Alexander Bayanov è un giornalista russo ora residente a Riga. Da una ventina d’anni cerca di mettere in guardia i suoi concittadini russi dalla deriva in cui il più grande Stato del mondo per estensione è progressivamente caduto. Una deriva fatta di prezzi alle stelle, buoni solo per chi se lo può permettere, di ritorno ad una economia emergenziale fatta di privazioni, di scelte obbligate e di condizionamenti (per i più). Di una percebile condizione di insicurezza aggravata dalle restrizioni imposte dalla guerra in corso, nonostante la propaganda sia martellante ed abbia scardinato alcune “resistenze”. A Briansk come a Mosca o a Novosibirsk, non ci sono più – se non di poche decine di persone – manifestazioni contrarie alla guerra del 2022, quella che ha messo una contro l’altra parti di famiglie che hanno maturato negli anni stretti legami, ben oltre le appartenenze geografiche. “Ho sposata una ucraina” detto da un giovane di Mosca, non riscuoteva più attenzione di “Sto con una cinese” o “Sposerò una iraniana”, semplicemente plausibile in un clima di tolleranza e libertà. Proprio quella abitudine alla libertà che portava un buon terzo del popolo russo (le stime sono state fornite per la prima volta da (1) Anya Stroganova) a criticare apertamente, con interviste, sui giornali, in TV e in strada, una scelta ritenuta tipica del passato ‘imperialismo zarista, non certo di una nazione proiettata nel XXI secolo. Ora la situazione è differente. Si tira la cinghia, si annuisce alle veline della Zakharova e Putin, incredibilmente, viene ad a essere considerato un “alfiere della libertà” contro i cattivoni pieni di soldi (e di armi).
Bene, o forse male…. La Russia, soprattutto al di fuori delle grandi città vive ancora, sostanzialmente come prima dell’Ottantanove, con i riferimenti di sempre: rappresentanti periferici strettamente legati al centro operativo politico di Mosca, forte controllo poliziesco nei centri grandi e piccoli, tendenza a sminuire l’importanza dell’impegno politico, invitando i cittadini a vivere la propria vita al meglio, cercando un riscatto economico e sociale in chiave sostanzialmente capitalista. Soprattutto il ritorno della Grande Patria Russa, a metà tra reminescenze zariste e celebrazioni brezneviane. Non solo. Di fatto negli ultimi quindici anni, la Russia è cambiata… in peggio. Dalle elezioni della Duma nel 2016 a quelle che si sono svolte nel 2021 e poi l’anno scorso, il “Grande Paese” non è semplicemente diventato più autoritario, ma ha posto le basi per la propria trasformazione in una tecnocrazia centralizzata che garantisca un ricambio generazionale e possa sopravvivere a Vladimir Putin.
Uno degli attori principali di quest’evoluzione è l’ufficio dell’Amministrazione Presidenziale (AP), vero braccio esecutivo del Cremlino guidato originariamente da Anton Vajno, e il cui responsabile per la politica interna – ante conflitto ucraino – era il primo vice-capo di gabinetto (ed ex primo ministro di Boris El’tsin), Sergej Kirienko. In quella posizione strategica vi è oggi Valeriy Gerasimov , capo dello Stato maggiore generale delle Forze armate russe nonche’ vice-ministro della difesa della Russia dopo la sostituzione di Nikolaj Makarov. Quindi….
All’origine della “Questione ucraina” una “questione russa” ancora da affrontare…
Facendo un parallelo forzato con l’Unione Sovietica, la Russia di Putin è entrata in una sua fase brežneviana: un periodo in cui, nel dubbio su come tenere in piedi un regime pluridecennale, la strada intrapresa non è quella delle riforme, ma la burocratizzazione della macchina del potere. Questo uno dei punti forti di Alexey Navalny e questa una delle motivazioni dell’esilio (solo in parte “voluto”) dell’autore dell’articolo che andiamo a prendere come stimolo.
Bayanov infatti ha osservato con preoccupazione i cambiamenti intervenuti negli ultimi anni, tanto nel ruolo e nella composizione del partito di governo, Russia Unita, quanto nel funzionamento complessivo della politica regionale. Anche in assenza di riforme strutturali, però, la Russia non è l’Unione Sovietica degli anni ‘70-‘80: l’economia è più solida anche se non “generatrice di benessere ramificato” (2). e il governo – sotto la supervisione del “mille occhi e orecchie” Putin – ha lanciato una serie di iniziative per rendere più efficienti le amministrazioni pubbliche e sviluppare moderne tecnologie dell’informazione. Novità che contribuiranno probabilmente a organizzare e stabilizzare il regime, anche se – per il momento – il tutto è volto a normalizzare l’ “interno” e a “potenziare lo sforzo bellico” verso l’Ucraina, tecnologia compresa. Nel lungo termine, però, efficienza amministrativa e innovazione tecnologica non basteranno a colmare le lacune di un sistema che, invece di offrire prospettive di crescita alla popolazione, la reprime.
Russia Unita e l’Amministrazione Presidenziale
Alle recenti elezioni Russia Unita ha potuto contare – oltre a un tradizionale bacino elettorale pro-Putin, in particolare all’interno delle amministrazioni statali – su un sistema elettorale misto introdotto ad hoc nel 2016, su una lunga serie di leggi repressive emanate negli ultimi mesi e su un ampio ricorso a brogli registrati da osservatori indipendenti in tutto il Paese. Il successo del voto sulla carta, però, nasconde il fatto che la popolarità del partito è in calo costante da alcuni anni, cosa apparsa evidente tanto a Mosca (dove senza la quota del più che sospetto voto online Russia Unita avrebbe perso varie circoscrizioni) quanto in alcune regioni ‘di protesta’ della Siberia e dell’Estremo Oriente russo come Tomsk e Khabarovsk. Più in generale, i risultati elettorali non dicono come il ruolo di Russia Unita all’interno del sistema politico sia andato degradandosi. E’ utile soffermarsi su questi passaggi perchè una delle motivazioni della evidente tendenza a continuare comunque la guerra da parte di alcuni Stati Europei e della Dirigenza UE, risiede proprio nella voltontà, oltre che di “resistere”, di provocare sconquassi in casa Russia. Una precarietà tutta da evidenziare che il pesante tran tran giornaliero e i controlli stringenti cercano di coprire. Infatti è chiara l’usura naturale di una formazione creata nel 2001 che fonda da sempre la sua legittimità, anche a livello locale, su un unico leader nazionale. Del resto, nell’estate del 2020, Russia Unita stessa riconosceva in un documento interno al partito la necessità di rinnovare parte della sua leadership con figure più ‘vicine’ alla popolazione, con l’obiettivo non scritto di canalizzare le proteste e le istanze dal basso che sembravano in crescita, come quella ecologista. Nei fatti, Russia Unita non ha cercato attivamente figure nuove e – oltre a contare sulla repressione delle opposizioni – ha optato invece per l’inerzia, mettendo in testa alle liste regionali e nazionale personalità di facciata che, nonostante siano state elette, non sederanno alla Duma perché non rinunceranno al loro incarico attuale: tra tutti, il Ministro degli Affari Esteri Sergej Lavrov e un’ampia maggioranza di governatori.
In secondo luogo, Russia Unita, presente in maniera capillare su tutto il territorio, è diventata con il tempo una struttura di emanazione del potere centrale priva di sostanza politica, per varie ragioni. Innanzitutto il Parlamento, e di conseguenza il partito di governo – già dotato di per sé di poca influenza – hanno visto il loro ruolo svuotato dall’aumento dell’autoritarismo del regime. Inoltre, Putin stesso, se inizialmente si presentava – seppur non formalmente – come leader del partito, se ne è a mano a mano allontanato, fino a partecipare a partire dalle elezioni presidenziali del 2018 come ” candidato indipendente “. Infine, contestualmente l’amministrazione presidenziale ha acquisito, soprattutto dall’arrivo di Kirienko nel 2016 e di chi lo ha sostituito, un ruolo preponderante tanto nell’esecuzione delle decisioni del Cremlino quanto nel controllo del centro sull’intero sistema politico russo.
Ma cos’è esattamente “Russia unita”?
Nata nel 1991 durante i caotici anni el’tsiniani come ufficio della presidenza, l’Amministrazione è stata interamente riformata all’arrivo di Putin e con il tempo si è espansa sia come staff che geograficamente. Organizzata in dipartimenti, situata negli stessi uffici del Comitato Centrale del Partito Comunista tra la Piazza Rossa e la Piazza Vecchia a Mosca, l’organizzazione e il ruolo di quest’istituzione ricorda, con tutte le differenze del caso, il Partito sovietico: senza avere nulla di comparabile in termini di apparato ideologico, propaganda, formazione dei quadri, è però una macchina burocratica in continua espansione che garantisce il controllo sulla politica locale, soprattutto tramite la selezione a Mosca delle leadership regionali e l’invio, sempre dalla capitale, di figure quali i vice-governatori, che – sulla scia dei secondi Segretari del PCUS di un tempo – sono deputati a controllare che le élite locali eseguano i diktat del centro e ad assicurare il legame tra politica locale e i servizi dell’FSB (ex KGB).
La politica regionale nell’era Kirienko e oggi
Dal 2012 sono state reintrodotte in Russia le elezioni dirette dei governatori (o ‘presidenti’, secondo i casi) delle 85 entità territoriali russe, dopo una parentesi dal 2004 al 2012 in cui i leader delle regioni erano nominati direttamente dall’esecutivo. Nonostante l’apparente ritorno a una legittimità popolare dei leader delle repubbliche, l’amministrazione Kirienko ha reso le elezioni regionali (che si svolgono a rotazione ogni anno) uno strumento di conferma ex post di nomi decisi da Mosca. Il sistema è stato rodato in più elezioni ed è molto efficiente: il governatore in carica rassegna le dimissionialcuni mesi prima delle elezioni autunnali, l’AP invia al suo posto un rappresentante ‘ad interim’, il quale si candida poco dopo come membro di Russia Unita o come indipendente e, nella stragrande maggioranza dei casi (anche se non in tutti), vince. Oltre al loro aumento sistematico dal 2016 in poi, l’elemento caratterizzante di queste nomine è il profilo delle persone selezionate: tecnocrati il più delle volte giovani (tra i 30 e i 50 anni) che hanno svolto una parte della loro carriera nell’alta amministrazione a Mosca, privi di una pregressa esperienza politica e, soprattutto, di qualsiasi legame con la regione che sono chiamati a governare. Da notare che i nuovi tecnocrati sono inviati indifferentemente sia in regioni prive di una forte identità politica che in repubbliche in cui l’appartenenza all’etnia dominante è stata invece per anni una condizione necessaria per governare.
Come ha calcolato l’analista politico Aleksandr Kynev, se tra il 2012 e il 2015 su 26 nuovi governatori gli ‘stranieri’ (c.d. ‘variaghi’, letteralmente i popoli scandinavi che si stanziarono in Russia tra il IX e l’XI secolo) – erano solo 10 (38% del totale), tra il 2016 e il 2020 su 67 nuovi governatori, 49 (o il 73% del totale) non provenivano dalla regione in cui erano candidati.
La preferenza del Cremlino per tecnocrati relativamente brillanti (e anonimi allo stesso tempo) e per l’assenza di un qualunque nesso territoriale non è casuale, ma risponde a due esigenze principali: la prima, perseguita da Putin fin dal suo arrivo nel 2000, è quella di riprendere controllo della politica regionale, scardinando reti locali di politica, business e corruzione autonome dal centro (con alcune notevoli eccezioni, come la Cecenia di Ramzan Kadyrov o il Tatarstan di Rustam Minnichanov). La seconda è quella di dotarsi di una nuova ed efficiente generazione di ‘amministratori’ fedeli al centro e privi di particolari ambizioni politiche personali.
I limiti dell’efficienza
Lo stesso primo ministro dal 2020 Michail Mishustin – direttore del servizio fiscale federale per dieci anni – incarna il ruolo crescente dei tecnocrati nella Russia putiniana, e segnala come digitalizzazione e tecnologie informatiche siano diventate una priorità assoluta del governo russo. Il rafforzamento della verticale di potere Cremlino-regioni va in effetti di pari passo con molte iniziative governative dirette a rendere più efficiente la grande e goffa macchina statale russa, con tagli al personale, modernizzazione dei servizi, aumento del controllo digitale sulla popolazione, e sistemi all’americana di valutazione delle performance di politici e funzionari.
Un maggiore controllo sulle regioni, un miglioramento delle prestazioni statali, un controllo quasi paranoico dei cittadini possono rafforzare il regime nel medio termine, e questo anche al di là e oltre Putin. Il problema di fondo però rimane: un regime autoritario, per quanto governato da tecnocrati più o meno efficienti e memori del crollo dell’URSS, non ha maniera di colmare le inefficienze di un sistema che reprime l’attività privata e la libertà di espressione, e rischia di generare malcontento e quindi repressioni ulteriori, fino ad un limite valicato il quale il regime cesserà di funzionare. Mishustin ha più volte presentato le nuove tecnologie non solo come uno strumento per migliorare il funzionamento dei ministeri e delle amministrazioni, ma come un settore economico prioritario, definendo i big data ‘il nuovo petrolio’.
Un esempio concreto mostra però che la trasformazione digitale guidata dall’alto, e alla russa, funziona sulla carta, ma non nella realtà. La città di Innopolis, nella repubblica del Tatarstan, è stata creata nel 2015 come un polo futuristico di produzione di nuove tecnologie. Riconosciuta ‘zona economica speciale’, dotata dei primi taxi automatici senza autista, uno dei suoi obiettivi ufficiali è quello di attrarre le più promettenti industrie tecnologiche nazionali ‘e da tutto il mondo’. Il paradosso, però, raccontato dal giornalista Leonid Ragozin in un bellissimo reportage (3), è che la popolazione di giovani studiosi e brillanti chiamata a lavorare lì (e che spesso è già stata all’estero) è politicamente più vicina all’opposizione che non a Putin, tanto che queste città ‘ideali’ possono in realtà trasformarsi in poli di protesta attiva contro il regime. Gli abitanti di Innopolis hanno poi patito da subito il controllo e i limiti imposti dal governo sui progetti che vogliono sviluppare, con il risultato che, nonostante i mezzi messi a disposizione, molti se non sono già andati.
In qualche maniera, senza ammetterlo, Mishustin è il primo a riconoscere che la repressione non è lungimirante. In una sua intervista al Valdai Discussion Club (4), alla domanda di chi fossero i personaggi storici a lui più vicini, Mishustin ha risposto, oltre (ovviamente) a Putin, Steve Jobs.
Ecco perchè siamo di fronte a qualcosa di ben più complesso di una crisi regionale. Pesantissima dal punto di vista delle vittime (stimate in oltre centomila morti e altrettanti feriti) con devastazioni immani di territori che per decenni subiranno l’onta dell’isolamento a causa di terreni minati e di residui bellici di ogni genere. Pesantissima anche per le scelte economiche e per le “svendite” a breve e lungo termine che vi sono connesse. Vi ricordate gli affari della famiglia Biden per quanto riguarda soprattutto fosfati e prodotti agricoli? A>cete presente il peso delle parole di Trump quando fa riferimento al diritto al possesso di intere miniere di prodotti speciali? Quell’area fa gola a molti, a Occidente e a oriente. Verrà utilizzata in funzione anticinese se le cose prenderanno una determinata piega o rinforzeranno l’autocrazia russa, rimpolpandola di prodotti di alta richiesta e, quindi, di denaro fresco. Questa la partita che si sta giocando. Questo il motivo per cui, seguendo l’articolo di “Vita” che qui riportiamo integralmente, comprendiamo che il termine “pace” per noi ha un significato, per altri…un altro toalmente opposto. Ma leggiamoci prima Bayanov…e poi passeremo alle conclusioni.
“Alexander Bayanov: “La pace giusta di Tatyana, la pacificatrice”.
“Nel terzo anniversario dell’attacco della Russia all’Ucraina indipendente si susseguono le dichiarazioni quotidiane e contraddittorie da parte di tre figure della scena politica: Trump, Zelensky e Putin. Lo scambio di posizioni negoziali tra le delegazioni russa e statunitense ha dato agli osservatori la possibilità di costruire una realtà futura quasi in tempo reale. E in effetti tutte le parti coinvolte nel processo negoziale fanno sperare che il conflitto, almeno nella sua fase calda, cessi nel prossimo futuro. Uno degli errori principali, a mio avviso, è che gli osservatori attribuiscono ai personaggi politici le proprie idee su di loro. Ad esempio, tutti paragonano Zelensky e Trump, Trump e Putin, loro stessi danno adito a questi paragoni e la parola dittatore viene spesso rilanciata dai media. Ma chi ha di fatto compiuto azioni che hanno portato ad una dittatura? Zelensky? Trump? Ovviamente no.
Solo Putin. Parlando con il mio amico, il filosofo ucraino Alexander Filonenko, abbiamo scoperto che, nonostante le somiglianze tra i tre, Putin presenta una differenza importante: è estremamente cinico. E questo cinismo è facilmente traducibile dai media perché spesso essi, invece di dare un quadro dei fatti, tendono a interpretarli in modo cinico: i fatti restano, ma l’angolo da cui li si guarda cambia.
Credo che in questi tempi drammatici valga la pena di rivolgersi ad attori e testimoni reali per comprendere meglio gli eventi.
Quell’inizio di tre anni fa
Per tornare all’inizio di questa tragedia, al 24 febbraio 2022, abbiamo chiesto a Tetyana Shyshnyak, coordinatrice e mediatrice culturale del movimento Mean e presidente dell’associazione «OrbiSophia», di raccontarci le sue emozioni e l’esperienza umana positiva nata in risposta alla distruzione e alla morte portate da questa guerra.
Tetyana racconta: «Non dimenticherò mai la mattina del 24 febbraio 2022. Quasi all’alba, mio fratello e una mia amica mi hanno inviato un messaggio: “È successo!” (Sluchilos!). Ho capito subito. Noi di Donetsk fin dal 2014 avevamo imparato a conoscere la forza distruttiva del “Russkij Mir” (il mondo russo). Quasi tutti i membri della mia famiglia sono profughi. Ma non dal 2022, bensì dal 2014!»
Prosegue Tatyana: «Quella mattina, il 24 febbraio, il mio cuore è quasi esploso e ho capito il gravissimo errore che avevo commesso io stessa: il silenzio. Sono stata in silenzio dal 2014 fino al 24 febbraio 2022, nella mia amata città italiana, Benevento, dove vivo da ormai 20 anni. Non avrei dovuto tacere, nonostante nel 2014 nessuno mi credesse e gli orribili fatti accaduti nel Donbass venissero coperti da un agghiacciante silenzio mediatico. Questo vuoto attorno a me, questa totale indifferenza da parte di chi mi circondava, mi hanno ferito profondamente. Sono una cantante, e mi sono aggrappata all’arte, fondando l’associazione culturale “OrbiSophia”, che promuove le antiche preghiere del VII secolo del Sud Italia come messaggi di pace e costruzione di ponti tra i popoli».
In piazza con l’abito da sposa della bisnonna
Sempre su quel 24 febbraio, il suo racconto prosegue: «Lo stesso giorno ho chiesto ed ottenuto tutte le autorizzazioni per poter scendere in piazza a manifestare il giorno dopo», rammenta, «ho indossato l’abito nuziale ucraino “Vyshyvanka” della mia bisnonna Ulyanna per unirmi agli altri ucraini e ai cittadini di Benevento in un unico grido di dolore. Quella giornata segnò la fine del mio silenzio. Ho capito che non dovevo aspettare una “voce più grande” che reclamasse giustizia e verità. La mia voce, anche se piccola e insignificante, poteva dare il suo contributo nella lotta contro l’aggressione e la violenza di un paese assassino che fino a quel momento avevo considerato fraterno».
Ricorda Tatyana che «in questi tre anni non ho mai smesso di contribuire, in qualsiasi modo, per aiutare la mia terra sofferente. Ma spesso mi è sembrato di non fare abbastanza, che ci fosse bisogno di più, e mi sentivo poco utile per l’Ucraina mentre vivevo in una Benevento serena e bellissima».
Le chiediamo di raccontarci delle iniziative di pace di Mean e degli amici italiani che sono già state realizzate in Ucraina. E di quale sia stato il feedback dell’Ucraina su queste iniziative.
«Nella primavera del 2022, ho conosciuto il movimento Mean. Le parole dei portavoce, di Sclavi riguardo alla nascita di un’Europa più attiva e forte, e di Moretti, che ci esortava a portare i nostri corpi nel cuore della terra massacrata, mi hanno fatto sentire finalmente non più sola nella mia piccola lotta, ma parte di una grande famiglia».

La forza pacifica del Mean
In tre anni, grazie a un eccezionale lavoro di squadra da parte di persone come Angelo Moretti, Marianella Sclavi, Riccardo Bonacina, Marco Bentivogli, Paolo Bergamaschi, Anna Barbara e molti altri attivisti, il Mean ha realizzato importanti progetti di sostegno all’Ucraina, come aiuti umanitari, la riabilitazione di famiglie in Italia (centinaia di famiglie ucraine sono state ospitate in Italia per un mese), e la creazione di un Peace Village, realizzato dall’architetto Mario Cucinella, come punto di resilienza a Brovary, vicino a Kiev. Lì, ormai, decine di bambini e adulti si rifugiano nei mesi invernali, quando mancano luce e riscaldamento.
«Abbiamo portato centinaia di fratelli italiani nel cuore dell’Ucraina e costruito una forte rete di amicizia con la società civile ucraina, come “Act4ua”, “Free Spirit of Ukraine” e il “Congress of Self-Government of Ukraine”. Grazie al sostegno del Nunzio Apostolico, Visvaldas Kubolkas, oltre ad altri progetti umanitari, sono state celebrate due preghiere universali in piazza Santa Sofia a Kiev, coinvolgendo le diverse confessioni religiose presenti in Ucraina, decine di italiani in presenza a Kiev e centinaia di cittadini nelle piazze europee, che hanno partecipato da remoto».
Corpi civili di pace e appuntamento a Kharkiv
«Oggi il Mean», rammenta, «è promotore di due iniziative importanti non solo per i fratelli ucraini, ma per tutti gli europei: chiedere al Parlamento di istituire al più presto un Corpo Civile di Pace per l’interposizione in Ucraina e organizzare una grande manifestazione europea civile, artistica e religiosa a Kharkiv, il 28 agosto 2025». Come vediamo nel racconto di Tetyana Shyshnyak, l’umanità è in grado di superare la tempesta delle costruzioni ideologiche sugli eventi e di attenersi ai fatti che noi, persone moderne, tendiamo a dimenticare, sia per stanchezza che per il continuo susseguirsi di informazioni.
Pace allora e pace oggi
A volte siamo così esausti che, come ha osservato acutamente il noto musicista russo Vasya Oblomov, cadiamo in un paradosso ideologico: «Se nel febbraio 2022 dicevi ‘Fermate la guerra, sedetevi a negoziare’, significava che eri contro Putin. Se nel febbraio 2025 dici ‘Fermate la guerra, sedetevi a negoziare’, sembra che tu sia a favore di Putin». Se al centro delle reazioni di una persona c’è solo una costruzione ideologica, allora non c’è più alcuna posizione umana. Ovviamente, è fondamentale fermare il prima possibile la distruzione e la morte portate dalla guerra in Ucraina, ma non bisogna dimenticare il prezzo che il popolo ucraino ha pagato per questo atto di aggressione da parte della Russia.
L’ultima domanda a Tetyana Shyshnyak, prima da accomiatarci, è la più delicata: «Quale sarebbe, per te, la pace giusta in Ucraina?», le chiediamo. «La mia risposta è molto semplice: cessate il fuoco, ritiro delle forze nemiche da tutti i territori occupati, ritorno dell’Ucraina nei suoi confini pre-2014 e condanna dell’aggressore per tutti i crimini contro l’umanità commessi sulla mia terra» (5).”
Ancora una volta a farla da padrone è la sensazione “a pelle”, un amarcord di un periodo, quello iniziale dei combattimenti e degli otto anni di preparazione, che viene visto e interpretato solo da un punto di vista, “наша точка зрения” (nasha tochka zreniya) “il nostro punto di vista”. E allora scorrono i ricordi e le immagini delle scuole e degli ospedali bombardati, delle persone colpite per strada, dei parenti e dei vicini uccisi, terminando con la più classica delle affermazioni “fermarsi ora sarebbe un insulto a chi è morto per l’Ucraina“. Esattamente ciò che non sarebbe dovuto succedere, Una sequenza continua di vendette e recriminazioni tra persone che…con solo un piccolo passo di lato…potrebbero essere assolutamente “fratelli e sorelle” in tutto. Perchè loro sono solo comparse, pedine che qualche “cinico” muove a piacimento. Il gioco è un asltro e gli sforzi per spartirsi i beni dell’Ucraina lo stanno confermando. Quindi…prima di prendere parte a questa o quella tifoseria, abbiate ben chiari gli interessi in gioco.
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Immagine in home page: Kateryna Lanko, Darya Berg e Olga Karach. Tre donne per la pace. “No significa no. No radicale alla guerra, anzitutto. No all’obbligo di imbracciare armi, per chi ritiene di dover far valere il proprio diritto (nativo) all’obiezione di coscienza al servizio militare. No alle politiche e alle punizioni che sovvertono, arrivando fino al carcere per gli obiettori e alla pena di morte per i disertori, ciò che uno Stato dovrebbe sempre fare: orientare i propri cittadini a non uccidere. Con voce esile, ma intenzioni ferme, e dimostrando una buona dose di coraggio personale, Kateryna Lanko, Darya Berg e Olga Karach, ospiti nella giornata di sabato 25 febbraio di Caritas Ambrosiana (vedi qui il video), hanno raccontato la loro esperienza di attiviste per i diritti umani e civili fondamentali, nell’ambito di movimenti pacifisti e nonviolenti, all’interno di Ucraina, Russia e Bielorussia, ovvero i tre Paesi maggiormente coinvolti nel conflitto che è tornato a insanguinare l’Europa.
Le tre giovani donne si sono conosciute e confrontate in Italia, facendo tappa e animando incontri in diverse città, invitate dal Movimento Nonviolento nell’ambito della campagna «Obiezione alla guerra» e dell’iniziativa «Europe for peace»
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.1. https://www.lespetitsmatins.fr/collections/essais/333-ces-russes-qui-s-opposent-a-la-guerre.html (in francese. “Ces Russes qui s’opposent à la guerre .Autrice : Anya Stroganova .Préface : Marie Mendras . Postface : Olga Mikhaïlova
.2. https://www.consilium.europa.eu/it/policies/eu-response-russia-military-aggression-against-ukraine-archive/impact-of-russia-s-invasion-of-ukraine-on-the-markets-eu-response/
.3. https://restofworld.org/2021/fighting-brain-drain-and-creeping-authoritarianism-in-russia/
.4. http://www.en.kremlin.ru/events/president/transcripts/75521
.5. https://www.vita.it/la-pace-giusta-di-tatyana-la-pacificatrice/
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