I Vangeli sono una miniera di informazioni, non solo da un punto di vista religioso, ma anche storico, sociale ed economico.
Nei passi neotestamentari, specie nelle parabole, si fa spesso riferimento al denaro e al suo valore, non tanto alle monete auree quanto a quelle di rame e d’argento, diffuse fra le classi medio basse.
Gesù, narrando le parabole, fa un discorso di natura allegorica ma sempre legato alla realtà socio-economica della Palestina.
Sicuramente, in questo senso, il più preciso, fra gli evangelisti, è Matteo. Da ex pubblicano (appaltatore delle tasse) conosce bene le monete citate e il rapporto che corre fra quelle dell’area siriaco- palestinese e le romane.
In Palestina nel I secolo circolavano monete d’argento romane (denari), fenicie, specie di Tiro, e greche (dramme, didrammi, due dracme, e tetradrammi, quattro dracme), e monete di rame dei vari sovrani locali, come, ad esempio, Erode il grande.
Matteo non confonde i termini, quando parla del tradimento di Giuda e del suo compenso usa l’espressione trenta pezzi d’argento e non trenta denari.
Riferendosi al tributo che ogni uomo doveva pagare ai romani (22,19) o alla mercede giornaliera di un lavorante agricolo (20,1-16), l’evangelista cita chiaramente la moneta da un denaro.
In merito al tributo, lo fa perché questo è un obbligo verso Roma, quindi è giusto pagare con moneta imperiale.
Per il bracciante usa il termine denario, ma sarebbe più giusto che adoperasse la parola dracma (o dramma), moneta diffusa in tutto il Mediterraneo orientale.
Nell’alto impero non c’è differenza fra dramma e denario, sono entrambe d’argento, dello stesso peso e valore: pagare un denaro o una dracma era la stessa cosa.
Ma Matteo usa il termine denaro per essere capito meglio da quei cristiani che non sono d’origine orientale.
Lo stesso si dica quando riferisce l’invito di Cristo a trovare un accordo con il proprio avversario che eviti una condanna dalla quale si uscirà solo pagando fino all’ultimo quadrante (kodrantes) (5-26).
Luca, riferendosi allo stesso insegnamento, parla di lepton (12,58-59).
Quadrante e lepton sono i valori più bassi dei sistemi monetari basati sul denario e la dramma. Il quadrante però valeva due lepton.
Riferendosi al tradimento di Giuda e al denaro dato alle guardie del sepolcro, perché testimoniassero il falso, Matteo parla di monete o borse d’argento.
In questi casi si tratta di pagamenti effettuati dai sacerdoti del tempio di Gerusalemme.
Questo non era solo un punto di riferimento religioso e nazionale per gli ebrei dell’epoca, era anche un’istituzione finanziaria. Aveva un grosso deposito di denaro, costituito dai tributi e dalle donazioni dei fedeli.
Il tesoro però non poteva essere formato da monete eterogenee, se pur auree e argentee, perché molte di queste riportavano riferimenti pagani: immagini di divinità o di sovrani.
Erano giudicate peccaminose perché non rispettavano il divieto delle Sacre Scritture di riprodurre figura umana. Le monete dei sovrani locali infatti riportavano immagini di piante, fiori o oggetti, un po’ come le emissioni dei paesi musulmani integralisti.
Ma, poiché le monete del passato, di qualsiasi metallo, continuavano a circolare anche molto dopo la scomparsa dell’autorità che le aveva emesse e dato che tanti erano gli ebrei che giungevano a Gerusalemme da paesi lontani, era necessario cambiare la massa eterogenea di monete che questi portavano con sé in pezzi ben accetti ai sacerdoti. Ecco quindi la presenza dei cambiavalute all’interno del tempio, oltre che dei mercanti di animali (per i sacrifici) e di oggetti (per gli ex voto)
Quali erano le monete ben accette al tempio? Quelle dei tetrarchi locali? No, perché essi potevano battere solo moneta di rame.
E allora?
Allora, erano ben accette le monete di Tiro, in Fenicia, città portuale in buoni rapporti con Gerusalemme dai tempi di Salomone.
I sicli e mezzi sicli degli Ebrei non erano altro che i tetradrammi (o stateri) e i didrammi d’argento riportanti le effigi del dio, patrono di Tiro, Melkart, e dell’aquila sacra a Zeus.
Sì, avete letto bene, monete con simbologia pagana. Pecunia non olet. I sacerdoti del tempio preferivano incamerare un solo tipo di moneta degli idolatri, ma di comprovata stabilità, piuttosto che tante monete pagane, alcune pure di lega scadente, come i tetradrammi di Alessandria, battuti in biglione.
Ciò significa che i sacerdoti pagarono Giuda con trenta sicli d’argento di Tiro, perché queste erano le uniche monete presenti nel tesoro.
Il valore quindi non era trenta denari ma 120, il prezzo di un servo anziano al mercato degli schiavi.
Giuda restituì le stesse monete, preso dal rimorso del tradimento, ma i sacerdoti non le incamerarono perché “prezzo di sangue”, quindi denaro contaminato, che poteva essere lavato solo con una transazione economica: l’acquisto del campo del vasaio.
Ritornando però al lepton citato da Luca, non si può non pensare alla Sindone.
Gli studiosi, all’altezza degli occhi dell’uomo sindonico, hanno (o avrebbero) individuato due lepton dell’epoca di Ponzio Pilato. Tutto ciò è suggestivo.
Nella parabola del buon samaritano riportata da Luca (10,25-37) ci sono riferimenti che fanno pensare a quanto fosse informato sui prezzi il narratore.
Un breve riassunto solo per rinfrescare la memoria: un giudeo viene assalito dai predoni, che lo derubano di tutto, lasciandolo sul terreno ferito e privo di sensi.
Passano di lì un sacerdote e un levita, due ebrei osservanti della legge (“ama il tuo prossimo”) ma non gli prestano soccorso.
Viene aiutato invece da un samaritano. I samaritani erano considerati dai giudei veri e propri nemici.
L’uomo, dopo aver medicato il malcapitato, lo conduce con sé, facendolo ospitare nella stessa locanda dove trova alloggio per la notte.
Il giorno successivo, alla partenza, consegna due denari all’oste perché si prenda cura del ferito, promettendo di rifondere il rimanente delle spese al suo ritorno.
Si noti il preciso riferimento ai due denari per provvedere al ferito.
Luca parla di due denari. Forse nella narrazione originale si parla di due dracme.
L’evangelista, medico non di origine ebraica e autore dell’unico testo canonico in lingua greca, forse usa questo espediente per fare più presa sui neofiti cristiani di area occidentale, però la cifra coincide con la nota spese di un viaggiatore italico nel I secolo, riportata dal fine economista, nonché storico e numismatico, Ettore Ciccotti in “Vecchi e nuovi orizzonti della numismatica e la funzione della moneta nel mondo antico”.
In un bassorilievo proveniente da Isernia, nel Sannio, un uomo, in abito da viaggio, che conduce un mulo, fa il conto con l’ostessa: un asse per vino e pane, due assi per il companatico, due per il fieno al mulo, otto per una donna di piacere per la notte.
In totale tre sesterzi e un asse, ¾ di denaro .
Ora, se togliamo la donna di piacere e il mulo, ma non il posto letto, un asse, si giunge ad un sesterzo (= a quattro assi).
Con due denari, un viandante (senza pretese) poteva trascorrere in una locanda più di una settimana, il tempo che il giudeo ferito avrebbe impiegato per riprendersi.
In caso di maggiori spese, il samaritano avrebbe versato il resto.
C’è un nesso fra la parabola evangelica e il bassorilievo di Isernia.
Ma i nessi, come i collegamenti, con le monete del tempo sono frequenti negli scritti neotestamentari.
Un ultimo riferimento: nella parabola della dracma ritrovata dalla massaia (Luca 15,8-10) , la donna gioisce per il ritrovamento della moneta e rende partecipi di ciò le vicine di casa.
Ha ragione di gioire, una dracma (o un denaro)corrisponde al salario giornaliero di un lavorante agricolo.
Venti denari erano lo stipendio mensile di un legionario di Augusto.
Però, mentre il legionario, in tempo di pace, integrava il suo compenso con donativi di varia natura (cibo, sale, denaro), l’operaio agricolo doveva farsi bastare quella moneta da un denario per i giorni in cui sarebbe rimasto senza lavoro.
Braccianti, giardinieri e operai in genere si riunivano in piazza in attesa di essere assunti alla giornata da un fattore, o dal suo aiutante.
Tornando a casa con il suo denaro (o dracma) d’argento, il lavoratore avrebbe consumato una zuppa di vegetali del proprio orto e di pane prodotto con la farina del grano ricavato dalla spigolatura fatta dopo la trebbiatura, ma con quella moneta doveva pagare tutto il resto, a cominciare dai tributi.
Egidio Lapenta
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