Vincitori e vinti

La fase uno, quella che potremmo definire del “si salvi chi può”, è finita. Comincia quella del “che Dio ce la mandi buona”.
Ci hanno chiuso in casa non sapendo ancora quale fosse la natura, la dimensione e lo sviluppo della minaccia, ci lasciano uscire ora che sappiamo esattamente quali pericoli corriamo. Sembra paradossale ma ha un senso. Ed è anche un atto di fiducia (o di rassegnazione).
Per molti versi siamo già tornati alla più assoluta normalità: la solita rissa politica, il cavalcare anzi il sobillare ogni possibile protesta, lo scaricabarile di responsabilità, le lamentele di categoria, le minacce elettorali, le manovre per far cadere il governo.
Uno dei motivi per cui si è passati improvvisamente all’insofferenza è l’indigestione che abbiamo fatto di notizie, raccomandazioni, affermazioni retoriche che hanno inondato i nostri canali informativi, le nostre conversazioni e i nostri sogni.
È quindi venuto il momento di cambiare argomento, tornare alle preoccupazioni quotidiane e di fare bilanci.
Chi ha (fin qui) vinto o perso?
Gli Italiani tutti, nessuno escluso, sono i primi vincitori ma anche i primi sconfitti.
Trentamila morti sono il bollettino di un disastro senza paragoni. Persone anziane che avevano la prospettiva di mettere fine, entro un tempo relativamente breve, ad un lungo percorso di vita circondati dagli affetti dei loro cari, in pace con se stessi, sereni nel tirare la somma di soddisfazioni e tribolazioni, si sono viste repentinamente isolate e abbandonate o nel subbuglio di un ospedale nel panico o nel silenzio di una casa privata o di riposo, senza capire perché, senza una spiegazione medica convincente, senza il conforto di quelle parole semplici ma preziose che aiutano a prepararsi all’addio.
In compenso la prima nostra vittoria è che, in assenza delle decisioni adottate, i morti sarebbero stati almeno il doppio, secondo le valutazioni di un autorevole istituto scientifico inglese.
La seconda vittoria è riassumibile in due parole: carattere e personalità. Sono le doti mostrate nella clausura e che raramente vengono usate, a livello internazionale, per definirci.
Tutti eravamo nella stessa situazione blindata e passiva, ciononostante ciascuno ha saputo reagire in un modo diverso ma sempre generoso e creativo.
I sindacati sono tornati, dopo molto tempo, al centro del dibattito. Hanno trovato un ruolo inedito in fabbrica e sui posti di lavoro. Quello di garanti  della sicurezza sanitaria.
Non credo sia un compito facile, perché i lavoratori -al pari degli imprenditori- sono interessati ed impazienti di ritornare a produrre merci e, conseguentemente, reddito ma sono anche l’oggetto delle regole di distanziamento fisico, in fabbrica e sui mezzi di trasporto.
Questa nuova visibilità non toglie che per le organizzazioni del lavoro si preparano tempi ancora più duri. Gli esperimenti di lavoro a distanza e a domicilio hanno dimostrato di poter funzionare anche in tempi ordinari, accelerandone una applicazione diffusa. In questo scenario, il ruolo dei sindacati dovrà cambiare profondamente.
Veniamo al campo della comunicazione che era il nostro unico tramite con il mondo.
Lode ai medici, non solo per l’abnegazione mostrata sul lavoro e costata così caro prezzo, ma anche per le capacità divulgative. Praticamente tutte le discipline mediche sono state utilizzate per rassicurare la popolazione. Gli esperti sono riusciti a spiegare cause, circostanze, prospettive di una malattia di cui non sapevano niente. Non hanno nascosto la loro incertezza ma hanno usato le parole giuste per renderci complici dei loro tentativi di capire.
Gloria ad Angelo Borrelli che ha saputo giorno per giorno immolarsi nel tentativo di annacquare cattive notizie, di spegnere sul nascere possibili gelosie tra agenzie, comitati e commissari, di mediare tra Stato, Regioni e Sindaci, di soddisfare pazientemente le domande sempre uguali e senza possibili risposte da parte dei giornalisti.
Complimenti a Vittorio Colao che per ora, in epoca di chiacchieroni vanesi, non ha mai rilasciato interviste. Forse perché qualunque cosa avesse detto, gli avrebbero dato torto.
Di Conte capo del governo e quindi dell’emergenza, giudicherà la storia. Non quella con la S maiuscola come da lui dichiarato ma certamente quella degli anni a venire. Prima di inveirgli contro, però, bisognerebbe fare l’esercizio di immaginare come si sarebbero comportati quei pochissimi leader politici italiani che, nell’attuale scenario politico, avrebbero potuto verosimilmente essere al suo posto.
Mi limito a parlare del suo stile comunicativo.
Dal capo incontrastato dell’emergenza ti aspetti parole rare ma importanti e rassicuranti. Che sappiano dare un senso a quanto succede, che spesso sembra non averne.
Che sia in grado di dare una visione e un orizzonte ad un futuro così incerto. Insomma il ruolo che solo lui, per autorevolezza, può svolgere.
Tutto questo è il contrario dell’illustrare testi di circolari, autocertificazioni, permessi, divieti; non manca chi lo possa fare al suo posto e meglio.
Ad esempio filmati, video tutorial, cartoni animati (per rendere partecipi anche i bambini), spersonalizzando così la comunicazione e ridandole il suo valore pratico e funzionale.
Non fa bene, toglie prestigio al premier sentirgli illustrare puntigliosamente (e confusamente) i metri di distanza negli allenamenti e il numero dei partecipanti ai funerali.
Nel momento in cui tutti auspicano una semplificazione nelle procedure per gli aiuti economici, una riduzione dei passaggi di autorizzazione e garanzia, appare incongruo e poco promettente che il Capo del Consiglio appaia come il primo e più compiaciuto burocrate in un paese di burocrati.
Mi raccomando, ora che usciamo, di non fare i disinvolti e gli spregiudicati per apparire coraggiosi o giovanilmente incoscienti. Abbiamo ormai tutti qualche anno sulle spalle. Mostrate apertamente la vostra prudenza, anche quando assomiglia a diffidenza.
Buon vaccino a tutti.
GianlucaVeronesi

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