Uno vale l’altro

(*) La partita per il governo si complica. Però, diciamoci la verità. Immaginare che si risolvesse in sette giorni un ribaltone di queste proporzioni era una pretesa eccessiva. La colpa – come al solito in Italia – la diamo sempre al ceto politico. Il doppio forno di Di Maio, che continuerebbe a preferire il suo ritorno – da Premier – con Salvini. E il doppio gioco di Zingaretti, che volentieri andrebbe alle urne per liberarsi per sempre (?) dei renziani, ma che ha un intero partito che spinge per un accordo qualechesia. Ma perfino per uno come me – che scrivo da vent’anni di partiti personali e democrazia del leader – suona un po’ esagerata la visione di questi capi che decidono tutto. In barba ai loro militanti ed elettori. Che, in ogni caso, li seguirebbero. Non è così.

Il problema, per Zingaretti, è – relativamente – più facile. Se non altro, per questioni aritmetiche. Il Pd non ha alcuna prospettiva di ritornare al governo se non alleandosi con i Cinquestelle. Ora, o dopo nuove elezioni. Certo, ci sarà sempre qualcuno disposto a credere che sia possibile passare, in pochi giorni, dal 20 al 40 per cento. Magari immaginando che i grillini si liquefacciano come un ghiacciolo. Siamo seri. Piaccia o meno, quello coi Cinquestelle – prima o poi – è un matrimonio che s’ha da fare. Certo, se si votasse, i rapporti di forza potrebbero – anche considerevolmente – cambiare. Ma vale la pena di rischiare sapendo che, andando subito alle urne, Salvini potrebbe fare cappotto? Tutti – o quasi – risponderebbero di no. Cioè: tutti – o quasi – gli appartenenti all’establishment. Quelli che leggono regolarmente i giornali, soppesano continuamente i pro e i contro. E riescono – più o meno – ad avere un’idea dell’interesse nazionale. Ma i tifosi, cosa pensano i tifosi? La larga maggioranza dei votanti è animata dalle passioni, molto più che dai ragionamenti. Ed è anche – soprattutto – ai suoi tifosi che Zingaretti deve rendere conto. Ecco perché vorrebbe a tutti i costi un premier che rappresentasse un segnale evidente di discontinuità.

Questo stesso dilemma si applica ai Cinquestelle. Ma all’ennesima potenza. Perché l’elettorato grillino è – in larga maggioranza – animato soprattutto da – fortissime – passioni. Certo, principalmente per responsabilità dei suoi capi. Che hanno fatto crescere i voti alimentando incessantemente ogni refolo di protesta. Trasformandolo, a ogni occasione, in tempesta. È questo – nel bene e nel male – il motore di ogni populismo. E, finché il vento è nelle tue vele, la spinta dal basso è fortissima. Ma quando ti ritrovi a fare una bruschissima inversione di marcia e sei nel pieno della burrasca, come si fa a convincere la truppa che deve cambiare direzione e continuare a obbedire? Come si riesce a far cambiare opinione a migliaia di militanti sul web, tanto più se c’è il fuoco amico che spinge nell’altra direzione?

Per passare per questa – strettissima – cruna dell’ago, c’è una sola strada. Alzare il peso – e il coraggio – della leadership. Che non significa alzare la posta, come continua a fare Di Maio. Per sobillare le resistenze della base, non c’è modo più efficace che passare dal mitico «uno vale uno» al prosaico «uno vale l’altro». Come ha fatto in questi giorni il capo dei Cinquestelle, rifiutandosi di dire apertamente – in pubblico e al Quirinale – che il forno dei leghisti è chiuso. Definitivamente e irrevocabilmente chiuso. Adoperando le stesse parole che Conte ha, invece, usato, prima in Parlamento e poi al cospetto del gotha internazionale. Di Maio aveva ottime ragioni per farlo. Salvini aveva pugnalato alle spalle – a tradimento – lui e il suo movimento. E tra i grillini stava montando un’onda di ribellione anti-Lega. Cavalcare quell’onda e trasformarla nella consapevolezza che una svolta, a quel punto, era inevitabile non era certo un’impresa facile. E presentava molti rischi. Ma avrebbe mandato un messaggio chiaro, sia all’interno che all’esterno.

Ai grillini sarebbe stato chiaro che, per tornare con la Lega, non avrebbero dovuto soltanto rinunciare all’ex-premier, ma anche al loro capo politico. Che si assumeva la responsabilità del cul de sac in cui erano finiti. Quanto al Pd di Zingaretti, la richiesta – quasi indigeribile – di ribadire Conte a Palazzo Chigi non sarebbe suonata – quale è oggi – come un ricatto per non tornare da Salvini. Ma come l’esigenza per provare a tenere insieme i cocci di un partito cresciuto troppo in fretta e altrettanto in fretta costretto a un salto di maturità. Un salto cui soltanto una leadership unita e molto determinata potrebbe provare a guidarlo.

(*) (“Il Mattino”, 26 agosto 2019).. Segnalato dal civis Franco Livorsi

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