Le sopravvivenze feudali, il latifondo, lo sfruttamento contadino, le errate colture agrarie speculative non dilacerano e minano unicamente le strutture sociali, ma distruggono e disgregano lo stesso paese, gli stessi territori in cui allignano.
Sono essi l’origine storica ed economica dei fenomeni desertificativi e dei conseguenti dissesti idrogeologici che continuamente si ripetono con sempre più ristretta periodicità in tutta la penisola.
L’attuale condizione ambientale della Sicilia ne costituisce uno degli esempi più evidenti ed incontestabili. Cosa resta infatti ormai più della florida e ricca isola descritta, non solo dai greci e dai romani, ma anche da Ibn Hawqual e dagli altri storici arabi, che narrano di grandi foreste, di lussureggiante agricoltura, di un efficace sistema di irrigazione che serviva l’intero territorio pianeggiante? Cosa resta delle sorgenti perenni, dei fiumi descritti come navigabili tutto l’anno dai navigli di allora? Cosa resta della piccola proprietà contadina, di quella popolazione diffusa equilibratamente su tutto il territorio che, secondo lo storico Michele Amari, costituiva uno dei cardini della floridezza del paese?
Oggi le zone a bosco costituiscono meno del 7% dell’isola, percentuale che non ha riscontro in nessun territorio europeo di uguale superficie; nell’interno dell’isola si possono percorrere ore di macchina in mezzo a pietraie desolate, senza vedere una casa colonica, un corso d’acqua, un albero, una strada che non sia quella percorsa. Queste sono le conseguenze di secoli di rapina da parte di una proprietà assenteista che trasferiva, ed ancor trasferisce, ogni forma di reddito dalla campagna alla città, che non conosce alcuna forma di investimento produttivo e conservativo.
E’ evidente come ne sia conseguito uno sconvolgimento globale di tutti gli equilibri ambientali preesistenti nell’isola e una stabilità precaria, che piogge anche limitate bastano a turbare con risultanze distruttive sempre più incontrollabili. Come giustificazione a tutto questo di dirà che quando nacque la Repubblica italiana, la situazione ecologica della Sicilia era già in grave dissesto, che già prima della guerra, come riferisce lo storico inglese Mack Smith “i binari della ferrovia, le piantagioni di aranci venivano regolarmente trascinati via dai fiumi che rompevano gli argini, mentre a valle interi villaggi venivano inghiottiti dalle frane causate dalle erosioni”.
Tutto questo è vero ed incontestabile, le origini sono remote, ma una cosa dobbiamo chiederci: cosa è stato fatto da allora per porvi rimedio? Cosa è stato fatto in 25 anni di ininterrotto governo democristiano? In pratica nulla, anzi si è accelerato lo spopolamento delle campagne, l’abbandono delle terre, la desertificazione delle valli, l’erosione del suolo. Le tanto decantate azioni di rimboschimento, le costose opere di riassetto idrogeologico, non sono state altro che una grossolana truffa avente unicamente lo scopo di impinguare le casse della nobiltà latifondista, dei capi mafia locali e dei gruppi politici a loro legati e da loro espressi.
Il procedere ad un vero riassetto ambientale, alla sistemazione idraulica del territorio avrebbe voluto dire togliere al predominio della mafia quell’acqua che, se è così calamitosa durante i periodi piovosi, diviene invece denaro contante nelle mani di chi ne controlla la distribuzione durante la lunga stagione secca. Il fermare l’esodo dalle campagne, tramite l’abolizione del latifondo, la redistribuzione delle terre, il recupero delle zone desertificate avrebbe significato l’estinguersi di uno di quei fattori primi di sopravvivenza dell’attuale antistorica ed anacronistica classe dirigente siciliana, che trae la propria linfa vitale dalla rendita parassitaria, dal ladrocinio e dallo storno degli investimenti governativi e regionali.
Basta rifarsi alle testimonianze di Michele Pantaleone che assieme a Girolamo Li Causi è stato protagonista della lunga battaglia contro quelle strutture criminose di sfruttamento del lavoro dell’uomo e delle risorse del territorio siciliano che normalmente sono conosciute col nome di mafia. Scrive Pantaleone:” Giuseppe Genco Russo (noto capomafia e grande elettore DC) è stato presidente del consorzio di bonifica del Tummarano, un comprensorio che si estende per circa centomila ettari e che comprende quindici paesi della provincia di Agrigento. Un parente prete di Genco Russo è stato direttore della Cassa di Credito Agrario…” “Ancora oggi in molte zone della Sicilia occidentale molte banche negano il credito ai contadini e concedono invece forti prestiti ai mafiosi i quali esercitano l’usura.”
E ancora: “Un cognato di Genco Russo, uomo di 55 anni senza alcuna istruzione, è stato assunto nel 1958 nel corpo forestale della Sicilia con le mansioni di ispettore generale”. “Il consorzio per l’alto e il medio Belice, che ha un piano di lavoro per 40 miliardi, è diretto dai parenti del capo mafia Vanni Sacco”. “Elementi mafiosi si sono introdotti in quasi tutti gli uffici pubblici della regione……ove si tratta di concessioni, appalti di lavori pubblici, costruzione di ponti e strade, opere di bonifica”.
Il Pantaleone nei suoi scritti, recentemente pubblicati da Einaudi con il titolo “Mafia e politica”, elenca una lunga fila di nomi di uomini della mafia, i quali oggi siedono in Parlamento, ovviamente sui banche della maggioranza. Alcuni hanno ricoperto o ricoprono tuttora alte cariche dello Stato.
Un discorso analogo a quello fatto per la Sicilia, anche se evidentemente differenziato nei luoghi e nei nomi, può valere per la Calabria, la Campania ed altre regioni d’Italia. Non deve quindi essere motivo di stupore il fatto che oggi ancora capiti, come un tempo, che i ponti, le strade, gli argini crollino alle prime piogge, che gli agrumeti, le case vengano travolti dalle piene e dalle frane. Se visto in questa amara ma reale prospettiva diviene anche spiegabile come sia stato possibile che nel 1971 ben 98 976 ettari di bosco siano stati bruciati in Italia ad opera degli speculatori sulle aree fabbricabili, raddoppiando così in un solo anno la media dei precedenti incendi dolosi che negli ultimi dieci anni era stata di 43 300 ettari all’anno.
Di fronte ad un quadro così allarmante, di fronte alla manifesta compromissione delle strutture dello Stato, ci si rende conto dei limiti di una battaglia impostata unicamente sul terreno ecologico.
Per risolvere il problema del sottosviluppo meridionale, della desertificazione del Paese occorre intensificare una battaglia politica generale che metta in causa gli attuali rapporti di classe e di potere.
GUIDO MANZONE (*Aydin)
L’UNITA’ 9 gennaio 1973
Ringraziamo Renza Manzone per l’opera preziosa che sta facendo… E’ un po’ come se Guido fosse ancora con noi…
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