Trump e il potere del denaro

Sabato 5 aprile, a fronte degli innumerevoli attacchi di Trump alla rule of law – ossia a quel principio al cuore dei sistemi della tradizione giuridica occidentale secondo cui in essi vige il governo del diritto e non degli uomini – la gente è scesa per strada in massa per urlare “basta!”. Centinaia di migliaia di persone in 1200 piazze dei 50 gli Stati dell’Unione hanno gridato: hands off!, giù le mani da quel che resta ancora dello Stato sociale, comprese pensioni, istruzione, sussidi di disabilità, alimentari (anche per i bimbi più poveri, per i quali la mensa scolastica rappresenta la sola opportunità di sfamarsi) o per la casa. Giù le mani dalle agenzie federali create dal Congresso fin dai tempi di F. D. Roosevelt per arginare i comportamenti predatori e irresponsabili delle corporation ai danni della gente. Giù le mani dai diritti delle persone, siano essi quelli di esprimere liberamente il proprio pensiero – soprattutto nelle università – o di avere il giusto processo previsto dal V e dal XIV emendamento della Costituzione prima di essere deportati in prigioni salvadoregne note per l’efferatezza con cui trattano i detenuti. Giù le mani dal diritto dei dipendenti pubblici di sindacalizzarsi e stipulare contratti collettivi (limitato per i dipendenti di 30 agenzie federali da un executive order di fine marzo). Giù le mani, insomma, dalla “prerogativa della penna” – consistente nel dettare le norme che governano la convivenza civile – che non appartiene al presidente, bensì al Congresso. È questo il grido che ha accomunato le proteste degli americani il 5 aprile scorso – ma anche i tanti altri sollevamenti di piazza precedenti e successivi – a fronte di un Trump che, con i suoi executive orders, sta smantellando il regime di legalità per assumere il potere assoluto.

Per quanto assai partecipate, quelle piazze sembrano tuttavia destinate all’irrilevanza politica, in un tempo in cui l’intero sistema pare catturato dal vil danaro, che Trump e Musk sanno abilmente utilizzare quale ragione di scambio per ottenere e fare ciò che vogliono. Di fronte alla minaccia di non ricevere più soldi scemano, infatti, non soltanto gli eventuali sussulti di orgoglio dei parlamentari repubblicani – oggi, sia pur per poco, in maggioranza – che desiderino recuperare il ruolo di legislatori che per Costituzione spetta loro. All’uopo è sufficiente che Musk chiarisca come, in tale ipotesi, alle prossime primarie quei parlamentari si vedranno fronteggiare da concorrenti sulle cui campagne elettorali si sposterà il suo munifico finanziamento. Il ricatto finanziario ha altresì tristemente presa presso università, scuole e perfino studi legali. Piegate, le prime, da una necessità economica vieppiù cresciuta nel tempo da cui non sono più in grado di liberarsi; schiacciati, i secondi, sotto il peso delle ingenti spese correnti, cui le notevoli dimensioni li obbligano, e dall’avidità cui i copiosissimi guadagni li hanno ormai assuefatti e ai quali non saprebbero più rinunciare, tutti – o quasi – si sottomettono al volere di Trump, con buona pace di ogni principio etico, giuridico o semplicemente di ogni rivendicazione di autonomia.

Così la Columbia University, che dal Governo federale riceve più di un miliardo di dollari di dollari l’anno, pur di non vedersi decurtata di 400 milioni di dollari tale somma, ha accettato di far entrare nel proprio campus 36 special officers con poteri di allontanamento e di arresto di coloro che protestano o hanno protestato nel passato a favore della Palestina (e, se stranieri, suscettibili di deportazione come simpatizzanti di Hamas in forza di un executive order presidenziale del 30 gennaio 2025). Ha poi fatto propria una nuova e assai più ampia definizione di ciò che integra l’illecita condotta di antisemitismo e, come se non bastasse, per evitare di perdere quei soldi, ha pure accettato di far commissariare il suo dipartimento di studi sul Medio Oriente (laddove il commissariamento federale si presenta come un intervento di norma rarissimo e utilizzato solo in caso di gravi e prolungate disfunzioni) con ovvie conseguenze in termini di rivolgimenti di programmi di studio e di corpo docente. E mentre non è affatto detto che simili inedite concessioni sul terreno della libertà di espressione del pensiero e di insegnamento accademico plachino le mire di controllo di Trump – il quale ha già fatto sapere che l’accoglimento delle sue richieste “non è che una precondizione per futuri negoziati” e che la Casa Bianca potrà sempre chiedere altre “riforme strutturali immediate e a lungo termine” –, il clima di terrore fra studenti e professori stranieri si fa sempre più caldo. Dopo l’arresto (nonostante il suo status di residente permanente, sposato a donna americana) di Mahmoud Khalil – laureato presso la Columbia School of International and Public Affairs e leader delle proteste anti Israele della scorsa primavera – o di Rümeysa Öztürk – studentessa di dottorato alla Tufts University di Medford, Massachusetts – entrambi oggi detenuti in Lousiana, e la revoca indiscriminata di visti studenteschi nei confronti di qualunque studente o professore straniero sospettato di aver appoggiato il movimento pro-Palestina, sono in molti coloro che si nascondono o si “auto deportano”.

I soldi condizionano poi anche gli studi legali, che a loro volta sono stati colpiti da executive orders presidenziali per aver rappresentato interessi in contrasto con quelli del presidente. A quegli studi di avvocato – che hanno per esempio aiutato il prosecutor Jack Smith nella sua azione contro Trump o che hanno difeso con successo un produttore di macchine per il voto in una causa per diffamazione contro Fox News costringendo l’emittente televisiva a transare per 787.5 milioni di dollari – è stata tolta la possibilità di stipulare contratti con l’amministrazione federale nonché di entrare nei palazzi del governo, con il risultato di un’immediata perdita di clienti. La risposta di alcuni di loro è stata la ricerca di una pronuncia giurisprudenziale che dichiarasse illegittimi gli executive orders, con tanto di difficoltà iniziale a trovare un avvocato che li difendesse. La gran parte degli studi legali che contano ha però scelto la strada dell’accordo con Trump: ha così non soltanto accettato implicitamente di non mettersi mai più contro di lui e la sua amministrazione, ma si è soprattutto impegnata a rappresentare gratuitamente i loro interessi in corte per l’ammontare ad oggi complessivo di ben 940 milioni di dollari. D’altronde, mentre 500 studi legali hanno firmato una petizione in corte in appoggio ai loro colleghi che hanno intentato causa, gli studi più grandi e importanti si sono astenuti dal farlo. Sulle ali del ricatto del danaro, il diabolico disegno di Trump di impedire l’accesso alla giustizia a chiunque si voglia opporre al suo operato sembra così prendere piede. Chi vorrà far valere in corte interessi contrari alla sua amministrazione, se mai sarà in grado di trovare uno studio legale disposto a rappresentarlo, dovrà fare i conti con i tanti, agguerriti e ben preparati avvocati che gratuitamente lavoreranno per il presidente.

Dai dazi, alle università, agli studi legali il messaggio è dunque chiaro: con Trump tutto si negozia bilateralmente e tutto ha un prezzo, ma più paghi quel prezzo più finisci intrappolato nella sua rete. “Tutti i bambini imparano fin dall’asilo che cedere ai ricatti di un bullo significa essere ricattabili per sempre”, dice Harold Hongju Koh, professore di diritto internazionale alla Yale Law School, per il quale gli executive orders di Trump costituiscono pure misure di rappresaglia.

E mentre la Columbia University ha cominciato ad accorgersi di quanto Harold Koh abbia ragione, giacché più accetta le condizioni poste dall’amministrazione federale più esse si moltiplicano senza che i 400 milioni si sblocchino, l’università più ricca del mondo, Harvard University – che pur sembrava aver assunto una posizione di sottomissione ai diktat del presidente – a sorpresa si è ribellata. Dopo aver chiesto delucidazioni circa le condizioni poste per ricevere 9 miliardi di dollari, che il presidente aveva affermato di voler altrimenti trattenere, ed aver capito quanto in profondità sarebbe stata minata la sua autonomia qualora le avesse accettate, Harvard ha dichiarato tramite il suo presidente, Alan Garber, che: “L’università non negozia la propria indipendenza né rinnega i suoi diritti costituzionalmente garantiti”. Era apparso, infatti, del tutto evidente quanto non fossero serviti a nulla i tentativi di assecondare i desideri di controllo di Trump su ciò che in quell’università si insegna, come lo si insegna e chi lo insegna, posti in precedenza in essere al fine di poter continuare a contare su fondi federali destinati a ricerca, laboratori e ospedali. Già il 20 gennaio l’università di Boston aveva annunciato che, al fine di reprimere le corrispondenti espressioni di pensiero all’interno del campus, avrebbe adottato una definizione ampia di antisemitismo, comprendente un certo livello di critica nei confronti dello Stato di Israele; più recentemente aveva anche sospeso un accordo con un’istituzione palestinese per farne partire subito dopo uno con un’istituzione israeliana. Senza contare l’estromissione, da poco avvenuta, dal centro per gli studi sul Medio Oriente del suo direttore e della vice, in quanto percepiti come anti israeliani. Con la lettera, giunta nella notte di venerdì 11 aprile, l’amministrazione federale voleva assai di più: non imponeva soltanto la piena cooperazione di Harvard nella repressione e deportazione di studenti e professori in odore di “antisemitismo”, ma intendeva condizionare pesantemente le ammissioni studentesche, le assunzioni della docenza e i programmi di insegnamento, sottoponendoli a monitoraggio esterno periodico. È a questo punto che dopo molte ore di discussione Harvard ha detto no: una strategia conciliativa e negoziale “sembra non portare mai a un punto finale accettabile”, ha spiegato Lee Bollinger, suo presidente per 21 anni.

Per quanto la presa di posizione di Harvard costituisca un cruciale passo in avanti per la possibile resistenza del sistema universitario nei confronti dell’attacco governativo alle sue libertà fondamentali, è tuttavia probabile che non molte istituzioni siano nelle condizioni economiche che consentono loro di seguire il suo esempio. La “dote” (endowment) di 53 miliardi di dollari, di cui Harvard dispone, la rende più forte di fronte ai ricatti di Trump rispetto alle altre più povere università, che nel loro complesso dipendono dai fondi governativi per ben 247 miliardi l’anno: si tratta di fondi tanto federali, quanto statali e locali, ma che per la stragrande maggioranza derivano dalla prima di quelle fonti. Certamente, però, se le istituzioni dell’insegnamento superiore dovessero diventare gli sciocchi ventriloqui dell’amministrazione politica federale, un passo ulteriore verso l’autoritarismo sarebbe definitivamente e drammaticamente compiuto in terra nord americana.

Più volte a partire dal 300 d. C. l’aforisma “il danaro è lo sterco del diavolo” è stato ripetuto, da ultimo anche da Papa Francesco; la principale rappresentazione simbolica del denaro nell’iconografia medievale, inoltre, è una borsa che, appesa al collo di un ricco, lo trascina all’inferno… Ed è proprio lì che il danaro sembra oggi condurre la democrazia statunitense.

di Elisabetta Grande

17-04-2025 (www.volerelaluna.it)

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