Usa e Europa sempre più distanti

Per due mesi resteremo appesi al verdetto delle elezioni americane. Può darsi che la tensione sia – mediaticamente – esagerata. Dopo tutto, sulle scelte economiche di fondo la distanza tra i candidati si presenta alquanto minore di quanto possa apparire nella rispettiva propaganda e – ancor più – negli aspetti caratteriali sui quali tendiamo a concentrarci, e a schierarci. Comunque, alla fine della gara o, se preferite, dello scontro, qualcuno vincerà. E sarà lui – o lei – a guidare la più potente nazione del pianeta. Niente del genere succede in Europa.

Ci sono voluti più di cento giorni perché si cominciasse a intravedere il governo che dovrebbe portare avanti l’Unione. Ma è bastato ascoltare da Letta e Draghi le scelte che dovremmo mettere in cantiere per essere competitivi sulla scena dell’economia globale e abbiamo subito capito che – con questa leadership ed assetto istituzionale – non ne saremo mai capaci.

La situazione – se possibile – peggiora se spostiamo lo sguardo verso Oriente. Nell’arco di un trentennio, la Cina è diventata una superpotenza planetaria. E lo ha fatto grazie a un inedito sistema misto di mercato ed autocrazia partitocratica. Un sistema che le ha consentito di raggiungere livelli sorprendenti di benessere per la sua sterminata popolazione riuscendo, al tempo stesso, a mantenere un notevole consenso interno. Gli analisti occidentali fanno ancora molta fatica a spiegare come si regga questo equilibrio ma, nel mentre che continuiamo a studiare, la Cina sta ormai superando il primato americano in molti dei settori di punta, inclusa l’intelligenza artificiale.

Detto in modo semplice e franco, nel confronto internazionale l’Europa continua a perdere colpi soprattutto per il suo deficit di capacità decisionale, una impasse che compromette la tempestività e l’efficacia dei suoi interventi e, in prospettiva, mette a rischio la sua stessa sopravvivenza. Come si esce da questa impasse?

La strada maestra sarebbe riformare il meccanismo deliberativo che – sulle scelte più importanti – obbliga all’unanimità di tutti gli stati membri. È l’indicazione sostenuta da tempo dai più autorevoli promotori di un’Europa più forte ed incisiva. Ma si tratta di una soluzione che, al momento, non appare plausibile, visti gli orientamenti prevalenti alla luce dei recenti risultati elettorali. Probabilmente, l’unica strettoia percorribile rimane quella emergenziale. Attendere che le cose precipitino perché siano le circostanze ad obbligare il gotha finanziario europeo a premere sull’acceleratore della spesa.

È già successo in passato, col «Whatever it takes» del governatore della Banca centrale europea che segnò – finalmente – una svolta nella politica dell’Unione. All’epoca – dodici anni fa – si trattava di provare a riprendersi dal precipizio innescato dalla crisi del 2008. Nel giro di un quinquennio l’entità della ripresa economica ha confermato la validità di quella contrastatissima accelerazione. Poi è arrivato il flagello del Covid. E di nuovo si è resa indispensabile una decisione straordinaria – per procedura ed entità – che aprisse i cordoni della spesa per soccorrere le economie in ginocchio, quella italiana in primis. Se oggi siamo ancora in campo lo dobbiamo alla coraggiosa iniziativa del Recovery Fund di Next Generation EU.

Certo, non è augurabile che ci sia un altro crollo a Wall street, e ancor meno una nuova pandemia. Qualcuno – molto cinicamente – potrebbe immaginare che la spinta verso un nuovo «stato d’eccezione» potrebbe provenire dall’espandersi incontenibile del fronte della guerra. Nessuno, ovviamente, se lo augura. Ma si sa che solo raramente il corso della Storia dipende dai nostri auspici.

di Mauro Calise.

(“Il Mattino”, 16 settembre 2024).

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