Le vittime esistono da sempre.
Se la storia è stata, come diceva Hegel, il “grande macello”; se la violenza, le sopraffazioni e gli abusi hanno accompagnato il percorso dei secoli, c’è da sempre chi ne è stato colpito. Le vittime reali, in carne e ossa e sangue sono una presenza eterna e intrinseca all’agire umano.
Non è così per la vittima come categoria politica, come figura pubblica e simbolica che è invece un’acquisizione relativamente recente.
Scrive in proposito, Donatella Di Cesare, in Il complotto al potere: “L’irruzione della vittima nello spazio pubblico è un fenomeno recente che (…) si precisa dalla metà del secolo scorso. (…) A inaugurare un nuovo capitolo sono le guerre mondiali”.
E’ dunque nel corso del secolo breve che la vittima assume una dignità concettuale e diventa una categoria essenziale del discorso pubblico. Le tragedie del Novecento sono state lo scenario generale in cui questo salto di qualità è avvenuto, ma le sue conseguenze perdurano anche nel nuovo millennio.
Il ruolo della vittima è molto ambito. Rappresenta una parte che nello spettacolo del mondo riscuote consenso e soprattutto fornisce legittimazione. La vittima è di per sé giustificata in ogni comportamento, ha maturato il diritto ad ogni reazione e suscita con facilità affetto, solidarietà, appoggio incondizionato.
Le narrazioni pubbliche contemporanee sono piene di esempi.
Negli anni della pandemia , Robert Kennedy Jr (RFK), oggi ministro della sanità nell’amministrazione Trump, ma all’epoca esponente di punta del movimento no vax internazionale, paragonò la condizione di chi si opponeva ai vaccini a quella dei deportati ebrei durante il regime nazista. Il paragone fu talmente eccessivo che lo stesso Kennedy, di fronte alle proteste della comunità ebraica, dovette riconoscere di aver esagerato. Ma quell’esagerazione metteva in piena luce il meccanismo retorico e narrativo: il ruolo di vittima era così desiderabile che l’iperbole, il parallelismo smisurato e improprio erano pur sempre utilizzabili per conquistarlo.
Anche Hamas, il movimento terrorista che governa Gaza, artefice del pogrom del 7 ottobre 2023, maneggia con grande sapienza la categoria di vittima. Utilizza gli scempi perpetrati sul popolo palestinese come autolegittimazione, talvolta subendoli. molto spesso favorendoli. Ogni palestinese massacrato, ogni bambino ucciso è esposto all’opinione pubblica internazionale per alimentare la narrazione vittimaria. Hamas utilizza il suo popolo proprio per potenziare questo meccanismo retorico. E la sua narrazione appare vincente, pienamente adottata dall’opinione pubblica internazionale.
La capacità legittimante del ruolo di vittima è parte integrante dei movimenti populisti degli ultimi decenni. Le loro narrazioni sono intrise di argomentazioni vittimistiche: nel nostro Paese, il M5s ci ha presentati per anni come vittime della casta: la Lega come vittime dell’Euro e delle burocrazie europee. Far indossare ad un intero popolo il ruolo di vittima porta consenso. E’ un meccanismo che consente di dare voce alle frustrazioni, al malessere e agisce come valvola di scarico.
Negli ultimi anni tuttavia, sembra esserci stato un ulteriore salto di qualità.
Intanto è affiorata una forma di vero e proprio gangsterismo politico. In generale si traduce e si incarna in personaggi che utilizzano il proprio potere per fare strame – come veri e propri criminali – dello stato di diritto, delle leggi, delle regole comunemente accettate. Dalla Turchia di Erdogan alla Russia putiniana, il fenomeno data da almeno un paio di decenni. Esprime una sostanza inquietante perché nella sua sfida a norme e leggi elimina ogni garanzia per chiunque non appartenga alla cerchia del capo, e neppure in quel caso si è al riparo da pericoli.
Una ventina di anni fa Anna Politkovskaya usò il termine “cekista” per definire il nuovo zar Vladimir Putin che, forte del suo potere si avvaleva del diritto di incarcerare, eliminare, soffocare e persino uccidere gli oppositori. Il termine richiamava la memoria sovietica della Ceka, la polizia segreta di Lenin, ma la sostanza era esattamente quella: una metastasi consistente nella sovrapposizione tra comportamenti malavitosi e azione politica. Lei pagò con la vita il suo coraggio di denunciare.
Ma oggi, quella metastasi ha varcato i confini delle autocrazie, invadendo il terreno delle democrazie, distorcendole, deformandole, piegandole contro se stesse. In uno stato democratico come Israele figure come il premier Benjamin Netanyahu o i suoi ministri Smotrich o Ben-Gvir si muovono, anche da prima del 7 ottobre, a cavallo tra legalità e illegalità, forzando, talvolta violentando i vincoli dello stato di diritto e precipitando il paese in gravi crisi costituzionali.
Adesso, tuttavia, il caso più eclatante è rappresentato proprio da una delle democrazie più antiche e importanti, da quella che per molti è l’emblema stesso della democrazia; gli Stati Uniti d’America.
Il trumpismo è gangsterismo politico. Lo è nella biografia del suo titolare, Donald Trump, condannato da un tribunale di New York, quattro volte bancarottiere, artefice di un tentativo di colpo di Stato, e primo presidente americano con la fedina penale sporca. E lo è nella sua azione politica: più della metà dei suoi provvedimenti sono illegali; gran parte delle sue decisioni vanno oltre i dettami costituzionali e mettono consapevolmente in atto un tentativo di scardinare i pilastri della Costituzione americana. In questi primi cento giorni sta testando la capacità di resistenza del sistema, del meccanismo dei pesi e contrappesi, della separazione costituzionale dei poteri, esattamente come le bande criminali che si impadroniscono di un territorio saggiano la capacità di reazione delle forze dell’ordine per comprendere fin dove è conveniente spingersi.
Ma il gangsterismo politico è anche e soprattutto uno stile, una postura, un linguaggio. Minacce e ostentate intimidazioni ne sono parte integrante, come si conviene all’agire malavitoso. L’ormai celebre incontro alla Casa bianca con Zelensky ne è l’esempio più eclatante, ma lo è anche il ritiro dei fondi pubblici alle Università non in linea o quello ai grandi studi legali che hanno difeso avversari di Trump. Lo è la minaccia di rimozione di Jerome Powell, presidente della Federal Reserve, se non si allinea agli sconsiderati desideri trumpiani o l’accordo affaristico con gli ucraini sulle terre rare, che assomiglia alla nota “proposta che non si può rifiutare” di don Vito Corleone.
Eppure, persino lo stile gangsteristico-malavitoso, fatto di arroganza, aggressività e spregio delle leggi, non rinuncia alla narrazione vittimistica, non fa a meno della grande potenza di legittimazione derivante dal ‘passare per vittima’. Il meccanismo retorico del vittimismo è stato incorporato dal gangsterismo politico, come una sua parte essenziale e l’amministrazione di Washington ce lo ricorda in continuazione: gli Stati Uniti negli ultimi ottanta anni sono stati “fregati”, son stati vittime del cinismo degli altri paesi, vittime del “parassitismo” degli europei, che hanno sfruttato la generosità americana.
Ci troviamo dunque di fronte ad un dispositivo retorico di grande potenza che va riconosciuto e decodificato, perché alimenta la crisi in atto delle democrazie. Può essere utilizzato come un grimaldello per scardinare i principi dello stato di diritto: le narrazioni tossiche hanno una grande forza contundente ed esserne consapevoli è indispensabile per contrastarle.
Massimo Rostagno
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