Un’altra Europa e un altro Piemonte, ultima chiamata per evitare l’estinzione.

Giorgio Abonante

Guardiamo in faccia le evidenze dell’ultimo turno elettorale, già vivisezionato da vari ricercatori e analisti: il PD ha ancora consenso nelle aree metropolitane, dove c’è lavoro, dove il grado di istruzione cresce, dove i redditi mantengono medie accettabili. Passando a chi ha vinto, è sempre la lente di ingrandimento delle condizioni socioeconomiche a offrirci una lettura dell’elettorato Lega – FI e Movimento 5 Stelle. Le periferie, nelle varie accezioni di questo termine, non ci danno fiducia.

Se uno studioso come Ricolfi afferma che la modificazione genetica del centrosinistra nasce negli anni 70, la “cetomedizzazione” come egli la definisce, è altrettanto vero che il progressivo passaggio di voti dall’area centrosinistra alla Lega e al Movimento 5 Stelle ha vissuto negli ultimissimi anni un’accelerazione clamorosa. L’ultimo turno ci consegna la sconfitta del PD, di Forza Italia, di LeU e il ridimensionamento del profilo politico di Emma Bonino, il successo indiscutibile di Lega e Movimento 5 Stelle, più percentuali in crescita per Fratelli d’Italia e per le micro aree di destra estrema presentatesi alle elezioni.

Il minimo comune denominatore di questi risultati è, credo, l’Europa, in positivo e in negativo. Puniti i soggetti politici più o meno schierati in difesa di Bruxelles, premiate le formazioni politiche apertamente critiche nei confronti dei meccanismi imposti dai trattati e dai patti contrattuali e istituzionali europei. Certamente, ci sono anche altri fattori che hanno inciso, ma che avevano bisogno di un tratto che li tenesse assieme.

L’Europa, spesso citata a sproposito come causa di tutti i mali, oggi vive il suo momento più delicato pur mantenendo una forma di rispetto garantita dal fatto che l’uscita darebbe forse più grane che vantaggi e da quel sogno di libertà che ancora molti legano all’Unione Europea. Tanto che nell’ultimo mese di campagna elettorale le esagerazioni sull’uscita dall’Euro si sono smorzate ma sempre con etichette critiche ben cucite sulle giacche dei 5 Stelle, Lega, Destre.

Se un apprezzato studioso come Bagnai, neokeynesiano, si candida nella Lega Nord, o un noto analista finanziario come Giovanni Siciliano [1] pubblica un saggio su come uscire dall’Euro, riscuotendo un crescente successo – e non dimentichiamoci dell’opera di Joseph Stiglitz [2] sullo stesso argomento – qualcosa vuole pur dire. Critiche che, peraltro, arrivano da studiosi riconosciuti in tutto il mondo e tutti di area progressista, ma dalla stessa ignorati, da anni attenti a sottolineare i difetti di un’Europa che oltre ai tanti meriti ha mostrato tutti i suoi limiti nelle vicende della Grecia e nella scarsa volontà di aiutare i Paesi più in difficoltà.

Molti di noi hanno cullato il sogno europeo, unico vero grande obiettivo politico della generazione dei quarantenni (e non solo) non tanto per le banalizzazioni sull’Erasmus che certamente rappresentava quello spirito di libertà post Muro di Berlino che ha avuto un peso e un suo fascino. Ma soprattutto per l’idea che solo la somma della forza di popoli, tradizioni, economie e culture, rappresentata appunto dall’Europa unita, sarebbe stata in grado di affrontare l’impatto dell’unico vero fenomeno nuovo e per molti versi incontrollabile offerto dalla fine del vecchio e l’inizio del nuovo millennio, cioè la globalizzazione.

Sapevamo che avrebbe portato speranze ma ne temevamo le inevitabili contraddizioni. L’Europa era e ancora dovrebbe essere lo strumento con il quale rispondere in modo regolativo alla libertà di movimento di uomini e capitali. Un modo per aprire e chiudere al tempo stesso, aprirsi tra europei per reagire a fenomeni affascinanti ma pericolosi per la tenuta dei nostri modelli di welfare. Questo approccio non è passato, per adesso. Perché dietro la facciata ideologica europeista gli Stati più forti si sono occupati degli interessi particolari e non di rafforzare la condizione dei ceti più numerosi su tutta l’area euro. Perché si fa fatica a mantenere i livelli di welfare e al grido di allarme di chi vede di fronte a sé un futuro peggiore. Il centrosinistra spesso ha risposto in modo aristocratico, altre volte con letture religiose, nobili ma che poco hanno a che vedere con la dimensione politica.

Di fronte a questo scenario o si rivede radicalmente l’Europa oppure il PD e i partiti dell’area progressista europea potrebbero ancora perdere consensi (a parte in Francia dove nei fatti ci siamo già estinti), e a poco vale la speranza Corbyn dal quale qualcosa dovremmo imparare, ma che vive in un contesto molto diverso da quello dell’area mediterranea nella quale il campo progressista dovrebbe elaborare un modello autentico.

Il PD ha bisogno di analizzare alla radice la sua ragione d’esistenza evitando di perdersi nel pollaio dei battibecchi post elettorali, sapendo che la sua esistenza non dipende dall’appoggio esterno o interno a questa o quella forza politica ma dalla capacità di convincere quell’elettorato impaurito che ha bisogno di riferimenti.

Prendiamoci il tempo che vogliamo ma non perdiamo l’occasione di aprire una fase costituente, che sappia attirare nuovi iscritti e che sappia porre il PD alla guida di un pensiero aperto e pratico al tempo stesso, senza inseguire formule e illudendosi che essere di sinistra significhi per forza riprendere simboli del passato. Ai sovranismi non possiamo rispondere con il sovranismo europeo, che è ancor meno comprensibile. Italia e Europa sono luoghi, culture, popoli ma sono soprattutto istituzioni e burocrazie che devono servire a chi ha meno opportunità.

Bisogna cambiare i meccanismi che sottendono l’Euro, poiché essi sono ancora incernierati nella logica del fondamentalismo di mercato. Qualora non lo facessimo non vi sarebbe alcuna speranza per cambiare lo stato delle cose nei paesi più deboli come il nostro. Non si tratta di cadere nelle soluzioni semplicistiche che avanzano sia la Lega sia il M5S, le quali sono null’altro che le due facce della stessa medaglia: la creazione di debito. L’una mediante una supposta rivitalizzazione del ciclo economico ottenuta attraverso la riduzione delle tasse (Flat Tax) dagli esiti molto incerti, poiché il minor gettito, oltre a ridurre l’offerta di beni pubblici, è statisticamente provato che verrebbe per gran parte indirizzato al mercato finanziario anziché depositarsi nell’economia reale; l’altra, il cosiddetto reddito di cittadinanza, è difficilmente applicabile. Un REI (già introdotto dall’ultimo Governo) maggiormente sostanzioso e ampliato a una più vasta platea sarebbe sufficiente. Per giunta, un generoso RDC rischia di diventare un trasferimento monetario permanente dalle proporzioni insostenibili per il bilancio dello Stato, a meno che questo non sia frutto di un programma d’investimenti congruo concertato a livello europeo che attiverebbe un virtuoso ciclo economico, riducendo nel corso del tempo l’iniziale domanda di quei sussidi (REI) destinati a contrastare il livello di povertà relativa. Non dobbiamo dimenticarci che a parità di condizioni (cambi fissi) il bilancio della UE rappresenta solo l’1% del PIL complessivo, mentre quello federale degli USA sfiora il 20%. Per fare ciò è necessario che si proceda a una completa revisione degli impegni che sono stati sottoscritti a Maastricht.

Più sulla dimensione locale invece si presenta un quadro per certi versi ancor più sconfortante e con una coerenza che fa rabbia. L’area che gli studiosi iniziano a considerare deserto urbano, quella fetta di Piemonte che parte dal biellese per allargarsi al sud astigiano alessandrino, corrisponde curiosamente al quasi deserto del centrosinistra in Parlamento, porzione di territorio che non avrà rappresentanti politici territoriali del PD a Roma. Forse PD, centrosinistra, Regione, Chiamparino, torinesi che si beano del buon risultato strappato nel capoluogo regionale, tutti devono capire che il modello Torino e “tutto il resto è noia” è fallimentare come è fallimentare blandire le richieste di maggior autonomia per una Regione che è parte del problema, non certo un fattore positivo addirittura da potenziare. Per parte nostra dobbiamo cercare e trovare alleanze territoriali che rafforzino la proposta politica dei corridoi territoriali isolati.

Il prossimo anno si vota per l’Europa e per il Piemonte. Forse non è troppo tardi, ma bisogna parlarsi in modo franco e ritrovare idee guida forti ed efficaci.

[1] Giovanni Siciliano, Vivere e morire di Euro, Imprimatur, 2018

[2] Joseph Stiglitz, The Euro and its Threath to the Future of Europe, Penguin Books, 2017

gia pubblicato su      Democratici&Riformisti

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