Se si potesse tornare indietro di qualche secolo, la politica dovrebbe imparare dalla Chiesa come selezionare i propri leader. Fra i tanti malanni che affliggono le nostre democrazie, il più grave è il sistema di voto. Che dovrebbe essere il fondamento del loro funzionamento, e invece si sta rivelando il motore della loro disgregazione.
A dispetto delle differenze tecniche – maggioritario, proporzionale o misto – i sistemi sono tutti infiltrati dal virus del nostro tempo, il direttismo. La spinta, cioè, a trasformare ogni tipo di meccanismo in una scelta plebiscitaria. Che concentra in un unico momento e un solo atto il rapporto tra il popolo e l’eletto. Senza filtri, senza mediazioni. Solo la spinta delle emozioni suscitate da un capo carismatico e amplificate attraverso i media. Questo appare in modo eclatante nei regimi presidenziali, ma anche in quelli parlamentari il vero traino del risultato oggi è il leader, che può determinare in pochi mesi le fortune del proprio partito con il suo appeal comunicativo.
È un trend che non riusciamo a fermare. A ogni elezione, misuriamo il tasso di partecipazione sperando che non sia diminuito troppo. E che si possa ancora salvare il rito dell’unzione democratica, proclamare che c’è un candidato che in qualche modo è riuscito a rabberciare un qualche tipo di maggioranza. Ma quel modo sta diventando sempre meno rappresentativo della complessità della nostra società. La democrazia che continuiamo a chiamare democrazia rappresentativa è diventata una democrazia emotiva.
Guardate, invece, al funzionamento del Conclave. Innanzitutto, il corpo elettorale. Cardinali che rappresentano l’aristocrazia dell’apostolato, un titolo guadagnato attraverso un lunghissimo tirocinio nelle più diverse zone del pianeta, assolvendo a complessi incarichi gestionali e, al tempo stesso, dando prova al cospetto dei fedeli – coram populo – della propria simbiosi con la fede. Decenni di apprendistato al comando e, al tempo stesso, al dialogo con le folle, sempre all’insegna della trasparenza.
È questo corpo elettorale d’eccezione a misurarsi con la scelta del papa. E lo fa con un meccanismo di voto fatto di poche ma stringentissime regole: maggioranza qualificata e segretezza. La prima serve a garantire il più ampio consenso possibile, nella piena consapevolezza che – tra le tante sfide che il papa dovrà affrontare – l’unità della Chiesa è di gran lunga la più importante. La seconda sottrae la decisione a qualunque influenza esterna e, soprattutto, a quella dei media e alle dinamiche di amplificazione e polarizzazione dei dissensi. Contribuendo a responsabilizzare i cardinali, insindacabili nel giudizio che esprimeranno in segreto.
Si tratta di criteri agli antipodi delle elezioni plebiscitarie che oggi incrinano le nostre democrazie. Però, non sarà un caso se, in Italia, la istituzione che – ininterrottamente – continua a rappresentare il baricentro della tenuta politica, è regolamentata da un sistema elettorale di secondo livello, in cui sono i parlamentari a scegliere il presidente della Repubblica. E lo fanno, spesso, superando le linee di contrapposizione partitica, con valutazioni che privilegiano il prestigio, l’esperienza, la lungimiranza di chi per sette anni sarà al vertice del nostro Stato. Non è poco. E nel panorama globale, non sono molti i paesi che possono contare su un contrappeso così autorevole al direttismo. Nella ridda di leggi elettorali che hanno promesso di migliorare le cose ma le hanno solo peggiorate, l’unica che continua a funzionare è la stessa di quasi ottant’anni fa.
di Mauro Calise.
(“Il Mattino”, 12 maggio 2025).
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