“1917” di Sam Mendes

“1917” è uno dei migliori film dell’ultimo ventennio, non necessariamente il migliore. Non nasce da nessun evento realistico ma dalle storie raccontate al regista Sam Mendes dal nonno, Alfred H. Mendes, a cui è infatti dedicata l’opera. Si parte dunque dai racconti vicini alla fanciullezza del cineasta, che ha sempre trovato affascinante l’epoca della Grande Guerra, tanto da arrivare infine a dirigere un film ambientato proprio in quegli anni, vicino alla professione dell’Alfred H. Mendes diciannovenne, utilizzato dagli Alleati come messaggero in virtù della sua velocità e della sua altezza ridotta.
Sfruttando queste memorie e adoperandosi in una ricerca storica dettagliata, il regista ha deciso di creare un racconto frutto di fantasia partendo però da situazioni e particolari reali, aiutato nella stesura anche dalla sceneggiatrice Krysty Wilson-Caims, anch’essa appassionata della Prima Guerra Mondiale e aperta all’esperienza di regalare una certa sensibilità femminile a un film di guerra tanto drammatico e profondo come questo.

La sceneggiatura di Sam Mendes e Krysty Wilson-Cairns ci porta dentro una piccola odissea di due soldati come ve n’erano a milioni, si concentra sul darci un punto di vista personale, squisitamente limitato ad un piccolo microcosmo umanissimo e straziante, perso nel grande mare della storia.
Manca però l’affondo finale, l’acuto, manca qualcosa di veramente catalizzante, ma è un peccato che a “1917” si perdona volentieri, vista la maestosità della regia di Mendes, che utilizza in modo massiccio lunghissimi piani sequenza che tengono sempre alta la tensione, connettono in modo immediato lo spettatore con i protagonisti, anche grazie ad un’efficace colonna sonora di Thomas Newman.
E tra le 10 nomination di questo splendido film, sarebbe veramente assurdo non dare un altro Oscar a Roger Deakins, la cui fotografia è semplicemente magnifica, sensazionale, attinge a piene mani a quelle opere di Charles Ernest Butler, Paul Nash, Eric Kennington, John Singer Sargent e C. R. W. Nevinson, che ancora oggi fanno del Regno di sua Maestà britannica il tempio dei pittori della Grande Guerra.
I quattro elementi dominano, la natura assiste sbigottita ma invita al massacro, al macello operato dagli uomini, all’incidere di una guerra che però non riesce mai del tutto a sopraffare il naturale istinto umano alla solidarietà, all’amore per la vita, alla libertà che si slega da quel caos gerarchizzato che furono le trincee di inizio secolo.

Se “Dunkirk” di Christopher Nolan era un coerente nuovo capitolo sull’ossessione per il Tempo, lì scandito con un ticchettio ossessivo dalle note di Hans Zimmer, mettendo al centro uno spazio limitato a poche centinaia di metri di spiaggia del litorale francese, in cui migliaia di soldati erano costretti, in attesa dell’arrivo dei salvatori, in “1917” è invece lo Spazio a diventare centrale: un territorio ormai sconvolto da anni di guerre feroci, lungo trincee scavate in un fronte quasi immobile, passando per le linee amiche, ma anche quelle nemiche, per portare a termine una missione disperata eppure apparentemente banale: inviare un messaggio (cruciale) a un altro battaglione. Non una guerra verticale, aerea o marittima, come in “Dunkirk”, ma ad altezza soldato, uno sforzo che coinvolge l’esercito, e in particolare due giovani soldati che devono percorrere questo spazio come fosse una gara atletica, ovviamente nel minor tempo possibile, vista l’urgenza della missione.

George McKay, insieme al suo compagno d’avventura Dean-Charles Chapman sono i due militi ignoti, le facce pulite e coraggiose a cui Mendes affida, con successo, l’immedesimazione degli spettatori. Due volti poco conosciuti che si trovano a incontrare le figure carismatiche di ufficiali (e attori) autorevoli come Benedict Cumberbatch, Colin Firth, Richard Madden, Mark Strong e Andrew Scott.

Girato per essere un unico piano sequenza, Sam Mendes confenziona con “1917” uno dei migliori film dell’ultimo ventennio cinematografico. Un titolo in cui forma, stile e contenuto sono stati sviluppati contemporaneamente in uno sforzo produttivo encomiabile, ragionando su un modello tecnico-espressivo diegetico alla narrazione e mai fine a se stesso, lontano dai vuoti fasti del manierismo. C’è tanta emozione e una costruzione esaustiva di tensione e tragedia all’interno del complesso One Shot organizzato dal regista e dal direttore della fotografia, sorretto non solo dalla loro visione chirurgica e consapevole del mezzo ma anche dalla bravura di George McKay e Dean-Charles Chapman, protagonisti assoluti ed eccezionali del film. Un’esperienza immersiva e totalizzante come poche, nel genere, che sa trasportare lo spettatore direttamente all’interno degli orrori e della devastazione della Grande Guerra, lasciandogli provare solitudine e angoscia della Terra di Nessuno e la costante e inquietante compagnia della Morte. Cinema ragionato, avvincente, tuonante e impeccabile.

Riccardo Coloris

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