2023. Un anno da “indietro tutta”?

Il direttore della “Stampa” Giannini in un freddo editoriale dell’ultimo dell’anno, ci ricorda che dobbiamo essere felici di aver affrontato (e, si capisce dal testo, superato) la pandemia peggiore del dopoguerra, la più pericolosa crisi internazionale con annesso rischio nucleare  e che, quindi, dobbiamo continuare per la nostra strada. Quale? Semplice…rafforzamento dell’alleanza atlantica con la parte più sviluppista e capitalista del mondo, continuazione nelle produzioni a pesante impatto per l’ecosistema terrestre e, dulcis in fundo, glorificazione di quella che fino al 2019 potevamo mettere in discussione e che, con un neologismo azzeccato, veniva definito “finanz-capitalismo”. Abbiamo scherzato…ragazzi. Ritorno all’ovile e tranquilli. Stavolta ad assumere il ruolo del “ghe pensi mi” berlusconiano ci sono molti, troppi protagonisti, vecchi e nuovi. Ma come siamo arrivati a questo punto?

Nel 2007-2008 la crisi finanziaria aveva aperto le prime crepe nel sistema in cui viviamo dagli anni Ottanta, definito “neoliberista” o “capitalismo globalizzato” e basato – come ben ci è noto anche per molti articoli pubblicati su questo sito – sulla totale liberalizzazione del commercio internazionale e dei movimenti di capitale, sulla deregolamentazione dei mercati (in particolar modo quello finanziario) e in generale sull’arretramento della presenza dello Stato nell’economia.

Nel 2020 la crisi pandemica ha definitivamente trasformato queste crepe in voragini, costringendo il mondo intero a rivedere d’improvviso il suo assetto, purtroppo “in peggio”. A onor del vero, nonostante segnali di crisi sempre più evidenti, nel decennio che è intercorso fra questi due eventi epocali non è riuscita ad affermarsi una piattaforma ideologica alternativa e pochi sono stati i tentativi di costruirne una in maniera scientifica.

Fra questi, quello messo in atto dell’economista francese Thomas Piketty va annoverato sicuramente fra quelli più completi. Autore di più trattati sull’argomento ha provato a tratteggiare il profilo di un nuovo sistema, volto a superare quello attuale e a correggerne le distorsioni più gravi. Una operazione, nel caso fosse possibile realizzarla, che potrebbe essere definita  “socialismo partecipativo e federale”. Quindi,siccome qualcuno ci ha provato, così come Luciano Gallino e pochi altri, proviamo a vedere in dettaglio di cosa si tratta.

Piketty prova a definire nel modo migliore possibile le disuguaglianze estreme dell’assetto attuale (da lui definito “neoproprietarista”) per poi passare alle difficili soluzioni, tutt’altro che “alla portata”. Gli elementi fondamentali del suo socialismo partecipativo traggono spunto da quelle che furono a suo avviso le carenze più grandi delle società socialdemocratiche del secondo Novecento e che ne determinarono poi la crisi: le forme di condivisione della proprietà e del potere economico, l’accesso paritario a formazione e istruzione, la tassazione progressiva (soprattutto sulla proprietà) e il superamento dello Stato-nazione. “Forme di condivisione” del potere, soprattutto economico, che non solo non si sono evolute verso gestioni globali ma stanno sempre più caratterizzandosi con operazioni di “ritiro” e “chiusura”. Di fronte alle crisi montanti (e improvvise) chi ha si tiene ancor più stretto quel che ha ottenuto per meriti propri o altrui ed evita di guardarsi intorno, facendo finta che il mondo finisca alla propria linea di confine. Una sindrome nimby che si è lentamente allargata andando ad interessare tutti gli aspetti della vita civile. Per cui si è progressivamente perso anche il valore di una considerazione globale delle azioni, dell’uso dei suoli, dei beni comuni, delle risorse. Mai come in questa fase è ritornata in auge la retorica dello Stato – Nazione, affossando ogni residuo di “internazionalismo”.  Ricordiamo che quello dell’internazionalismo è da sempre uno dei punti cardine dell’ideologia socialista. E proprio riprendendo Piketty quando di rivolge ai socialdemocratici della seconda metà del Novecento e del primo ventennio del terzo millennio, ci viene facile ricollegare il suo pensiero alla Hannah Arendt di Le origini del totalitarismo (1951). Sua, fra le prime, la critica  all’incapacità di superare i confini nazionali che ha determinato in buona parte la crisi irreversibile delle costruzioni politiche socialdemocratiche, mentre le ideologie avverse riuscivano invece a stabilire delle forme sovra-nazionali, così come fatto dal neoliberalismo/neoproprietarismo con quelle istituzioni sovranazionali volte essenzialmente a garantire l’assoluta libertà di movimento di capitali. Infatti, non solo i socialdemocratici «hanno perseguito la costruzione di uno Stato fiscale e sociale nell’ambito ristretto dello Stato-nazione, riportando indubbi successi, ma senza sviluppare concretamente nuove forme politiche federali o transnazionali», contribuendo «a indebolire le strutture sviluppate a livello nazionale e a mettere a repentaglio la propria stessa base sociale e politica», ma addirittura è documentato «il ruolo centrale assunto dai socialdemocratici europei, e in particolare dai socialisti francesi, nell’impulso alla liberalizzazione dei flussi di capitale attuata, in Europa e nel mondo, a partire dalla fine degli anni Ottanta del Novecento» (Piketty pp. 627-631 del “Capitale e ideologia”).

Quindi, istituzioni quali l’Unione Europea, al di là di alcuni indubbi successi, non solo hanno finora fallito nel portare oltre le frontiere nazionali le politiche fiscali e sociali, ma di fatto hanno anche amplificato l’aumento delle disuguaglianze. Contribuendo perciò all’erosione delle società socialdemocratiche. E questo sia detto assolutamente in funzione filoeuropeista, segnalandone al contempo ritardi (nella programmazione economica complessiva, nel sistema fiscale, nell’organizzazione dell’accoglienza ecc.) e contraddizioni. Storture che la criminale aggressione dell’Ukraina da parte della cerchia Putin al governo in Russia ha ulteriormente aggravato.

Dunque, se si vuole rimettere al centro della discussione e dell’approfondimento politico una qualche forma di idealità  e riaprire il dibattito sul superamento del capitalismo, che già la Guerra Fredda aveva raffreddato e che la sua fine aveva definitivamente congelato, è da qui che bisogna ripartire per immaginare un possibile futuro sistema alternativo a quello attuale.

Di qui l’immagine positiva di lancio dell’Editoriale e la necessità di provare a “pensare in positivo” cercando di analizzare al meglio ciò che ci è successo, farne tesoro, non ripetere gli errori passati e, soprattutto, provare a trovare soluzioni valide. Gallino, Piketty (e, come scritto sopra, non molti altri) ci invitano ad una visione di insieme che abbracci tutto il mondo, tenendo conto delle necessità di un pianeta che raggiungerà a fine ventiduesimo secolo il suo massimo di popolazione (nove-dieci miliardi di individui) per poi iniziare una lenta ma inesorabile discesa fino ad una stabilizzazione, prevista dal “Club di Roma” per il venticinquesimo secolo, con circa cinque miliardi di abitanti. Beninteso…. con la necessità (non l’ “opportunità”…proprio la necessità) di mantenere il più possibile la biodiversità, la restante integrità delle risorse minerarie e naturali, combinata con una condizione sociale di pari opportunità per tutti. La farfalla e il fiore ci dicono che è possibile. Sta a noi realizzarlo.

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