Nel secondo dopoguerra si era creata nella mia città di nascita, Trieste, una scuola di critici cinematografici che ha avuto un notevole risalto in tutta la seconda metà del ‘900.
Una nomea popolare li definiva “i tre moschettieri”.
Il primo, indubbiamente, fu Tino Ranieri, grande specialista di Bergman, che io ho avuto modo di vedere in due conferenze, relative appunto al maestro svedese.
La critica cinematografica italiana era rimasta scombussolata dalla visione dei primi film di Bergman, soprattutto “Il settimo sigillo” e devo dire che Tino Ranieri seppe mettere ordine nella burrasca provocata da quei film, allora come oggi, sconvolgenti.
La cultura nordica era sempre apparsa molto lontana agli studiosi italiani e ci voleva qualcuno, appunto, che ne sapesse cogliere i motivi storici, letterari, artistici.
Questo uomo si chiamava appunto Tino Ranieri.
Certo, egli non si dedicò solo a Bergman, ma io lo ricordo appassionato e legato a questo autore, come se non potesse fare a meno della sua influenza.
Altri critici triestini ebbero però un forte peso nel momento in cui nasceva il neorealismo, si affermavano i tre grandi (Fellini, Visconti, Antonioni) ed esplodeva la commedia all’italiana.
Tullio Kezich e Callisto Cosulich, che si trasferirono poi a Roma, centro storico della cinematografia italiana, ricoprirono delle cariche importanti nel settore, come il Cosulich direttore del Festival di Venezia per molti anni.
Innumerevoli i loro scritti, le loro recensioni che coprono un arco di tempo molto lungo ed influenti per la progressiva scoperta dell’importanza del cinema italiano.
Era un piacere sentirli parlare, sentirli discorrere su argomenti che li appassionavano e sicuramente io ne ho tratto godimento ed istruzione.
E allora, perché no, considerarmi un “piccolo D’Artagnan”, che si vuole accostare, ma con modestia, a questi maestri, che gli hanno segnato il percorso.
Da qui una serie di piccoli saggi, brevi ma amorevoli, che il sottoscritto ha voluto dedicare ai maestri diletti, i grandi registi, e alla sua Dama del cuore, il Cinema.
Forse ricorderete un bellissimo film degli anni ‘50 che si intitolava “L’arpa birmana” di Kon Ichikawa: un soldato giapponese dopo la guerra persa si mette a cercare i corpi dei suoi commilitoni sparsi nelle giungle dei vari paesi dapprima conquistati, li seppellisce e li onora uno per uno.
Un film commovente, teso, drammatico, senza un gesto bellicoso, ma pieno di umana carità.
Così il piccolo D’Artagnan vuole riscoprire opere spesso dimenticate, per farle rifulgere in una nuova luce, affinché nessuno le scordi.
Un’operazione difficile ma necessaria, poiché il cinema non deve essere composto di opere vive e morte, ma ciascuna di esse deve vibrare all’unisono con le altre.
Commenta per primo