Una storia alessandrina (parte centrale)

Pubblichiamo con piacere questa “Storia alessandrina” del nostro Egidio Lapenta. Siamo alla parte centrale del racconto che troverà la sua conclusione a metà novembre. Ci troverete una bella storia con intrecci non scontati, uno sfondo familiare che riporta indietro di qualche secolo e, soprattutto, la vita di tutti i giorni di una comunità mista (di cristiani ed ebrei) che ha saputo perfettamente amalgamarsi e che sta alla base delle dinamiche di oggi. 

Questa volta ci addentreremo nella vicenda fino al capitolo dieci…Buona lettura,(n.d.r.).

Capitolo III

La casa appare deserta, Pasquale entra, appoggia la spesa sul tavolo della cucina, vede bollire un paiolo sul camino, ma non c’è anima viva: «Maria, Lisa, Anna, Mimì, Lucia, Gerarda… dove siete?»

«La mamma è uscita, ma non vi preoccupate, papà, ci sono io, fra poco metterò in tavola la zuppa.»

«Lisa? Allora, oggi la zuppa sarà brodosa e la tavola male apparecchiata: pazienza, piuttosto, dov’è la mamma?»

«È uscita. Ha detto che sarebbe andata da donna Isabella Panza, nel Borgo, e che si sarebbe fermata a San Pietro, da don Giovanni.»

«Richetta come sta?»

«Meglio, è sfebbrata, ma è debole, le ho dato un po’ di zuppa.»

«Adesso, salgo a vederla, ma la mamma deve smetterla di lasciarvi soli per andare da quel prete: non mi piace.»

Mentre Pasquale mugugna, Maria è già nel Borgo, a san Pietro, e si sta confessando con don Giovanni: «Sono preoccupata, mio marito è senza lavoro, i miei figli non mangiano e la più piccola sta male, io non so cosa fare, ci fossero almeno i miei genitori, a darmi una mano.»

«Hai mai pensato di lasciare tuo marito?»

«Dio mi è testimone che non farei mai una cosa del genere.»

«Hai mai pensato ad un protettore per te e la tua famiglia? Una persona influente?»

«Mai; non potrei mai tradire mio marito.»

«Che c’entra: tradiresti il corpo, non lo spirito, e poi sarebbe a fin di bene; la provvidenza si manifesta in mille modi.»

«Ma che dite, padre?»

«Dico che sei una peccatrice legata alla carne! Ecco perché la misericordia divina non ti ascolta!»

«Dio mi è testimone che rispetto mio marito e amo i miei figli.»

«Non mettere sempre in mezzo Dio. Spesso darsi agli altri significa fare la sua volontà: pensaci figliola.»

«Cosa intendete?»

«Voglio dire», e parla con tono dolciastro, «che, a volte, la provvidenza vuole che si abbandoni il proprio egoismo a favore degli altri.»

«Egoismo? Volete dire», e parla in modo risentito, «che i miei guai sono il frutto del mio egoismo? Siete ingiusto! Pasquale ha sbagliato, è vero, ma ha cercato di risollevarsi con tutte le sue forze e io gli sono stata accanto, senza risparmiarmi.»

«Non basta.», sussurra don Giovanni, con tono grave, «Devi donare anche agli altri, perché il tuo corpo non ti appartiene e i desideri degli altri sono volontà della provvidenza.»

«Non capisco!»

Maria è frastornata.

«A volte, un mendicante, un nobile, un prete vogliono il tuo corpo e tu glielo devi dare, perché non è peccato, ma è una manifestazione d’amore fraterno.»

«Assolvetemi, padre, perché non ho fatto nulla di male.»

Maria non ascolta tutta la formula, esce dal confessionale turbata e confusa; le parole del prete le pesano come macigni.

«Dio non può essere ingiusto, non può punire chi ama e premiare chi tradisce.»

Maria esce dalla chiesa e cammina presa dai suoi pensieri, tanto da non accorgersi di aver superato la casa di donna Isabella, presso la quale svolge i più disparati lavori.

«Maria! Maria! Ma dove vai!», urla donna Isabella, affacciata alla finestra di casa, «Cosa fai!»

«Scusate, ero distratta.», risponde Maria, ritornando in sé, «Pensavo ad Enrica, che sta poco bene.»

«Veramente mi sembravi morsa da una tarantola.»

«Scusate, sono veramente preoccupata.»

«Entra. Hai mangiato? È già mezzogiorno.»

«No, mangerò stasera, a casa.»

«Entra, che ne parliamo.»

Maria spinge la porta, è aperta, la richiude alle spalle, attraversa un piccolo giardino, prima di raggiungere l’uscio di casa, dove l’attende l’anziana signora.

È una vedova di più di sessanta anni, vive con la rendita di alcuni poderi, sparsi qua e là fra la pianura e le colline del Monferrato, non ha figli e cerca, in tutti i modi, compagnia.

«Vieni, Maria, oggi ho bisogno di te per il bucato e poi ti fermerai a pranzo: ho un bollito veramente buono.»

Effettivamente, per la casa, si spande un buon odore di brodo; Maria, che non mangia dalla sera precedente, sente risvegliarsi l’appetito, ma il pensiero del colloquio con don Giovanni glielo fa passare.

«Sono stata a confessarmi da don Giovanni e mi ha detto delle brutte cose. Lui dice che se le cose vanno male è per colpa mia, che non mi dono, ma a chi dovrei donarmi? Cosa significa? Non lo so.

Siamo poveri e stiamo per perdere anche ciò che ci rimane: perché il Signore non posa lo sguardo su di noi? Cosa abbiamo fatto per meritarci questo castigo?»

«Non bestemmiare; Dio vede e provvede, le sue vie ci sono sconosciute e come ci manda il male così ci dà la consolazione; piuttosto, dovresti smetterla di confessarti da quel prete: non circolano voci belle sul suo conto, si dice che abbia un’amante e induca in tentazione le sue parrocchiane. Non mi piace e quindi, pur essendo il mio parroco, non mi confesso da lui.»

«Eppure è sempre stato comprensivo verso di me.», risponde, turbata, Maria.

«Comprensivo, certo, per farti fare ciò che vuole, è un pervertito. Si dice che un giorno abbia messo le mani addosso ad un giovanotto, intento ad addobbare la chiesa, invitandolo a non sprecare quella abbondanza. Ascolta, Maria, non andare più da lui, va’ piuttosto dal tuo curato, avrai certamente più comprensione e aiuto.»

Le due donne, intanto, armeggiano attorno ad un grosso mastello di legno: Maria lo ha, prima, riempito di acqua, attinta dal pozzo in giardino, e, poi, ha immerso la biancheria, quindi ha iniziato a sgrassarla con la cenere; ultimata questa operazione, aiutata da donna Isabella, trasferisce i panni in un altro mastello, colmo di acqua pulita, per strizzali e stenderli, fra due alberi del giardino.

Maria è esausta, anche se, così, si è risparmiata la fatica di andare fino al lavatoio, e sente la necessità di rifocillarsi, perciò accetta di buon grado il rinnovato invito della padrona di casa a fermarsi a mangiare da lei.

Maria si siede alla tavola, apparecchiata con una tovaglia di lino, e, senza farsi pregare, mangia con voracità il pane raffermo, inzuppato nel brodo, e i pezzi di lesso, nella ciotola, bevendo con soddisfazione il vino che donna Isabella le versa amorevolmente, nel bicchiere.

Ora che è sazia, racconta, per l’ennesima volta, a donna Isabella di come si è innamorata di Pasquale.

«Aveva un bel portamento», inizia Maria, «quando camminava, altero, sembrava un nobile spagnolo e forse nelle sue vene scorre sangue spagnolo, la sua carnagione, scura, e la sua parlata, così diverse dalla nostra, mi hanno subito colpito e così pure la voce, profonda, e lo sguardo, che mi ha fatto sentire donna fin dall’inizio. L’ho sempre amato e non me ne sono mai pentita, neanche nei momenti brutti della nostra vita: quando venne arrestato, lasciandoci nella più grigia povertà. Aveva imbrattato quegli stemmi per amore nostro, avrebbe potuto portarci con sé da una fortezza all’altra, oppure lasciarci, facendosi un’altra vita, ma preferì la sua famiglia, forse era destino.»

«Non rattristarti, Maria, vedrai che anche per voi, prima o poi, si aprirà uno spiraglio. Piuttosto, ma, con un marito di un altro paese, vi siete sempre compresi?»

«No.», risponde Maria, abbozzando un sorriso, «All’inizio era geloso, avrebbe voluto che non rispondessi neppure al saluto dei conoscenti, amici di mio padre, suoi vecchi garzoni, come si fa dalle sue parti, dove le donne vivono nascoste. Quante volte mi ha rimproverato perché stavo troppo alla finestra, a innaffiare i vasi, o sulla porta, a contrattare con il venditore di scope. Quante volte ho abbassato la testa, ma era più forte di me, mi piaceva chiacchierare, sapere notizie di paesi lontani, non facevo nulla di male. Ora, invece, non ho voglia di niente, sono stanca, alla sera, mi addormento di colpo, poi, però, mi sveglio, a notte fonda, e non chiudo più occhio; penso ai miei figli, al loro futuro, senza una dote, le bambine difficilmente potranno sposarsi. Pasquale crede di svegliarsi prima di me, ma, quando si alza, io ho già gli occhi aperti da un pezzo e lo vedo, seduto, ai piedi del letto, preoccupato, spesso con la testa fra le mani; a volte, mormora qualcosa, ma non riesco a capire.»

«Ma la sua famiglia non sa niente?», chiede, quasi stizzita, donna Isabella.

«Sono più poveri di noi. Quando ci sposammo, con la scusa della lontananza e della sposa straniera, non mandarono uno scritto. Sono fatti così; è gente diversa da noi; si vestono in un’altra maniera, mangiano e parlano diversamente e, soprattutto, sono di carattere acceso: si infiammano per poco, anche Pasquale è così, a volte, mi fa paura.»

A questo punto, Maria cambia discorso: «Donna Isabella, chiedete sempre di me, ma non parlate mai di voi.»

«Non ho molto da dire, pensa che volevo farmi suora, ma i miei avevano un’unica figlia e così fui maritata ad un uomo più vecchio di me: Baudolino aveva 15 anni più di me; comunque, è sempre stato buono e non mi ha mai fatto mancare niente; purtroppo, la peste del 1579 se l’ è portato via.

Aveva una bottega di orefice proprio in piazza grande, di fronte alla cattedrale, faceva dei bei lavori e aveva molti clienti, soprattutto nobili. Il governatore di allora avrebbe voluto farlo cavaliere –  te nombrarè noble caballero –  ma Baudolino badava alle cose concrete, per questo ha sempre lavorato, pensando al futuro: vicino a Villa del Foro e a San Salvatore dai quali proviene la mia rendita, più il vino e la farina, che uso per i miei bisogni.»

«Non avete mai avuto figli?»

«No. Forse Dio ha voluto punirmi per non aver seguito la sua strada. Quando morirò, la casa e tutti i miei beni passeranno ai nipoti di Baudolino; sono bravi giovani, hanno ereditato il mestiere del padre e dello zio e non hanno certo bisogno del mio; a volte, mi chiedo se non sia più giusto aiutare chi non ha.»

A questo punto, donna Isabella si alza da tavola e si allontana, va verso la scala, sale e ne discende, poco dopo, con una scatolina di legno ben rifinita, in mano.

«Ascolta, qui c’è un anello, è uno dei lavori del mio Baudolino: prendilo, è più giusto che lo metta al dito una donna giovane.»

Maria è confusa: «Non posso accettare.», balbetta.

Donna Isabella è irremovibile: «Prendilo, è tuo; meglio che te lo dia adesso, che sono viva, perché, dopo morta, potrebbe finire in altre mani.»

«Non dite così.»

«Lasciami fare.», la interrompe l’anziana donna, «Mi hai sempre aiutato e io non ti ho mai dato un segno della mia riconoscenza, né un ricordo. Questo ricordo ti potrà servire nei momenti brutti.»

«Grazie», sussurra, commossa, Maria, «ma ora devo proprio andare.»

«Aspetta, prendi questo.»

Donna Isabella le porge un fagotto, dal quale esce un pezzo di salame.

«Grazie ancora!», risponde la giovane donna incamminandosi verso l’uscio.

L’anziana, nel frattempo, si affaccia alla finestra, vede passare un carrettiere di sua conoscenza, lo ferma e gli chiede di far salire Maria, per risparmiarle un tratto di strada.

Maria esce in strada, accompagnata dallo sguardo dell’anziana, che salutandola, le grida: «Torna presto, dobbiamo parlare ancora.»

Maria, sul baroccio, risponde con un cenno della mano; seduta, col busto eretto, si sente una nobildonna e guarda gli altri quasi con una sorta di sufficienza, è felice per una amica trovata, sulla quale potrà contare nei brutti momenti.

Che giornata, è cominciata con le parole oscure di don Giovanni ed è finita nella speranza.

 

Capitolo IV

I vespri sono stati recitati, è sopraggiunta la sera e poi la notte, con la sua scia di pensieri e paure.

Le vie sono quasi completamente buie; alcuni passi annunciano una ronda solitaria, che vede, intorno a sé, una oscurità totale, rotta soltanto qua e là da qualche lumino che brilla dinnanzi alle immagini sacre: tutti dormono, o quasi.

Don Giovanni, nel suo letto, continua a rivoltarsi, roso da un pensiero fisso: «Dannata donnetta, Maria, possibile che non hai capito le mie allusioni? O sei furba, o molto ingenua. Maledizione, è sempre stato facile convincere le beghine che baci e carezze sono atti di carità, e queste non hanno mai indugiato a baciare, abbracciare, a farsi spogliare, in canonica o nel confessionale. Maria non ha capito, o forse non ha voluto capire, ma io non mi tiro indietro, la possiederò, con le buone o le cattive; le farò il vuoto intorno, la costringerò a chiedermi aiuto, a quel punto sarà un gioco prenderla. Avrò commesso un peccato, ma sono già dannato e un peccato in più non cambierà certo la situazione.»

Don Giovanni si alza, comincia a camminare avanti ed indietro, sforzandosi di architettare qualcosa, ma certo! Perché non ci ha pensato prima?

Il marito di Maria ha avuto guai con la giustizia e non è più riuscito a trovare un lavoro dignitoso: potrebbe essere argomento, sapientemente manipolato, di una lettera anonima all’inquisitore, a San Marco.

Certo, non è decoroso che un parroco invii una lettera anonima e meno ancora vederlo imbucare la lettera a San Marco. Ci potrebbe andare di notte, con il pretesto di una estrema unzione, sarebbe un’idea, ma Borgoglio, di notte, è chiusa e la città inaccessibile, si dovrebbe attraversare il fiume, ma è una cosa conveniente?

Don Giovanni si lambicca il cervello: «Ma certo, perché non ci ho pensato prima? La lettera sarà recapitata all’inquisitore tramite un suo familiare, uno di quei tirapiedi del santo uffizio che, con la scusa di difendere la fede, riferiscono ogni cosa, adulterii, litigi, risse, eredità e perdite al gioco. Il nobile Parma fa al caso mio, tronfio e decaduto com’è, non gli parrà vero di recapitare un documento così importante per la salvezza della fede e dello stato: addirittura una congiura tramata dai francesi in combutta con maghi e fattucchiere. Non ho tempo da perdere, devo subito mettermi all’opera.»

Il prete si alza dal letto, prende il lumicino, posto sul tavolino da notte, e si incammina verso il piccolo studio, adiacente alla camera da letto, entra, posa il lumino sul tavolo, si siede, prende carta e penna e comincia a scrivere:

 

All’Egregio Signor Conte Cesare Parma

Illustrissimo Signor Conte, Le scrivo per denunciare…

E per questo ho ragione di credere che tal Pasquale Laurenzano, già noto come sacrilego, sia anche negromante e avvelenatore.

Durante il processo, minacciò malefici e, a condanna avvenuta, cedette il pavimento della casa di Lorenzo Mairolo, causando la morte di 22 persone.

Tornato dalla galera, si diede a fare fatture, non tanto per lucro, quanto per rancore, verso la città e i suoi abitanti, al punto di accettare la proposta dei francesi di uccidere con la magia il più alto numero possibile di persone.

L’elenco delle vittime illustri è preoccupante: Margherita Guasco, Nicolao Conzano, Caterina Scoglia, Antonio e Isabella Ottello, Francesco Barbero, Giovanni Gonzales.

Pasquale Laurenzano è al centro di una trama fittissima, bisogna fermarlo prima che sia troppo tardi.

Un amico.

 

Quando don Giovanni termina la lettera, con una grafia chiara ed ordinata, è l’alba, non ha più tempo di pensare, deve prepararsi per la prima messa. Si affaccia alla finestra e vede un cielo nuvoloso, torna al tavolo, piega il foglio, lo ripone nel cassetto e intanto pensa a come recapitarlo: ora ha fretta, deve celebrare la messa dell’aurora, ci penserà dopo, con calma.

In chiesa assume l’atteggiamento di sempre, ma non gli è difficile, visto che ha sempre finto, fin da quando è entrato in seminario, convinto da un vecchio prete nicolaita, che ripeteva spesso: «Pietro era forse scapolo?»

Giovanni aveva seguito questa strada, convinto che avrebbe vissuto bene, rispettato da tutti. A Trento, però, qualcosa era cambiato per la Chiesa e per i suoi figli: non potevano più essere accuditi da donne giovani, dovevano rispettare il celibato e sottoporsi alla disciplina del seminario: Qui aveva appreso il resto: in varie occasioni qualcuno gli aveva fatto credere che erano disdicevoli solo i rapporti con le donne e, più volte, era capitato nel letto di qualche suo compagno; all’inizio con riluttanza, poi con piacere, tanto da non poterne più fare a meno.

Diventato seminarista anziano, aveva cominciato a dare la caccia a quelli più giovani, un po’ effeminati e puliti, soprattutto puliti, non sopportava il puzzo di sudore, e se qualcuno resisteva, ecco il ricatto, o le minacce, per farlo soggiacere.

Tutto era avvenuto sempre di nascosto, senza che qualcuno se ne accorgesse; Giovanni era orgoglioso di questo, stimato dai superiori, si era sempre mosso senza destare sospetti e senza sospetti aveva condotto con sé, nella parrocchia di San Pietro, a Borgoglio, oltre il Tanaro, una vecchia meretrice, raccolta chissà dove, con due figlie, spacciandole per un’anziana sorella e le nipoti.

Certo, però, che la tresca con le tre non era passata inosservata agli occhi di qualche parrocchiano maligno, o soltanto più accorto, ma ciò sembrava non spaventare il sacerdote, che, con il passare del tempo, era diventato più impudente.

Don Giovanni, mentre ricorda la sua vita, si trova di fronte all’altare, qui assume un atteggiamento ieratico, ma quante volte il suo occhio, durante la messa, è caduto su una bella parrocchiana?

«Missa est.».

La funzione è terminata, don Giovanni si ritira frettolosamente in sacrestia, si toglie i paramenti, li ripone in un pesante armadio, quindi, va verso una porticina, che apre, entrando nel suo appartamento.

Qui trova Rita, la perpetua, ha più di cinquanta anni, i capelli in parte biondi, in parte bianchi, è avvizzita, ma ha ancora molto ardore e soprattutto accampa qualche diritto sul prete; è gelosa, ma teme anche che le tresche dell’uomo portino un mare di guai, causando, a lei e alle ragazze, la perdita di quegli agi che la parrocchia concede.

«Eri preoccupato stanotte? Non mi hai chiamata, eppure eri in piedi.»

«Niente che ti riguardi.»

«Come? Ti accudisco, ti servo, soddisfo i tuoi piaceri e non ho diritto di…»

«Taci! Non hai alcun diritto, devi solo servirmi; e ora fila, ho da fare, fra poco verranno i fedeli per la confessione e io devo essere pronto.»

«Come sempre, specie quando ti apparti in quella stanzetta vicina al confessionale; non ti bastiamo noi? Ne vuoi altre?»

«Fila! Lasciami solo!»

Rita esce dalla camera, sa che non ha nulla da guadagnare a star lì, meglio lasciarlo solo con i suoi pensieri.

Non c’è che dire don Giovanni è bravo a mentire e sedurre; se avesse il coraggio delle proprie azioni direbbe che la sua è una situazione squallida, oltre che peccaminosa, ma è un vile ed ama vivere così, lo appaga; ma se dovesse morire all’improvviso? No c’è ancora tempo per pentirsi e salvare l’anima; piuttosto non c’è più tempo per la lettera, deve farla recapitare subito.

«Bartolo! Bartolo! Vieni ! Presto! Ho bisogno di te!»

Il ragazzo, un trovatello di 12 anni, scende di corsa dalla soffitta, incrocia Rita, che gli grida qualcosa, arriva davanti all’appartamento del parroco, bussa, entra: «Avete chiamato?»

«Certo, ho bisogno di te: devi portare questo biglietto a palazzo Parma, ma non devi dire chi ti manda, è per un’opera di bene e la carità non ha nomi.»

«Farò come dite.»

«Sai dov’è palazzo Parma?»

«Certo, ci vado subito.»

Bartolo esce con la lettera in mano, sa di compiere un’opera buona per conto del suo padrone, che è un uomo buono, è felice; supera il ponte coperto, di corsa, percorre le vie in un baleno, scomparendo fra la folla, per poi riemergerne subito dopo; nulla lo ferma, musici, attori, venditori di ogni genere, è per un’opera buona, è per il suo padrone, chi riceverà il biglietto non avrà che bene.

A palazzo Parma, il portone è aperto, un servitore, in livrea, sta lì, come se fosse in attesa, Bartolo si avvicina, gli urla: «È per il vostro padrone.»

Gli mette in mano il biglietto e si allontana di corsa.

Il servitore non ha il tempo di rispondere, rimane sul portone con la lettera in mano, una supplica forse, ma di chi? Questo però non lo riguarda; tante cose non riguardano i servi, che devono lavorare e obbedire: questo è il loro destino.

La lettera passa di mano in mano, finché, posta, con altri biglietti, su un piatto d’argento, giunge sul tavolo dello studio del nobile Parma, che però è troppo pigro per leggere la corrispondenza quotidianamente e poi vi sono altre beghe da risolvere: la sua casata, un tempo potente, versa in gravi condizioni, sono già stati venduti alcuni privilegi, come la chiave dell’arca, in possesso dei Parma da secoli, ma non è bastato.

I debiti accumulati sono tanti, per questo don Cesare ha chiesto di diventare un familiare dell’inquisizione, forse così riuscirà a salvare i beni e l’onorabilità della casata.

Familiare, sarebbe meglio dire spia, delatore, traditore degli amici: ogni cosa udita viene riferita a chi di dovere e i suoi amici, ignari, parlano.

Fino ad ora, però, non gli è capitato nulla di importante da riferire e le volte in cui gli amici hanno superato i limiti ha preferito dimenticare, forse per timore di perdere gli amici e rimanere solo: il nobile Parma odia la solitudine, ama le feste, i balli, le donne e gli amici.

Già, gli amici: le denunce all’inquisizione vengono sempre dagli amici, che fanno nomi, citano fatti, ma amici di chi? Di se stessi? Dell’inquisizione ? Forse di nessuno.

Don Cesare è sovrappensiero, rammenta l’adolescenza, quando suo padre lo portava con sé, a caccia e alle feste; vestiva gli abiti più belli, calze di seta e scarpe di Genova. Sognava di diventare un condottiero, di combattere per il re di Spagna e per la fede, di riconquistare il Santo Sepolcro; quante volte, nei sontuosi palazzi di Genova, aveva ascoltato i racconto di viaggiatori e naviganti, che parlavano di siriani, arabi e persiani.

Cosa era diventato, invece? Una nullità, aveva perso anche i privilegi che la sua famiglia aveva acquistato nei secoli.

Si era sposato, ma il suo era stato un matrimonio di interesse, neppure completamente onorato, visto che non tutta la dote era stata versata. Gli sposi non avevano avuto figli e questo aveva riavvicinato Cesare al gioco, alle donne e alle allegre brigate.

L’uomo si guarda allo specchio, non si riconosce, ha un gesto di stizza, si allontana, va verso il tavolo e qui nota il vassoio colmo di posta arretrata.

Comincia, stancamente, ad aprire i plichi, leggendone il contenuto: inviti alle prossime feste che precedono l’Avvento, un invito di don Ferdinando Rosales, avvocato fiscale: che vorrà? Non sarà ancora per quella pendenza? E se invece fosse per qualche nomina? Ma ti sei visto, Cesare ? Hai mai amministrato qualcosa? La tua vita è passata fra una caccia e una partita, fra un’avventura e un’alcova.

Quest’invito sarà l’ennesima umiliazione di uno che vuol ricordarti il tuo attuale scadimento.

Mentre Cesare va dietro a questi pensieri, ha un sussulto, leggendo il contenuto della lettera anonima, non gli par vero: si sta consumando una congiura e lui può evitarlo: ciò che desiderava è a portata di mano.

Si alza, scaccia dalla mente ogni brutto pensiero, comincia a camminare avanti e indietro, una congiura, deve impedirla, potrebbe già essere tardi, urla: «Presto! Devo uscire!»

Entrano due domestici, iniziano a vestirlo, in silenzio, con fare esperto: calzoni a sbuffo, calze di seta, scarpe di Genova, un elegante farsetto, con ampie maniche, sul quale poserà il mantello, quello leggero, perché non fa ancora molto freddo, ma comincia ad essere umido.

Uno dei domestici, dopo averlo fatto accomodare, lo pettina, i capelli sono ancora lunghi e folti, ma ormai brizzolati; ha cinquanta anni, ma è ancora un bell’uomo e questa occasione potrebbe rimetterlo in sella, soprattutto con le femmine: «Donna Isadora è una bella gnocca.»

«Come dite, eccellenza?»

«Nulla, stavo pensando ad alta voce.»

«Mi scusi, mi è parso che si rivolgesse a me.»

«No, Ignazio, stavo riflettendo che la giornata è umida e mi tocca uscire.»

«Cosa desiderate per pranzo?»

«Non credo che tornerò per quell’ora. Piuttosto, fammi preparare una cena leggera e il letto, oggi, temo, sarà una giornata pesante.»

Il vecchio servitore è alquanto stupito, il padrone non ha mai mancato ad un pranzo, anzi, per dispetto a sua moglie, ha sempre invitato gente, a tutte le ore, senza badare ad incomodi e spese, oggi invece non mangerà a casa e andrà a dormire presto, certo è strano.

«Ah!», geme don Cesare, «Mi tiri sempre i capelli, Ignazio, quando imparerai?»

«Scusate, eccellenza!»

E fra sé: «Imparerò quando mi avrai corrisposto tutto il salario.»

«Presto, Guido.», rivolgendosi all’altro domestico, «La mia carrozza.»

Il servitore esce, mentre Ignazio continua a pettinare Cesare, che, ad operazione conclusa, si alza e si fa aiutare a mettere cappello e mantello; prende la spada, più per finezza che per utilità, e poi lui non ha nemici, tranne i mariti traditi, ma questi non sanno di esserlo (almeno per ora).

Cesare esce dalle proprie stanze, scende le scale, rimuginando qualcosa: «Ma perché proprio a me? Perché l’autore della lettera anonima non ha denunciato il fatto direttamente all’autorità? È troppo nobile per farlo? E se non lo fosse? A maggior ragione, trarrebbe un vantaggio dalla denuncia diretta.»

Intanto raggiunge lo scalone ed inizia a scenderlo: «E se fosse una trappola? E se fosse un tentativo per screditarmi? È tutto molto strano, ma l’inquisizione farà chiarezza.»

Giunto nella corte, ode la consorte chiamarlo da una finestra del piano nobile: «Cesare dove andate? Quando tornate?»

L’aristocratico però non la degna neppure di uno sguardo e sale sulla carrozza: una nobile non può comportarsi come una pescivendola, urlando dalla finestra, per la delizia della servitù.

La carrozza supera il pesante portone, immettendosi nella via ormai affollata (sono già le undici) da popolani, serve con la sporta, bambini scalzi e urlanti, che si aggrappano al veicolo, contadini con asini, mercanti con muli e poi, ovunque, ai bordi delle strade, accampati sui sagrati, seduti davanti alle taverne, soldati, spagnoli, svizzeri, napolitani, tedeschi e lombardi, tutti uguali, violenti, rissosi, giocatori d’azzardo, fornicatori.

La carrozza si fa strada lentamente nella piazza maggiore, l’umidità rende il terreno molle e ciò ne rallenta ulteriormente la marcia.

Ad un tratto, si parano davanti quattro soldati napolitani, il cocchiere urla che si scansino, ma questi sembrano sordi, schiocca la frusta, senza risposta. La carrozza si ferma, si affaccia don Cesare: «Giorgio, che succede?»

«Eccellenza, quattro napolitani, sembrano sordi, non si muovono.»

«Largo! Canaglie!», urla don Cesare.

«Ueee! Che allucca a fa’?»

«Allora non siete sordi! Liberate la strada, presto!»

«Eh, statte soro.»

«Largo, canaglie! Giorgio, avanti!»

La carrozza si muove, il cocchiere cerca di forzare, i cavalli si imbizzarriscono.

«Ue, ue, scarrafone!»

«Marioli!»

«A chiii!»

I quattro tirano fuori i loro coltellacci e si fanno sotto, il cocchiere si difende con la frusta, don Cesare estrae lo spadino, ma è come se non lo avesse, perché non sa usarlo, quindi si rintana nella carrozza, urlando: «Via di qua! Aiuto!»

I quattro stanno per scaraventare a terra Giorgio, quando l’intervento della guardia armata, a presidio del loggiato adiacente alla cattedrale, rovescia la situazione, mettendo in fuga i quattro malintenzionati.

Il parapiglia non ha disturbato più di tanto le persone che affollano la piazza e i banchi del porticato, ma ha messo agitazione a Cesare, già teso per la sua missione.

«Grazie a voi!», rivolgendosi al drappello di salvatori, «Perdonate se non do udienza, ma sono atteso per gravi motivi di stato. Sarete ricompensati! Presto!», rivolgendosi al cocchiere un po’ malconcio, «A San Marco.”

I soldati rimangono lì, stupiti, di gente ne hanno vista tanta, ma uno così eccitato e dal comportamento a dir poco strambo, non gli era mai capitato.

 

Capitolo V

Quando il nobile Cesare si presenta al cospetto dell’inquisitore e del suo vicario è ancora pallido e quasi senza fiato.

«Don Cesare, state bene?»

«Eccellenza…no… porto…»

«Sedetevi, calmatevi, presto un bicchiere d’acqua.», ordina l’inquisitore.

«No, ho solo bisogno di un attimo di respiro.»

Ripresosi, il nobile, porgendo la lettera, si guarda attorno, come se cercasse qualche spia nascosta dietro i pesanti tendaggi o i quadri dei precedenti inquisitori, unico addobbo di una sala austera, con, al centro, un pesante tavolo e quattro sedie rivestite di cuoio, quindi inizia, con tono solenne: «Eccellenza, sono al vostro cospetto per denunciare una congiura.»

«Cosa?», sibila l’inquisitore, dando un rapido sguardo alla lettera, «Che dite…»

«Sì, una congiura, dalla fitta trama, ordita da un losco individuo al soldo dei miscredenti francesi.»

L’inquisitore non risponde, legge con attenzione la lettera, quindi, dopo un lungo silenzio, inizia ad interrogare il nobile Parma: «Don Cesare, da chi avete avuto la lettera?»

«Un anonimo me l’ha fatta pervenire, questa mattina stessa.»

«Quindi, non avete fatto indagini per accertarne la veridicità.»

«No, signore.»

«No, e allora come fate a parlare di congiura, con quali prove?»

«Ho pensato che una lettera anonima, in quanto vox populi, non possa che avere un fondamento di verità.»

«La verità va dimostrata.», interviene l’inquisitore, quasi redarguendolo, «Specie quando riguarda la vita di un uomo. Non possiamo condannare solo in base ad accuse anonime: ricordate le parole di Traiano a Plinio il giovane?»

«Ma, eccellenza», risponde, annuendo il nobile, «ho pensato che la lettera mi fosse stata inviata da una persona informata sui fatti, ma desiderosa di celare la propria identità, vista la dovizia dei particolari.»

L’inquisitore emette un lungo sospiro e, guardando negli occhi don Cesare, gli chiede: «Da quanto siete un nostro famiglio?»

«Da non molto, eccellenza.»

«Allora dovrete imparare che appartenere all’inquisizione non significa disporre del privilegio della credibilità…»

«Ma io…»

«Non mi interrompete!», sibila, con tono seccato l’inquisitore, «La credibilità si conquista con la verità e questa va cercata ovunque e ad ogni costo. Dio non potrebbe perdonarci di aver condannato un uomo senza aver fatto ogni cosa prima di determinarne la colpevolezza. Che giudici saremmo se condannassimo a priori?»

A questo punto, quasi per smorzare la tensione e con un tono di voce più dolce, interviene il vicario: «Don Cesare, il reverendo padre vuole solo dirvi che le accuse devono essere provate, non abbiatevene a male, piuttosto continuate sulla strada dello zelo e vedrete che sarete premiato.

Per ora, apprezziamo il vostro impegno e ve ne siamo grati.»

Il nobile non fa a tempo a riprendersi d’animo, che subito viene gelato dal tono secco dell’inquisitore nel congedarlo: «Potete andare, ora, dobbiamo consultarci.»

Don Cesare si ritira, profondendosi in un vistoso inchino e lasciando soli i due domenicani.

«Che ne pensate, padre Eusebio?»

«Non so che dirvi, reverendo padre. Tutto mi sembra troppo lampante, una congiura, un capro espiatorio: c’è qualcosa che non mi convince.»

«Credete che possa essere coinvolto anche don Cesare?»

«No, quest’uomo è ingenuo e credulone; le sue note non sono entusiasmanti: di debole fede, poco fermo nei suoi convincimenti, superficiale, che cosa si può sperare o temere da lui?»

«Ma allora perché è diventato dei nostri?»

«Credo per pura convenienza, reverendo padre.»

«Questa lettera», riprende l’inquisitore, «nasconde qualcosa, ma cosa? Dobbiamo sapere tutto su questo Pasquale Laurenzano, anche se io mi rammento di lui e della sua partecipazione all’offesa degli stemmi: mi sembrò un ingenuo, se non addirittura uno sciocco. Bisognerà avviare, comunque, immediatamente un’indagine particolareggiata, in modo da sapere se quanto è scritto corrisponde a realtà. Per ora, mi ritiro in cappella, per chiedere lumi allo Spirito Santo.»

I due religiosi escono dalla sala, dividendosi, ognuno per attendere ai propri compiti, così come impone la regola alla vita quotidiana dell’ordine, ma la giornata ha i suoi ritmi quotidiani e le sue regole anche fuori dalle mura del convento di san Marco; nelle strade, scandiscono le ore, non solo i rintocchi delle campane, ma anche la varia umanità che si sussegue nei vari momenti della giornata: alle massaie, alle fantesche, ai facchini e mercanti, si sostituiscono gli uomini che tornano dal lavoro, i contadini che spazzano le strade, raccogliendo i rifiuti per la campagna, e tutti coloro che fanno ritorno alle loro dimore nei paesi circonvicini, dopo aver trascorso la mattinata nella città caotica e piena di pericoli, mentre i bambini continuano a giocare e a far chiasso come sempre; sopraggiunge il tramonto settembrino, con i suoi colori vividi e nello stesso tempo malinconici, e le vie si svuotano, mentre le osterie iniziano a riempirsi di gente.

Pasquale entra al Falcone e già molti avventori sono seduti attorno all’unico, lungo, tavolo, posto al centro della sala: alcuni giocano animatamente a carte, tracannando vino, su una tovaglietta ormai lorda ed unta, uno sonnecchia davanti ad un boccale vuoto, che ha l’aria di non essere stato l’unico bevuto; altri mangiano avidamente alcuni pezzi di arrosto, tagliati dall’oste da un grosso quarto, infilzato in uno spiedo scoppiettante sulla brace del grande camino.

Mastro Giobatta, seduto a capo del tavolo, mastica anche lui un pezzo di quell’arrosto, lordando a più non posso la tovaglina fresca di bucato, con la quale l’ostessa ha voluto onorare l’abituale ospite.

Pasquale si avvicina al mercante, si siede, è imbarazzato, vorrebbe ordinare, ma non ha denaro.

«Ordina, Pasquale, offro io ! Sei mio ospite! Sei proprio imbelinato!»

«Avete ragione, ho proprio la testa altrove, ma sapete com’è, quando i guai sono tanti, non si sa più a cosa pensare.»

«Ascolta; veniamo al dunque, senza perderci in preamboli inutili: sono qui perché ho da sbrigare alcuni affari, uno è quello della seta di cui ti ho parlato stamani; prima però devo acquistare delle sargette, da vendere a Milano, insieme ad altra mercanzia, e da qui tornerò a Genova con le balle di seta. Tu e gli altri uomini dovrete scortarmi per tutto il tragitto: ci stai?»

«Eccome, ci sto, sono dei vostri fin da ora!», risponde Pasquale, rallegrato anche dall’arrosto e dal vino serviti dall’ostessa.

«La paga è buona: do ad ognuno di voi una berlinga al giorno, più vitto ed alloggio, ma tu sei una persona fidata, su te posso contare per ogni evenienza, e se mi servirai bene, ti darò una gratificazione di quattro scudi.»

«Accetto, ma ditemi, mastro Giobatta: quanto durerà il viaggio?»

«Dipende dalle difficoltà che incontreremo; la stagione è ancora buona e faremo una parte del viaggio navigando il fiume; durerà trenta, quaranta giorni, non so dirtelo con precisione; ma perché mi fai questa domanda?»

«È che ho famiglia e siamo senza un soldo per tirare avanti una settimana, figuriamoci un mese o, addirittura, due: come farà durante la mia assenza? Non potete darmi un anticipo? Poca cosa, tanto da far campare i miei per un po’ di tempo.»

Giobatta, che nel frattempo ha addentato un grosso pezzo di formaggio, ha un gesto di stizza, che subito reprime: «Siete proprio poveri in canna, eh figeu; la fortuna non ha più bussato alla tua porta.»

«Non abbiamo niente, solo gli occhi per piangere la nostra miseria.»

Pasquale smette di mangiare.

«Mangia, Pasquale, è tutto pagato. Non ti piace? Vuoi del formaggio? Oste! Un pezzo di formaggio ed altro vino!»

«Non vi incomodate; mi è passata la fame al solo pensiero dei miei che soffrono per causa mia.»

Giobatta smette di masticare, si pulisce le mani sulla tovaglietta, prende quindi una piccola borsa di cuoio, appesa alla cintura e ne cava fuori un mezzo ducatone: «Prendi questo e di’ a tua moglie di farselo bastare. Adesso, però, ascoltami con attenzione: qui, da quando non ci sono più gli Umiliati, non c’è nessuno che produca un tessuto decente, ma non è questo il punto; chi è rimasto non riesce a soddisfare le richieste locali e allora mi è venuta un’idea, apro un fondaco in città, vi ammasso il tessuto di lana fabbricato a Genova e poi lo vendo nel circondario. Dovrò affittare un banco in piazza Maggiore, mi sono informato, si paga un canone di tre lire all’anno, è un buon prezzo e ne vale la pena. Certo, dovrò chiedere l’autorizzazione al paratico dei mercanti di panno, ma non dovrebbero esserci problemi.»

Mastro Giobatta è tutto preso dal suo discorso da non accorgersi dell’espressione stupita di Pasquale: ma lui che c’entra in tutto ciò?

Infervorato, Giobatta continua: «Ho bisogno di un uomo fidato, capace di custodire il fondaco e di seguire gli affari del banco: sai leggere e far di conto?»

«Io», risponde frastornato Pasquale, «ma che c’entro? Sì, so far di conto e so anche leggere un pochino, ma non ho mai fatto il mercante e non saprei neppure da dove cominciare, conosco bene solo il mestiere di soldato.»

«C’è sempre una prima volta, nescio. Vuoi continuare a vivere una vita miserabile, lavorando saltuariamente? Non hai pensato alle tue figlie? Come farai a maritarle? Che dote potrai mai dar loro? Chiedendo aiuto ad un’opera pia? Anche per diventare monache bisogna avere una dote. E tuo figlio? Andrà via di casa per seguire qualche compagnia di lanzichenecchi? Non sei più giovane e non potrai sempre trovare qualche mercante a cui far da scorta.»

Pasquale annuisce e aggiunge: «Ma non ho pratica di mercatura.»

«Insomma, vuoi essere o no il mio fattore?»

«Posso darvi una risposta dopo il viaggio?»

«Adesso.»

«Alla fine.»

«Subito, o non se ne fa niente.»

«All’inizio del viaggio.»

«All’inizio, ma non oltre, se no, non se ne fa niente.»

Giobatta accompagna la risposta con un pugno sul tavolo.

«Avrete la vostra risposta in quell’occasione.»

«Fra tre giorni.»

Il mercante parla, masticando alcuni spicchi di limone. Dopo di che, pulendosi le dita con la tovaglietta ormai lorda, urla all’ oste: «Mastro Giorgio, è pronta la mia camera?»

L’oste si avvicina e con fare rispettoso gli sussurra: «Siete servito, la solita camera, le solite comodità, ma c’è una piccolezza da risolvere.»

«Quale?»

«Stamani, mi avete dato mezzo ducatone di anticipo…»

«Non va bene ? È poco?»

«Assolutamente no, voglio solo avvisarvi che la moneta è calante e quindi, al momento del saldo, dovremo fare un aggiustamento.»

Giobatta diventa rosso, poi livido, infine urla: «Sempre la stessa questione delle monete calanti; possibile che non pensiate ad altro in questa città?»

«Lo sapete anche voi», risponde l’oste, senza scomporsi, «che la moneta calante nuoce al commercio e che noi poveri osti dobbiamo rispettare le gride sulle tariffe delle monete.»

«Lo so benissimo, è il mio mestiere.»

«Volevo solo avvertirvi.»

«Padronissimo.»

«Non offendetevi.»

«Non sono nescio, sono Giobatta Pescetto, mercante in Genova.»

L’oste si allontana.

Pasquale si alza e, approfittando del momento, si congeda dal suo nuovo padrone, non senza aver fissato, prima, il tempo e il luogo dell’appuntamento per il viaggio.

Uscito dalla locanda, diventata un fiume di voci e rumori, tira un profondo respiro, le urla di Giobatta, il fumo i mille odori, le parole, lo hanno stordito, ha bisogno di rinfrescare le idee per prendere una decisione, la giusta decisione. Affretta il passo, anche se vorrebbe fare diversamente, per godersi la serata, mite e profumata, attraversata dalle mille parole delle persone sedute, davanti agli usci, a chiacchierare, ma la rugata di san Pietro è dopo la piazza Maggiore e deve percorrere un bel pezzo di strada e poi ha bisogno di parlare con Maria, chiederle consiglio, spera di non trovarla già a letto, stanca morta com’è per la troppa fatica che fa nell’accudire i bambini, cucinare, cucire, lavare e lavorare presso qualche famiglia agiata, per raggranellare qualche soldo. Fa tutto ciò senza mai lamentarsi, sempre con il sorriso sulle labbra, meriterebbe qualcosa di più dalla vita: maledetti quegli stemmi!

Pasquale è così immerso nei suoi pensieri che non nota la ronda notturna; è una grossa pattuglia, comandata da un ufficiale, riconoscibile dall’ampia fascia azzurra attorno alla vita, affiancato da due uomini muniti, ognuno, di una grossa lucerna, issata in cima ad una lunga pertica, e da un certo numero di picchieri, che lo seguono silenziosamente.

La ronda incrocia Pasquale, l’ufficiale vorrebbe fermarlo, ma lo vede assorto, quasi assente, e desiste, convinto che tutto possa essere tranne che un malfattore.

 

Capitolo VI

Pasquale entra in cucina, la casa è immersa nel sonno, ma Maria veglia, accanto al camino, in attesa del marito, muovendo e rimuovendo la brace, quasi giocasse.

«Mi avete aspettato? Sono contento, perché ho da dirvi una cosa importante e ho bisogno del vostro consiglio.»

«Non avevo sonno e vi ho aspettato; la stagione è ancora bella, ma fra qualche tempo sarà piacevole stare accanto alla brace, facendo arrostire qualche castagna; anzi bisognerà raccogliere della legna, in modo da averne un po’ quando comincerà a far freddo.»

«Già … fra non molto dovremo rimettere i mantelli e tenere le porte chiuse per difenderci dal freddo e dall’umidità. Mio nonno, quando arrivava l’inverno, diceva sempre che era arrivato il tempo dei malu vestuti.»

«Dovete dirmi qualcosa?»

«Sì, Maria: questa sera ho incontrato Giobatta, il mercante genovese, che, oltre a questo lavoro, mi ha offerto un posto di fattore in un fondaco che aprirà qui in città; si tratta di custodire delle merci, di venderle, di fare i conti. Potrebbe essere l’occasione per uscire da questa miseria, e voi potreste finalmente riposarvi un po’; che ne dite?»

«Se conoscete quell’uomo e lo stimate come persona di parola, fate bene ad accettare, potrebbe essere un’opportunità anche per Domenico; diversamente, se avete dei dubbi, non abbiate paura di rifiutare, ce la faremo comunque.»

«Ce la faremo? Ma vulite pazzia! Ci stiamo trascinando come Dio vuole, senza sapere cosa ci riserva il domani, e voi dite che ce la faremo comunque: sono stanco di vedervi patire tutti quanti.»

«Ma se vi succedesse qualcosa, avete pensato a che fine faremmo noi?»

«Ci ho pensato, mala nova, e, a questo punto, non può essere più scuro della mezzanotte.»

«Non vi inquietate, volevo solo dirvi che dobbiamo avere fiducia: ho parlato con don Giovanni, potremmo far entrare Enrichetta, come novizia, dalle orsoline; cagionevole, come è, potrà studiare e vivere all’onore del mondo, vestendo l’abito. Lui ci aiuterà, parlerà con le monache e con l’opera pia, per la dote necessarie. Per Domenico, si è impegnato a seguirlo personalmente per farlo diventare prete, è disposto addirittura a prenderlo con sé per qualche tempo.»

«Ma che dicite, ma state uscendo pazza! Con tutto il rispetto per la chiesa, ma di preti e monache ce ne sono fin troppi: se i miei figli vorranno diventarlo, non mi opporrò, ma non farò nulla per obbligarli; e poi vi ho detto tante volte che quel don Giovanni non mi piace; piuttosto che affidargli Mimì, preferisco puzzare di fame insieme alla mia famiglia.»

«Avete la testa dura come la pietra, a forza di non fidarvi di nessuno, state rovinando la vostra famiglia.»

«Oh, finalmente, ditelo che sono la rovina vostra e dei vostri figli e che sarebbe stato meglio che non fossi mai tornato dalla galera, anzi, che mi avessero catturato i turchi, vostro padre non sarebbe morto di crepacuore, dopo aver perso tutto, e voi avreste avuto un nuovo marito, magari Tunon il sarto, quello che fa andare la moglie ingioiellata come una statua della Madonna.»

«Smettetela di dire sciocchezze!», singhiozza Maria, «Volevo solo dirvi che non ascoltate nessuno, neppure chi vi dà dei buoni consigli.»

«E chi mi dà dei buoni consigli? Forse quel debosciato di don Giovanni? Comunque, ho già preso la mia decisione, per il resto, ne discuteremo al mio ritorno. Ecco, intanto, mezzo ducatone, vi servirà durante la mia assenza, fatelo bastare.»

Pasquale cava la moneta dal taschino del farsetto e la pone sul tavolo.

Maria si avvicina, è titubante, vorrebbe lasciarla lì, ma, alla fine, si decide e la prende, riponendola, poco dopo, in un vaso, posto in una nicchia. Si rivolge quindi al marito: «Cosa porterete con voi? Il viaggio sarà lungo, stiamo andando incontro alla cattiva stagione: troverete nebbia e pioggia.»

«Non so.», risponde infastidito Pasquale, «Lo spadone, la borraccia, non lo so.»

«E poi?», chiede, meravigliata, Maria.

«Non so.», risponde, seccato, il marito.

«Come non sapete. Dovete portare il mantello, vi proteggerà dal freddo, la bisaccia, per il cibo, l’unguento per i calli, l’acciarino, il corno per la polvere e…»

«Ho capito, ho capito, porterò le cose di quand’ero soldato, me le preparerete domani, con comodo. Io, intanto, affilerò la lama dello spadone, sarà un poco arrugginita, dopo tanto tempo.»

«Vi preparerò dei biscotti, li mangerete in viaggio.»

«Non vi incomodate, avete altro da fare, mi arrangerò.»

«No, no, vi piacciono tanto e vi faranno pensare a noi, quando sarete lontano e vi sentirete solo.»

«Non devo andare mica in Fiandra.», risponde Pasquale, abbozzando un sorriso.

«Andiamo a letto, siamo stanchi, abbiamo avuto una giornata pesante, meno male che Richetta non ha più la febbre.»

I due, dopo avere serrato la porta, si incamminano verso la scala, Maria, avanti, con una lucernetta in mano, Pasquale, dietro, salgono i gradini, entrano nella camera da letto, è spoglia, il letto, una cassapanca, un piccolo vano, una nicchia, con un’immagine della Vergine, davanti alla quale brilla un lumicino ad olio.

I due, silenziosamente, per non svegliare i piccoli che dormono nel lettone, si svestono e si coricano.

Pasquale spegne la lucernetta, ma il lumino ad olio rischiara la camera; prima di addormentarsi, ognuno per conto proprio, rivolgono lo sguardo alla Vergine e recitano le loro orazioni, raccomandandole la loro famiglia.

 

Capitolo VII

Il tempo trascorre, passano settembre, ottobre, arriva novembre e con questo la nebbia, la pioggia e la piena: il Tanaro si gonfia di giorno in giorno, rompendo gli ormeggi dei mulini e sommergendo gli imbarcaderi del porto, ma di Pasquale nessuna notizia, né da Milano, né da Genova.

Maria è preoccupata, anche se cerca di celarlo. Solo Lisa comprende il suo tormento, aiutando la madre, come può, nelle faccende di casa e nella cura dei piccoli. Questi spesso chiedono del padre, di quando tornerà, e lei li rassicura sempre con la stessa risposta: «Prima della nascita di Nostro Signore e ci porterà tante cose buone.»

Maria ascolta Lisa ed ha una stretta al cuore, anche perché i soldi lasciati da Pasquale sono finiti da un pezzo e, intanto, si sono ammalati Domenico, Lucia ed Enrichetta.

Donna Isabella è buona e sfama tutti, ma non si può dipendere all’infinito dalla carità degli altri.

Il tempo trascorre e non si vede nessuno, siamo quasi a san Martino, ma di Pasquale nessuna notizia.

Le ha, invece, l’inquisizione; a San Marco, lo stesso giorno, l’inquisitore, nel suo austero ufficio, discute con il vicario sul da farsi: «I nostri informatori ci hanno fornito dati poco confortanti.», dice padre Eusebio.

«Abbiamo elementi che facciano pensare ad un piano criminale?», sibila l’inquisitore.

«Le spie hanno appurato l’assenza del Laurenzano.»

«È fuggito?»

«No, è partito per Milano, al seguito di tal Giobatta Pescetto, insieme ad altri individui non certo raccomandabili. Del Pescetto sappiamo che commercia con la Francia e ciò potrebbe essere un riscontro a carico del Laurenzano.»

«Ma andiamo padre Eusebio, non basta commerciare con la Francia per essere una spia, o un mestatore, e in città di loschi individui, al servizio di sua maestà cattolicissima, ce ne sono migliaia, e non per questo osiamo sospettarli di tradimento, o altro, anche se spesso rubano e violentano peggio del nemico.»

«Il nostro uomo, a suo tempo, fu coinvolto nell’episodio degli stemmi sporcati di sterco umano; foste proprio voi ad indagare; intrattiene poi rapporti con usurai ebrei.»

«Rammento l’episodio; gli uomini coinvolti furono istigati da qualche potente, che, al momento opportuno, li fece avvelenare, per non essere smascherato, ma da qui a parlare di congiura politica ce ne vuole e credere che l’unico sopravvissuto, per cause fortuite, fra l’altro, voglia tirarne le fila, mi sembra assurdo. Pasquale Laurenzano, se ricordo bene, era un soldataccio, capace appena di leggere, buono a maneggiare la spada, ma niente di più.»

«E la sua dimestichezza con i veleni?»

«Più che veleni erano unguenti contro i calli e le piaghe ai piedi.», sospira l’inquisitore.

«Ricordo, e fu un episodio buffo, che, per dimostrare che non era veleno, ingoiò il callifugo contenuto in un guscio di noce, trovatogli addosso, durante una perquisizione. Gli accusatori, rimasti delusi dal gesto, subito, pensarono bene di attribuirgli dei poteri infernali, ma si dimostrarono poco credibili. Comunque, va bene, indagheremo, battendo ogni strada. Avete convocato il nobile Parma?»

«Sì, eccellenza, attende in anticamera.»

«Bene, fatelo entrare.»

Il nobile, elegante come sempre, entra nello studio, profondendosi in un vistoso inchino.

«Prego, accomodatevi.», lo invita l’inquisitore.

«Allora, don Cesare, avete indagato sulla provenienza della lettera anonima? Ci sono delle novità?»

«No, eccellenza, ho atteso che l’anonimo me ne inviasse un’altra, per avere qualche idea.»

«Avete atteso un’altra lettera?»

«Certo, io…pensavo…»

«Pensavate.», lo interrompe bruscamente l’inquisitore, «Voi non dovete pensare, dovete eseguire, e vostro compito era quello di indagare per conoscere la provenienza del biglietto, mentre avete atteso il panierino, come se l’informatore fosse a vostra disposizione.»

«Il biglietto fu recapitato ad un mio servo da un ignoto fanciullo.»

«Tutto qui? Magari un fanciullo scomparso nel nulla, come nelle fiabe.»

«Proprio così, eccellenza.»

«Don Cesare, non voglio rimproverarvi, ma sappiate che non è questo lo zelo di un nostro famiglio: egli deve essere insinuante come un serpente, astuto come una volpe, rapido come un’aquila.»

«Perdonatemi, eccellenza, ma non sono le mie qualità.»

«Lo vedo. Sono le qualità di chi ha fede e arde dalla voglia di combattere e non solo nell’alcova delle belle dame. A questo punto, non abbiamo più bisogno di voi, potete andare.», conclude, seccato, l’inquisitore.

Il nobile Cesare, umiliato e anche un po’ intimorito, si inchina e lentamente si ritira.

Entrambi i monaci si guardano negli occhi; nessuno dei due prende la parola, aspettando l’iniziativa dell’altro, alla fine è il vicario a rompere il silenzio: «Cosa ne pensate, eccellenza?»

«È un gran guazzabuglio, e sempre più mi convinco che la lettera nasconda dell’altro. Comunque, o tutto è molto complicato, o è così semplice da non sembrare vero.»

«Il rancore potrebbe essere un movente.»

«Chi è scampato alla galera», replica l’inquisitore, «ha solo voglia di dimenticare e scomparire. L’episodio degli stemmi offesi fu tutto tranne che una congiura politica. No, padre Eusebio, c’è dell’altro e noi lo scopriremo: convocheremo il Laurenzano, lo interrogheremo e, se necessario, lo sottoporremo alla tortura, secondo la prassi.»

«Secondo la prassi, perché ammetta e si penta.», replica gelido il vicario.

I due monaci escono dallo studio e lentamente si incamminano verso la cancelleria, per le disposizioni del caso.

La nebbia, nel frattempo, si è diradata, lasciando spazio al sole, che illumina le strade e scalda la gente, nella imminente estate di san Martino.

È mezzogiorno, la Crosa, la via Larga e le vie intorno alla piazza Maggiore brulicano di una umanità che si aggira fra i forni, i banchi dei formaggi, della frutta, dei tessuti e di ogni altra mercanzia; fra tutti, quasi seguendo la corrente, si muove Pasquale, sono passati due mesi, due lunghi mesi, ma ora finalmente è a casa. Quando è sbarcato, aveva fretta, ha salutato i suoi compagni e si è avviato di corsa verso la porta Nuova; in città però ha rallentato il passo, quasi per assaporare il momento dell’incontro con la sua famiglia; chiuso nel suo mantello, con la spada, avvolta nel panno, sulla spalla e la bisaccia a tracolla, si muove come se non avesse mai visto Alessandria, soffermandosi davanti ad ogni bottega e ad ogni banco.

Ecco la via Maestra, la bottega di Isacco, si avvicina, il mercante è intento a contare del danaro davanti ad un cliente, nota l’amico, ma continua a contare, Pasquale capisce che non vuol essere disturbato e tira avanti. Ecco il palazzo del governatore, da qui intravede la chiesa del Carmelo, non può fare a meno di una deviazione per un saluto.

Entra in chiesa, sosta davanti alla tomba di Giuliano Ghilini, recita una preghiera, quindi ritorna sui suoi passi, uscendo in strada e dirigendosi verso la piazza Maggiore, che attraversa all’altezza della cattedrale.

Quando Pasquale entra nel giardino di casa, non trova nessuno e chiama: «Maria! Lisa! Anna! Ci siete? Sono tornato! Dove siete?»

«Siamo qui!», urlano di gioia, uscendo di casa, Lisa, Anna e Gerarda. Pasquale le abbraccia.

«Venite qua, belle di papà, mi siete mancate. Dove sono mamma e gli altri?»

«Mamma è da donna Isabella. Richetta, Mimì e Lucia sono a letto, ammalati.», risponde Lisa.

«Ammalati? Hanno La febbre? Come stanno?»

«Ora non più», risponde Lisa, «ma i primi giorni era talmente alta che deliravano. La mamma ha continuato a passargli fazzoletti umidi sulla fronte, per rinfrescarli, stavano proprio male.”

«È venuto il dottore.», aggiunge Gerarda, «Lo ha mandato donna Isabella.»

Pasquale abbraccia le figlie, vorrebbe correre dagli ammalati, ma queste lo tempestano di domande: «Cosa ci avete portato, babbo?», chiede Anna.

«Ho portato della frutta candita di Cremona.»

«Siete stato a Cremona?»

«A Cremona, Milano, Genova e in altre città, grandi e belle.»

Attirato dal clamore delle bimbe, si affaccia all’uscio del giardino Giacomo il barbiere: «Sa cu ie! Chi ciacola! Pasqualen, come stai? Eravamo in pensiero; dove si stato?»

«Giacomino, ben trovato. Sono tornato. Sono stato a Milano, a Genova, Cremona; abbiamo trasportato seta, sargette, lino ed altre mercanzie: i carri erano pieni di roba. Abbiamo viaggiato sempre con la miccia accesa, per paura dei banditi, anche quando navigavamo il fiume.»

«Li avete visti?»

«I Farabutti ci hanno attaccato sui gioghi di Gavi. Ce la siamo vista brutta. Pensavo di non farcela. Erano il doppio, o il triplo, di noi, ci avevano accerchiato. Riparati dietro i carri, sparavamo con gli schioppi. Mastro Giobatta urlava che avrebbe venduto cara la pelle e la roba, era un leone, con le pistole ne ha affrontati quattro che si erano avvicinati ad un carro: uno lo ha ucciso subito, mentre gli altri lo hanno circondato; siamo riusciti a tirarlo fuori, prendendo a randellate, con il calcio degli schioppi, i tre. Un nostro compagno, intervenuto in difesa di un altro, ferito e disarmato, è stato colpito a tradimento, è morto quasi subito; la carogna che lo ha colpito, però, non ha fatto a tempo a cantare vittoria, perché Menico, il guercio, armato di pistole, ha atterrato prima lui, poi l’altro che stava per sbudellare un nostro compagno ferito. Erano troppi, però; fortunatamente; quando sembrava tutto perduto, uno squadrone di corazze a cavallo è piombato sui Farabutti, facendone scempio e non risparmiando nessuno.»

Mastro Giacomo, sbalordito: «Hai affrontato tutto questo? »

«Non mi credi?»

«Ti credo. Io sarei morto al primo colpo. Non hai avuto paura?»

«Eccome, ho pensato che fosse venuta la mia ora e mai come in quella occasione ho salutato con gioia lo stendardo del nostro re di Spagna. Certo è che la mia vecchia ferita al braccio sinistro mi fa di nuovo male, ma passerà. Non passeranno invece i Farabutti, che infestano i gioghi di Gavi, se il re non si deciderà a spazzarli via, impiccando i superstiti, come monito per gli altri banditi. Io dico che…»

«Siete un testone. Avete voluto fare di testa vostra e per poco ci rimettevate la vita.»

Pasquale si volta e vede Maria, appena tornata a casa; i due si avvicinano e, senza parlare, si abbracciano, incuranti delle figlie e del barbiere, che, quasi per rompere le uova nel paniere, esclama: «Hai salvato la pelle, eh, mastro Pasquale!»

«Il Signore mi ha aiutato. Sono brutti tempi: se non sono banditi, sono soldati sbandati, che rubano e uccidono, senza badare a nulla. Quattro li hanno trovati morti, mezzi mangiati dai cani, e non si è saputo se li ha uccisi una schioppettata o qualche morbo: erano irriconoscibili, si è capito solo dai vestiti che erano napolitani, delle mie parti; hanno fatto proprio una brutta fine.»

«Siete un testone, non accettate mai consigli da chi vi vuol bene, ma noi vi vogliamo bene lo stesso…»

Maria non conclude la frase e scoppia in un singhiozzo, per pudore, entra in casa, portando con sé la bisaccia del marito, seguita dalle bimbe vocianti e curiose di sapere cosa c’è dentro quel grosso fagotto.

Pasquale si attarda con il barbiere: «Entra, Giacomino, vieni a bere un bicchiere; ho portato con me una bottiglia di quel vino che fanno i monaci della Certosa.»

«A Pavia?»

«Sì, certo.»

«Grazie di cuore, Pasquale, ma non oggi, sei appena tornato, è giusto che tu stia con la tua famiglia. Berremo quel bicchiere un’altra volta; piuttosto, hai una barba lunga: ti aspetto in bottega, domani.»

«Domani è domenica, andremo tutti a messa e poi staremo tutti insieme. Verrò più avanti: cerca piuttosto di non tagliarmi la faccia, come l’ultima volta, affila meglio il rasoio. Ora posso pagare e quindi posso lamentarmi.»

«Ma va nanh!», esclama, ridendo, mastro Giacomo, che esce senza chiudere il cancelletto.

Pasquale entra in casa, è nuovamente circondato dalle sue bimbe, alle quali si aggiunge Domenico, che, richiamato dagli schiamazzi, si è alzato ed è sceso in cucina.

«State buoni», dice il padre, «che ho qualcosa per tutti.»

«Cosa? Cosa?», chiedono i figli.

«Ecco qua!», tirando dalla bisaccia della frutta candita, «Ecco qua, prendete, mangiate e state buoni.»

I bimbi prendono la frutta candita e la divorano in un lampo. Maria non sa cosa dire, ma Pasquale la sbalordisce, tirando fuori dal sacco un pettine: «Prendete, Maria, è d’avorio, non è comune osso.»

«Non dovevate spendere tanto per me. Il regalo è che voi siate tornato sano e salvo.»

«Ho delle buone nuove; intanto prendete questa.»

E posa sul tavolo una piccola borsa di cuoio: «È oro, basterà per l’inverno e potremo pagare qualche debito. La cosa più importante è che ho accettato l’impiego di mastro Giobatta. State tranquilla, la nostra quaresima sta per finire, potremo mangiare a sazietà e vestire dignitosamente, i bimbi potranno calzare anche un paio di zoccoli, invece di camminare scalzi.»

A questo punto, Pasquale abbraccia la moglie e la solleva, destando l’ilarità dei bambini.

«Mettetemi giù, scostumato! Non sta bene davanti ai bambini!», protesta, ridendo, Maria.

«Lisa!», ordina il padre, «Ecco una berlinga, vai con Anna, dal fornaio e dal pizzicagnolo, compra pane, formaggio e lardo e con quello che avanza paga ciò che dobbiamo; intanto la mamma ci prepara una buona zuppa. Dopo mangiato, vi parlerò del mio viaggio e di quello che ho visto, delle città, delle chiese e del mare.»

«Come è il mare?», chiede Domenico.

«È grande.»

«Più grande di Alessandria?», chiede il bimbo.

«Senza fine.», risponde il padre, con un sospiro.

«Voglio vederlo.»

«Lo vedrai quando sarai grande.», replica Pasquale, accarezzando la testa bionda del piccolo.

La sera giunge dopo un giornata trascorsa a parlare, a ridere, a fantasticare davanti al camino; con le tenebre si fa strada la stanchezza, quindi tutti vanno a dormire.

 

Capitolo VIII

Qualcuno batte con violenza alla porta.

«Pasquale … bussano. Chi sarà a quest’ora? Non è ancora l’alba.»

«Vado a vedere.», risponde intontito l’uomo.

«Aprite! Aprite!», gridano da fuori.

«Vado a vedere chi è.»

Pasquale scende la scala e intanto indossa alla meglio il farsetto.

«Aprite al bargello!»

«Il bargello? Vengo! Vengo!», risponde preoccupato Pasquale.

Davanti alla porta, però, ha un attimo di incertezza e chiede: «Chi siete?»

«Il bargello! Aprite in nome del re!», rispondono da fuori.

L’uomo toglie la spranga che ferma la porta, la apre e si trova davanti alcune guardie e un uomo avvolto da un ampio mantello scuro, sul quale risaltano una candida gorgiera e un bianco pennacchio sul cappello.

«Siete voi Pasquale Laurenzano?», chiede quello.

«Per servirvi.»

«Ho l’ordine di scortarvi a San Marco.»

«San Marco? Che ho a che fare con l’inquisizione?»

«Io ho l’ordine, avrete la risposta là.»

«Ma io non ho fatto niente! Ci deve essere un errore!»

«Nessun errore, fate resistenza? Guardie!»

«Pasquale, per amor di Dio, che succede?», chiede angosciata Maria.

«Vi giuro, non lo so! Vogliono arrestarmi!»

«Guardie, eseguite!», ordina l’uomo con la gorgiera candida.

«Papà! Papà!», gridano, piangendo, i bimbi, destati dal tramestio e dalle urla, disperati nel veder portare via il padre.

Maria, alla vista di Pasquale trascinato con la forza, grida, chiede pietà, aiuto, batte i pugni contro lo stipite e cerca di avventarsi sulle guardie, che la respingono in malo modo.

«Mamma, perché portano via papà?», chiedono i piccoli.

«Non lo so, non lo so!», risponde, frastornata, Maria. È però questione di un attimo, sale al piano superiore e ne discende, poco dopo, vestita alla meglio e con lo scialle sulla testa e lungo le spalle.

«Mamma, dove andate?», chiede Lisa.

«Vado a cercare aiuto. Bada tu ai tuoi fratelli; non uscite per nessun motivo, state in casa e aspettatemi. In dispensa c’è un po’ di pane, lo mangerete quando avrete fame; sta’ attenta che i tuoi fratelli non si avvicinino al fuoco.»

«Sì, mamma, ma voi dove andate? Quando tornate?»

«Da chi può aiutarci, Lisa; non so quando tornerò.»

Maria esce come una furia, percorre la rugata in un baleno, attraversa la piazza maggiore, va sempre avanti, via Nova, porta Nova, porta delle Vigna, entra finalmente in Borgoglio e si dirige verso la chiesa di san Pietro, presentandosi davanti alla canonica che è appena terminata la messa; c’è un po’ di movimento e non vuole che la gente la noti, quindi si avvicina all’uscio con circospezione, bussa, apre Rita: «Che volete?», chiede, la perpetua, in malo modo.

«Ho bisogno di don Giovanni.»

«Non c’è. Tornate domani.»

«Ho bisogno di lui ora, è cosa assai grave.»

«Hanno tutti bisogno di don Giovanni per qualche grave motivo; è impegnato, non può ricevervi.»

«È necessari che gli parli.»

«Dicono tutti così!», replica asciutta Rita, «Ve l’ho detto: è impegnato.»

«Mio marito è stato arrestato e i bimbi…»

«E che volete dal parroco? È impegnato! Non avete capito?»

Il tono della discussione attira l’attenzione del prete, che fa capolino alle spalle della perpetua.

«Calmatevi, calmatevi, Rita!», parlando con tono mellifluo, «Don Giovanni c’è sempre per gli amici: entrate, entrate, Maria, volete confessarvi? Andiamo di là.»

Maria, confusa, annuisce, seguendo il prete come un automa, mentre Rita, che conosce il significato di quel “andiamo di là”, rimane sulla porta, con le mani ai fianchi.

Il sacerdote e la donna entrano in chiesa e quindi in una stanzetta accanto al confessionale. Sono soli e nulla li separa, neppure la grata del confessionale.

Maria parla al confessore, gli apre il suo cuore, aspettando una parola di conforto, un consiglio.

Don Giovanni, dopo che la donna ha terminato di parlare, con tono solenne, e dopo un lungo silenzio, inizia: «Vedete da voi che ciò che vi dissi si è avverato.»

«Non capisco.», risponde, stupita, Maria.

«Non capite? Eppure è palese. Siete rimasta chiusa nel vostro egoismo, senza donare a chi desiderava qualcosa da voi. Chi vuole l’attenzione di Dio, deve dare amore, non dimenticatelo.»

«Padre, non capisco. Potete aiutarmi? Potete aiutare mio marito?»

«Voi dovete dare amore. Siete ancora in tempo. Il Signore vi vede e vi aiuta.»

«Cosa devo fare? Ditemi cosa devo fare e lo farò: vi prego, padre, aiutatemi.»

Don Giovanni le prende le mani, gliele stringe: «Non c’è legame fra corpo ed anima; la sozzura del corpo non lede la perfezione dell’anima. Non è peccato baciare; amare. Amate. Amatemi ed io vi aiuterò.»

A questo punto, il prete rompe gli indugi, pone le mani sul seno di Maria e glielo stringe.

La donna è sbalordita, ansima, ma è questione di un attimo, si riprende, allontana le mani dal seno, urla: «Che fate? Siete un porco! Un disonesto! E io che avevo fiducia in voi!»

Esce dalla stanzetta, si allontana di corsa, tornando in strada più scarmigliata di prima. Don Giovanni la segue, senza scomporsi, e, con aria contrita, rivolgendosi ad un fedele che ha assistito all’ultima parte della scena, dice: «È posseduta, non sono riuscito a liberarla.», e si dirige verso la canonica.

Qui gli si para davanti Rita, ancora irritata: «Sarai contento. Ora ti denuncerà all’inquisizione.»

«Sta’ zitta e fila via; ha troppi guai per pensare a me. Domani non ricorderà più nulla. Ora devo andare, ho da confessare donna Monica Gaia, la moglie del mercante di vini; è inferma e devo portarle il conforto della mia parola.»

«E di qualche altra cosa…», replica la vecchia perpetua.

«Ho un dovere da compiere.»

«Sì di soddisfare te stesso.», conclude la donna, esplodendo in una risata sguaiata.

Maria, intanto, cammina per Borgoglio senza una meta, urtando i passanti, che la guardano come se fosse una pazza.

Dopo tanto camminare, finalmente, approda alla casa di donna Isabella. La chiama a squarciagola, la donna si affaccia alla finestra: «Maria, che c’è? Come mai così presto?»

«Sono disperata! Fatemi entrare!»

«Scendo subito!»

L’anziana signora, ancora in abito da notte, scende, apre la porta e Maria entra, come una forsennata, in cucina, sedendosi affranta e singhiozzante.

«Ma che succede? È morto qualcuno?», chiede, angosciata, donna Isabella.

«Peggio.»

«Peggio? Che c’è peggio della morte?»

«Hanno arrestato Pasquale. Stamani è stato portato via dagli uomini del bargello. Ora è a San Marco.»

«A San Marco? Dall’inquisizione? Perché?»

«Non lo so. Subito dopo l’arresto, sono andata da don Giovanni a chiedere aiuto, e questi, dopo i soliti, strani discorsi, mi ha messo le mani addosso, voleva abbracciarmi, farmi fare delle cose brutte.»

«E tu?», chiede, stupita, donna Isabella.

«Sono scappata.»

«Hai fatto bene. È un brutto ceffo. Si dicono troppe cose su di lui perché siano tutte panzane. Dovevi lasciarlo perdere subito.»

«E adesso, come faccio? Chi mi aiuterà?»

«Ti aiuterò io. Tu sei la figlia che non ho mai avuto. Adesso siediti, dobbiamo cercare di avere le idee chiare. Vuoi un po’ di latte caldo?»

«No, non ho voglia di niente.»

«Prendilo, ti farà bene.», e le porge una ciotola di latte scaldato da poco.

Maria lo beve, si rinfranca, è la prima cosa che trangugia da quando si è svegliata. D’un tratto ha un sussulto: «I bambini, poveri angeli, sono soli, nessuno che vi badi. E io che mi ero fidata di quel prete farabutto. Perché il Signore non aiuta chi soffre? Perché si volta dall’altra parte?»

«Adesso non bestemmiare, Maria. Non voglio che parli così di Dio, dobbiamo, invece, pregarlo perché ci illumini sul da farsi. Dobbiamo trovare un avvocato.»

«E chi lo paga? Siamo poveri, se paghiamo l’avvocato, non mangiamo per tutto l’inverno.»

«Non ti preoccupare, al denaro penserò io. Conosco anche un buon avvocato, Lancillotto Gallia, andremo da lui e ci aiuterà. Ora, però, dobbiamo pensare ai tuoi figli, non possono rimanere soli e senza mangiare per tutto il giorno.»

Apre la finestrella della cucina e chiama verso la casa di fronte: «Caterina! Caterina! Vieni, presto, ho bisogno di te!»

«Un momento e sono da voi!», risponde quella.

Passa poco e qualcuno bussa all’uscio della cucina.

«Avanti, è aperto!»

«Sono qui, donna Isabella, di cosa avete bisogno?»

«Ti prego, va’ in contrada San Pietro, dopo la piazza Maggiore, ad accudire i figli di Maria, sono soli, ma prima passa dal lattaio e dal fornaio e compra da mangiare per loro. Un’altra cosa: avvisa tuo marito che oggi avrà due passeggeri sul suo baroccio, dobbiamo andare dal giureconsulto e la strada è lunga, così ne risparmieremo metà. Non preoccuparti, vi ricompenserò per tutto ciò che farete, intanto prendi questo.», e pone in mano della giovane donna una moneta d’argento, tirata fuori dalla tasca della vestaglia.

Caterina esce. Donna Isabella si veste, cercando di mettere in ordine anche la povera Maria, visto che è buona norma presentarsi bene dall’avvocato, per non fare brutta figura.

 

Capitolo IX

È passato Natale, sono trascorsi i mesi successivi, ma Pasquale è ancora a San Marco e l’unica uscita consentitagli è quella del tragitto fra la prigione e l’aula superiore del palazzo di fronte.

Ancora un altro interrogatorio, sempre le stesse domande, le stesse risposte, la stessa incredulità, la stessa tortura.

«Siete pronto cancelliere?», chiede l’arciprete Arnuzzi.

«Sì, monsignore.»

«Procediamo con ordine, leggete il verbale.»

Quello inizia, quasi salmodiando: «Anno Domini Millesimo Quingentesimo Nonagesimo etcetera, etcetera. Interrogatus sul nome. I genitori e la provenienza, l’imputato respondit: Mi chiamo Pasquale Laurenzano, i nostri vecchi hanno nome Domenico e Gerarda, provengo da Perticara, feudo dei nobili De Castella, nel regno di Napoli.Interrogatus sulla sua professione, l’imputato respondit: Fui soldato fino al 1573, da allora campo come posso e faccio vita grama. Interrogatus sul perché non fu più soldato dopo il 1573, l’imputato respondit: Per aver lordato le insegne reali. Interrogatus sul motivo del gesto, l’imputato respondit: Fu colpa del vino. Interrogatus sul motivo del suo arresto, l’imputato respondit: Non lo conosco. Non ho fatto niente: sono innocente. Interrogatus se l’imputato non ha mai avuto libro qual insegni malefici, respondit: Non l’ho mai avuto, so appena leggere e scrivere.Interrogatus se ha alcun secreto per far che uno giocando vinca, respondit: Se avessi il segreto, la mia famiglia sarebbe ricca. Interrogatus se ha alcun secreto per farsi amare dalle donne, respondit: No. Amo solo mia moglie.Interrogatus se ha medicato la signora Margarita Guasco, come se fosse maleficiata, respondit: No, non la conosco. Interrogatus se intendendo che a casa di detta signora andava un frate per liberarla dai malefici e che lui gli fece dire che lasciasse stare quel frate perché quello non era suo mestiere, respondit: No, Dio mio, no.Interrogatus se ha medicato Nicolao Conzano, Caterina Scoglia e la figliola di Stefano Gatto, respondit: Non ho mai guarito nessuno, ho solo venduto un po’ di unguento per i calli a chi me lo chiedeva. Interrogatus se ha mai usato cosa sacra, come ramo d’ulivo o candela benedetta, per fare il suo remedio, respondit: No, mai. Interrogatus se ha mai avuto intelligenza coi francesi e se da questi ha ricevuto denaro per uccidere con malefici, respondit: No, ho sempre combattuto i francesi per il cattolicissimo re. Interrogatus se conosce la fisica praticata dagli ebrei e se intrattiene commercio con essi, respondit: Non so di nessuna fisica degli ebrei, conosco un mercante giudeo, che mi prestò soldi su pegno, come con tanti altri.»

Il notaio termina la lettura del verbale, facendo un inchino.

L’arciprete Arnuzzi, rivolgendosi all’imputato: «Pasquale Laurenzano confermate quanto detto? Avete qualcosa da aggiungere?»

«No.»

L’arciprete, rivolgendosi all’avvocato fiscale, scuote la testa e sbotta:

«Non abbiamo cavato un ragno dal buco; bisogna capire se quest’uomo è un reo, in combutta col demonio, oppure no. È necessario sottoporlo alla fune un’altra volta.»

«No! Alla fune no! Ho il braccio sinistro che mi fa male. Vi prego basta con la tortura!»

Interviene l’avvocato fiscale: «Monsignore, è vero, quest’uomo si è già lamentato del braccio sinistro, offeso in guerra.»

«Vedremo, per ora, procediamo.»

«No! La fune no!», urla Pasquale, mentre due inservienti lo afferrano e lo trascinano verso la macchina; gli legano i polsi; iniziano a tirare; urla: «Muoio! Muoio! Ahh.»

Il dolore è forte, sviene.

«Interrompete!», ordina l’arciprete, «Riportatelo in cella.»

I due inservienti afferrano Pasquale, per mani e piedi, e lo portano via come se fosse un sacco.

«Monsignore.», sussurra il cancelliere.

«Che c’è?», risponde, pensieroso, monsignor Arnuzzi.

«Non dimenticate che avete un appuntamento con l’avvocato Gallia.»

«È vero, lo avevo dimenticato, devo conferire con l’avvocato dell’imputato.»

«Cancelliere, io vado in parlatorio.»

L’arciprete esce dalla sala, ha come un moto di liberazione, gli succede tutte le volte che esce da lì, è come se si liberasse delle sofferenze degli imputati, che in qualche modo ricadono su di lui, sacerdote, come in confessione.

La gente pensa che l’inquisizione sia solo potere e tortura, non capisce che i suoi servitori sono uomini che vestono l’abito, il cui unico scopo è la ricerca della verità, anche a costo di flagellare.

Preso da queste riflessioni, don Cesare Arnuzzi scende le scale, percorre un lungo corridoio, finché giunge al parlatorio.

Qui, in un ambiente spoglio, sotto un grosso crocifisso, appeso alla parete, attende, seduto, l’avvocato, che, alla vista, del religioso, si alza e saluta con molta deferenza.

«Don Leonello, buon giorno, come state?»

«Io bene, e il mio assistito?»

«Purtroppo male, non ha resistito alla corda e abbiamo dovuto sospendere l’interrogatorio.»

«È troppo debilitato.», replica quasi con veemenza l’avvocato, «Bisogna farlo visitare e dargli gli arresti domiciliari per processarlo poi a piede libero.»

«Non correte, avvocato. Ho disposto che venga visitato dal medico del convento, per accertare le condizioni del braccio.»

«Ma in questo modo continuerete a torturarlo in altre parti del corpo.»

«Resisterà. Resistono tutti, eretici, streghe, maghi; sono coriacei, direi demoniaci.»

«Posso vedere il mio assistito?»

«È nel vostro diritto, ma non credo che vi potrà dire molto. Vi accompagno.»

I due escono dal parlatorio, percorrono un corridoio, escono in un cortile, qui si fermano davanti ad una porta; l’arciprete bussa, apre un omone barbuto, vestito di scuro, con alcune chiavi alla cintola, serra la porta alle spalle dei due e, senza parlare, ne apre un’altra, di fronte a loro.

I due percorrono un lungo e tetro corridoio, giungono ad un cancello di ferro, la guardia riconosce l’arciprete, apre, facendoli entrare in un altro corridoio buio.

I tre costeggiano alcuni cubicoli, finché si fermano davanti ad uno di questi; la guardia apre la porticina, i due entrano.

«Posso rimanere solo con lui?», sussurra l’avvocato.

«Certo, ma non potete fermarvi molto.»

«Va bene.»

L’arciprete esce e don Leonello rimane solo, di fronte al detenuto, disteso sul saccone, sotto una ruvida coperta. Da una finestrella penetra una luce fioca, mentre da un buco, situato in un angolo, sale un cattivo odore.

«Pasquale, Pasquale», sussurra l’avvocato, «mi sentite?»

Il prigioniero si lamenta, ma non risponde.

«Mi sentite?», continua l’avvocato.

Pasquale fa un cenno con la testa.

«Coraggio, sto facendo di tutto per farvi processare a piede libero.»

«Avvocato…», sussurra con tono lamentoso Pasquale, «Fate presto… non ce la faccio più, sono un uomo morto.»

«Fatevi forza, sarete visitato da un medico, potrete tornare a casa e…»

«Avvocato, non arrivo vivo alla fine del processo.»

«Avete superato tante brutte situazioni.», lo rincuora l’avvocato, «Ce la farete anche questa volta.»

«Questa volta no, non ce la faccio. Poveri figli miei, povera moglie mia, morirò qui senza vedervi più.»

«Vi manderò del cibo perché vi rimettiate.»

«Povero me, sono morto.»

«Ora devo lasciarvi, ma tornerò presto.»

L’avvocato si allontana, esce dalla cella; fuori lo attende l’arciprete: «Allora, come lo avete trovato?»

«È un uomo finito, se rimane qui, muore e non termineremo neppure il processo.»

«State tranquillo.», con tono sarcastico, «Lo concluderemo, lo concluderemo.»

I due si allontanano, accompagnati dalla guardia che fa loro strada, procedendo a ritroso, in silenzio, per i corridoi bui. Escono nel cortile, superano la porta del convento e, a questo punto, dopo aver tirato un lungo sospiro di sollievo, l’avvocato rompe il silenzio.

«Lo tirerò fuori da qui e verrà processato a piede libero. Costi quel che costi.»

«Buon per voi, per ora, però, rimane con noi e dobbiamo ancora sapere qualcosa.»

«Cosa dovete sapere? Non vi basta sapere che non conosce niente di ciò che chiedete? Non vedete in che stato è? Pensate che se avesse saputo qualcosa non l’avrebbe detto, pur di uscire da questo inferno in cui lo avete gettato?»

«L’inquisitore ha il dovere di insistere finché l’animo dell’imputato emerga nella sua completezza, come la lavandaia fa con le calze, che rivolta più volte per far venir fuori lo sporco.»

«Ma Pasquale Laurenzano non è una calza e anche se lo fosse ha più l’aspetto di una calza lacerata e sfilacciata che quello di una sana.»

«Meglio se la calza è lacera, non verrà più usata.»

«Ma che dite!», replica, indignato, l’avvocato, «Pensate forse che sia meglio che gli imputati muoiano prima dei processi?»

«Sarebbe comodo, perché, oltre a risolvere il caso, fungerebbero da deterrente verso i deboli e gli incerti fra quelli che sono i potenziali eretici, ma questo non è giusto e la gente deve avere la consapevolezza che l’inquisizione non teme la verità e condanna con cognizione di causa e non per arbitrio.»

«Stiamo sconfinando dal seminato, monsignore, perdonate, ma non ho tempo di continuare questa conversazione. Vi saluto.»

«Salute a voi, avvocato.»

I due si allontanano, l’arciprete verso lo scalone, che porta al piano superiore, l’avvocato verso l’uscita.

Quando questi esce respira profondamente, come se volesse liberarsi di qualcosa.

Far uscire Pasquale, più morto che vivo, sta diventando il suo chiodo fisso; deve parlare con la moglie, sapere su quali mezzi, o aiuti, può contare la famiglia e se, comunque, c’è qualcuno che garantisca per loro. Da ciò che ha visto, l’imputato è mal ridotto e se non si farà qualcosa entro breve, potrebbe essere troppo tardi.

Pensieroso, l’avvocato cammina a lunghi passi verso contrada San Pietro.

Nella casa di Pasquale, intanto, da quando lo hanno arrestato, sembra regnare il lutto: non un rumore, Maria piange sommessamente, solo donna Isabella, ormai di famiglia, va avanti e indietro, in silenzio, prepara il pranzo, accudisce i bimbi, bada alla casa e tiene i contatti con l’avvocato.

Il silenzio è rotto dall’arrivo di don Giovanni; Maria è imbarazzata, fredda; lui sembra aver dimenticato l’episodio di alcuni mesi prima e ostenta simpatia.

«Non vi ho più vista, non siete più venuta a confessarvi.»

«Non ho potuto.», replica fredda la donna.

«Non avete tempo per la confessione? Eppure so che siete in difficoltà, vostro marito…»

«Ho già chi mi aiuta, non vi incomodate.»

«Potremmo pregare insieme; Dio premia chi lo prega, chi ama e chi dona.»

«Siete voi che, come prete, dovete donare.», risponde, seccata, donna Isabella, entrata, nel frattempo, in cucina.

«Donna Isabella, voi qui?»

«Certo, io, visto che nessuno si degna di aiutare questi infelici, neppure la Chiesa, con il conforto della parola, ci sono io.»

«Siete parenti?»

«No, fortunatamente, visto che i pochi parenti di Maria, prima, hanno ostacolato il matrimonio e, ora, si guardano bene di sfidare l’inquisizione con la carità. Faccio ciò che farebbe sua madre se fosse ancora viva.»

«Ma ci sono io.», replica il prete, «Posso prendere sotto la mia protezione tutta la famiglia, ho conoscenze, posso fare molto per Maria.»

«Avete già fatto molto… Maria non ha bisogno di altro e poi, per ogni evenienza, ci sono io.»

«Vi illudete, povera anima, potete fare ben poco.»

«Evidentemente, non conoscete la Divina Provvidenza.»

A queste parole, don Giovanni fa una smorfia: «Non insisto. Maria, se avete bisogno, sapete dove sono.»

Raccoglie quindi la sua elegante figura dentro il mantello scuro, si volta ed esce dalla cucina senza proferire saluto.

Maria, fino a quel momento contenuta, scoppia a piangere e abbraccia donna Isabella.

«Sfogati, fai uscire tutta la tua rabbia.»

«E pensare che mi fidavo di lui.», singhiozza Maria.

«Preti così non servono Dio, né la Chiesa, ma solo se stessi. Sta’ tranquilla, c’è una giustizia divina che, prima o poi, chiederà conto a don Giovanni e a tutti coloro che vi stanno facendo soffrire, a cominciare da quel mascalzone che ha denunciato un innocente.»

Già, il mascalzone che ha denunciato un innocente, sta uscendo proprio ora dalla casa di Maria e pensa che, in fondo, questa gente non merita nulla, anzi, merita di stare nel proprio brodo. Il pensiero di scrivere un’altra lettera, che scagioni Pasquale, gli sfiora la mente, magari accusando il mercante di vini, sarebbe un bel colpo: eliminare il marito e papparsi moglie e soldi; ma ormai è fatta, la mercantessa pende dalle sue labbra e poi perché scagionare il marito di Maria? Per la sua coscienza? La coscienza può attendere e i soldi di Monica la sgraveranno, facendogli fare molto bene… una lettera che scagioni quell’uomo, ma che se la sbrighino lui e quelle due megere.

A questo punto, i pensieri di don Giovanni sono rivolti verso una popolana formosa, che, superandolo, con un cesto sul capo, mette in evidenza la sinuosità del suo corpo.

 

Capitolo X

L’avvocato Gallia cammina, avanti e indietro, lungo il corridoio del piano superiore di San Marco, in attesa di essere ricevuto.

Si apre una porta, un domenicano si affaccia e gli fa cenno di entrare. Entra con piglio deciso, ma sa di dover essere cauto, ogni gesto, ogni parola, ogni pensiero possono nuocere al suo assistito. Ha dovuto lottare perché questi fosse sottoposto ad una perizia medica più accurata rispetto alla precedente, fatta dal medico dell’inquisizione, che, al momento di sottoscrivere la sua deposizione, si era dichiarato incapace di firmare ed aveva apposto un segno di croce in calce al documento.

Per il tribunale, perizia e perito erano affidabili; ha dovuto sudare sette camicie per trovare medici disposti a visitare Pasquale e a dichiararlo menomato nell’uso dell’arto sinistro, quindi non sottoponibile a tortura, ma, anzi, soggetto al regime degli arresti domiciliari e a cure che gli consentissero di riprendersi dalla grave debilitazione.

«Accomodatevi, dottor Gallia.», lo invita l’arciprete Arnuzzi, «Con voi siamo al completo e possiamo dar luogo alla lettura della perizia medica che avete richiesto.»

«Grazie, monsignore.»

«Bene, siete pronto cancelliere? Fate entrare i signori medici Camillo Capriata e Mario Galìa.», ordina l’arciprete.

I due entrano, profondendosi in un inchino e ponendosi di fronte ai membri del tribunale.

«Signori.», inizia l’arciprete, «Avete redatto una relazione scritta?»

«Sì.»

«Volete procedere?»

«Certo.»

Il dottor Capriata apre la grossa cartella, che tiene sottobraccio, ne cava alcuni fogli e li consegna al collega, che comincia a leggere: «Nos infranse, artium et medicinae doctores de collegio civitatis Alexandriae fidem facimus et cum iuramento dicimus sicuti de mandato multum reverendi domini vicari episcopalis…»

«Bene.», lo interrompe l’arciprete, «Grazie per la vostra puntualità; consegnate pure il documento al cancelliere, che lo allegherà agli atti, e procedete pure in volgare; non c’è nessuna difficoltà di comprensione da parte del tribunale, ma solo la necessità di arrivare direttamente al punto.»

«A vostro piacere!», replica, asciutto, il dottor Galìa, «Il mio collega, uomo facondo, vi renderà edotti delle nostre conclusioni.»

Il dottor Capriata fa un passo avanti e, dopo essersi schiarito la voce, comincia a parlare: «Abbiamo visitato Pasquale Laurenzano, nelle carceri di San Marco, e lo abbiamo trovato giacente a letto, colpito da una febbre continua, da forti dolori alle braccia e da lussazione del pollice della mano sinistra, tanto che riesce a muovere a stento mani e braccia. La tortura ha causato questa condizione e ha aggravato una menomazione al braccio sinistro preesistente alla detenzione. Abbiamo riscontrato inoltre ustioni ai piedi, dalle piante ai malleoli: il fuoco ha leso la pelle e i muscoli, tanto da offendere il nervo della coscia sinistra, che si è ritirato a tal punto da stendersi a fatica. Anche questo è frutto di tortura, dato che, in seguito alla perizia dell’esimio dottor Piscuarra, che aveva riscontrato la menomazione, nella visita successiva a quella del medico dell’inquisizione, i giudici avevano sostituito la fune con il fuoco. Ora, però, l’uomo è fortemente debilitato, anche per la presenza del morbo gallico, per cui sarebbe necessario il trasferimento in un luogo asciutto e dove fosse più facile curarlo, perché la sua permanenza in carcere potrebbe essergli letale.»

Dopo queste parole, scende un cupo silenzio, rotto però, quasi subito, dalla voce dell’avvocato Gallia: «Chiedo a codesto reverendo tribunale che il mio assistito venga rilasciato mediante fideiussione, perché possa curarsi e faccio pubblica protesta di fronte ad un verdetto negativo, in quanto la gravità della situazione non richiede indugi.»

«Adagio, adagio.», replica l’arciprete, «Verità e giustizia stanno a cuore a noi quanto a voi. Nessuno vuole che Laurenzano marcisca in prigione, tanto meno ingiustamente, e noi conosciamo la legge. Vi preghiamo quindi di uscire perché il tribunale possa deliberare in piena serenità.»

I medici e l’avvocato vengono accompagnati fuori dallo stesso monaco che li ha fatti entrare, quindi la pesante porta si chiude alle loro spalle.

I due medici, dopo averlo salutato, si allontanano, mentre l’avvocato rimane immobile e pensieroso, in mezzo al corridoio, per un lungo lasso di tempo, fino a quando, cioè, viene richiamato dal monaco.

Entrato, don Leonello si pone di fronte al tribunale, mentre l’arciprete Arnuzzi si alza e, tenendo un foglio fra le mani, inizia a leggere con tono solenne: «Il molto magnifico e reverendo signor vicario, esaminati gli atti e stante le attestazioni dei magnifici signori fisici, e ad ogni buon fine ad effetto e affinché in carcere non patisca danno maggiore per le difficoltà di accesso di persone essenziali per il servizio e la cura del detenuto stesso e affinché possa essere curato meglio, d’accordo con il signor avvocato fiscale della curia, ordina che detto Laurenzano debba essere rilasciato da detto carcere, prima però essendo stata versata la necessaria cauzione di 400 scudi e data la garanzia di non allontanarsi dalla propria casa, sita in rugata San Pietro Capitis Vitis.»

Udita la sentenza, l’avvocato, stringendo i pugni, esclama: «È passato più di un anno, ma finalmente la giustizia si è tolta la benda!»

«L’ha tolta.», risponde, freddo, l’Arnuzzi, «Ma avete vinto solo una battaglia, non la guerra, e questa è ancora lunga.»

«Voglio dare subito la notizia alla famiglia e al mio assistito: posso fargli visita subito?»

«Siete autorizzato, ma ricordate che sarà fuori solo dopo aver versato la cauzione. Padre Zaccaria accompagnate l’avvocato nella cella del Laurenzano.»

Il monaco fa un cenno di assenso e si allontana, facendo strada. Scendono lo scalone, percorrono il corridoio del piano terra, attraversano l’ampio cortile, superano la porta del carcere, l’avvocato si trova nuovamente avvolto dall’ oscurità di quei corridoi.

La guardia apre la porticina del cubicolo, l’avvocato entra e si avvicina a Pasquale, immobile sul giaciglio, nella penombra e nel cattivo odore. E’ febbricitante, la sua mano è calda e gonfia.

“Pasquale», gli sussurra l’avvocato, «fatevi coraggio, fra non molto uscirete, su cauzione, ma uscirete.»

L’uomo, privo di forze, cerca di alzare la testa, ma l’avvocato l’obbliga a rimanere disteso: «Non temete, uscirete di qui, vi riprenderete e riusciremo anche a dimostrare la vostra innocenza.»

«Non ce la faccio più, morirò prima di uscire, poveri figli miei. Sarebbe stato meglio se fossi morto in guerra.»

«Uscirete, ce la farete, confidate in Dio.»

«Dio ci ha abbandonati.»

«Uscirete, dovessi pagare io la cauzione.»

A questo punto, l’avvocato si commuove, due lacrime rigano il suo volto, non vuol farsi vedere, stringe la mano di Pasquale ed esce dalla cella.

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