaliere mentre le esigenze erano molteplici: a cosa si dava la precedenza? Sicuramente al cibo.
Una lira del 1872 in base ai parametri odierni varrebbe 4,9 euro, ma il suo potere d’acquisto era certamente superiore.
Il 1872 è l’anno della fondazione della Congregazione di Maria Ausiliatrice, a Mornese, della nascita del corpo degli Alpini e della prima emissione delle figurine Liebig.
In quel periodo lo stipendio mensile di un impiegato era all’incirca di 95 lire mentre l’affitto mensile di un appartamento dignitoso arrivava a 45 lire. Il pane oscillava fra i 38 e i 28 centesimi al Kg, una dozzina di uova poteva arrivare a 96 centesimi, il vino si pagava fra i 46 e i 26 centesimi al litro e un chilo di carne di bue toccava 1 lira e 60 centesimi.
Sfamata la famiglia, rimaneva ben poco per i piccoli piaceri, un sigaro e un giornale costavano rispettivamente 8 e 5 centesimi.
Era una vita semplice ma non certamente facile.
Egidio Lapenta
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