Nella mia riflessione precedente, La lunga notte dell’Occidente [1], mi sono ripromesso di utilizzare le molte cose che ovviamente so e debbo sapere come professore ordinario di “Storia delle dottrine politiche” dell’Università di Milano (a riposo dall’ottobre 2010), e come autore di molte opere, in modo parco: più che altro come sfondo concettuale. Si tratta di riferimenti necessari, ma il focus ha da essere il presente come storia. La storia delle idee politiche va bene, insomma, ma in funzione della politica, tanto più in riferimento alle due guerre in corso, che incidono sulla storia del mondo e sulla vita di tutti noi come non mai dopo il 1945.
Certo di guerre se ne sono fatte sempre, e spargendo il sangue a fiumi, dalle origini della Storia in qua (diciamo pure da seimila anni almeno). Ma la memoria prevalente è corta. Non solo ci dimentichiamo di quel che è capitato e anche oggi capita in Africa e da tante altre parti, come se ci fossero morti di serie A o B o C, ma ci siamo già pure scordati della seconda guerra dell’Iraq contro Saddàm Hussein, fatta – usando la faccenda come giustificazione per scatenare il conflitto – sostenendo l’esistenza di armi di distruzione di massa nucleari che il dittatore irakeno avrebbe avuto, e che invece non c’erano, e dimenticando che di conseguenza morì, dopo un lungo conflitto durato dal 2003 al 2011, oltre un milione di persone. Così vuole la “nostra” pelosa coscienza.
Comunque oggi siamo a una nuova guerra in Medio Oriente e ad una guerra tra Russia e Ucraina, che sono guerre diverse dalle tante in corso nel mondo perché se l’Iran venisse attratto in campo aperto, trascinato in guerra, e la Russia dovesse veder invaso il suo Paese dai suoi “invasi”, la terza guerra mondiale, non “a pezzi” come dice il papa, ma in senso stretto, si scatenerebbe. Bombe atomiche tattiche, cosiddette di portata limitata, potrebbero scoppiare da un momento all’altro. Sono sotto attacco ucraino persino centrali nucleari. Poi si piangerà come fontane sul latte versato, come dopo l’esplosione di un reattore nucleare a Chernobyl, in Ucraina, il 16 aprile 1986, che ebbe effetti nefasti tumorali sin qui. Ma questa volta sarà stata pure colpa nostra, poiché abbiamo lasciato che il conflitto russo-ucraino degenerasse sino a diventare nocivo per tutti, invece di spingere le due parti al compromesso, il quale oltre a tutto alla fine ci sarà e sarà come quasi sempre accade insoddisfacente per tutti.
Naturalmente, sia ciò giusto o meno, come studioso, e non solo come semplice cittadino che legge i giornali, scarterei le spiegazioni troppo di superficie, di cui si pascono o i troppo ingenui politicamente, oppure i troppo furbi. Ad esempio l’idea che il finimondo che si è scatenato in Medio Oriente, che ha già fatto morire oltre quarantamila palestinesi in gran parte civili, e per parte non piccola donne e bambini, sia scoppiato, e soprattutto seguiti, perché le bande criminali di Hamas il 7 ottobre 2023 hanno compiuto, com’è innegabile, una strage orrenda e senza attenuanti, di ben 1200 giovani israeliani innocenti che facevano festa, e rapito, nella stessa occasione, 253 israeliani; oppure che la guerra russo-ucraina sia tutta spiegabile attraverso la proditoria invasione dell’Ucraina, che pure c’è stata e c’è, da parte di un dittatore russo, Putin, descritto più o meno come il generale pazzo dei film western che vuole per forza far strage di indiani, non mi pare credibile. Questi terribili crimini scatenanti, come la grande strage di israeliani innocenti o la proditoria invasione dell’Ucraina da parte dei russi, sono stati reali, ma debbono esserci cause più profonde. Altrimenti dovremmo pensare che l’attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914 in cui l’arciduca Francesco Ferdinando e consorte furono uccisi da un nazionalista serbo sia stato la causa della Grande Guerra, e che la questione del “corridoio di Danzica” sia stata la causa profonda della Seconda guerra mondiale del 1939. Sembra evidente che strage degli innocenti israeliani e attacco proditorio all’Ucraina siano stati casus belli o magari concause, ma che “sotto” debbano esserci ragioni più profonde.
A questo punto vorrei provare a riferire ai decisori di oggi alcune prime cose che sappiamo su guerra e pace attingendo alla storia del pensiero politico.
Le premesse sono individuabili sia in senso positivo che negativo, cioè sia in relazione a un ordine cosiddetto “naturale” infranto che a un disordine “naturale” scatenato.
Il primo importante filosofo su guerra e pace tra gli Stati fu l’olandese Ugo Grozio (Hulg Van Groot), uno dei grandi teorici del diritto di natura (giusnaturalismo), cioè dell’ordine armonico naturale che c’è, o ci sarebbe, se venisse rispettato (o meglio nella misura in cui gli Stati lo rispettano, agendo in base a quello che lì è considerato l’ordine naturale delle relazioni internazionali), nel suo trattato del 1625 De jure belli ac pacis (“Sul diritto della guerra e della pace”). Questa pace ci sarebbe, o c’è, in base a principi, cercati dall’autore, tali da valere – a suo dire – “anche se Dio non esistesse”. L’autore era un fervente calvinista, ma faceva tale premessa (per lui per assurdo), per sottolineare che stava svolgendo ragionamenti stringenti, fondati sulla scienza e non sulla fede. Nel suo ragionamento lo stato naturale delle relazioni umane non è la guerra, ma la pace. La guerra viola l’ordine naturale, come ogni evento che rompa l’ordine naturale, pure nella vita (come una sorta di malattia grave, o gravissima, o mortale). L’ordine pacifico dovrà poter sussistere per quanto più tempo sia possibile e, ove sia rotto dalla guerra, tornare il più presto possibile ad affermarsi, tramite trattative, arbitrati e così via.
Sarà un ordine durevole – sempre secondo Grozio – se i contendenti potenziali, che ovviamente ci sono sempre, rispetteranno talune condizioni, la principale delle quali è il rispetto dei patti tra Stati (“pacta sunt servanda”, “i patti debbono essere salvati”, cioè rispettati; e guai, per la pace, a considerarli “pezzi di carta”, come li disse il cancelliere tedesco Theobald von Bethmann Hollweg nell’estate 1914, con conseguenze ben note). Inoltre, in caso di guerra, dovranno essere almeno salvaguardati taluni criteri, come il tener fuori i popoli, i non combattenti in campo, dal conflitto. Allora era del tutto possibile, tanto che ancora il grande sovrano e condottiero prussiano Federico II di Prussia, che era anche un fine intellettuale, protagonista, oltre un secolo dopo Grozio, della devastante guerra dei sette anni del 1756/1763, diceva di fare di tutto perché i suoi sudditi non si accorgessero neanche di essere in guerra. Da secoli non è più così, sol che si pensi a bombardamenti e stermini specie dalla Seconda guerra mondiale in poi.
Un altro criterio per favorire la pace, anche malgrado le guerre, sarebbe consistito nell’evitare, anche in guerra, gli atti odiosi contro il nemico, come assassinii proditorii, avvelenamenti o torture, che avrebbero lasciato strascichi di odio, e di volontà di vendetta, anche a guerra conclusa.[2]
Al polo opposto di Grozio sta la dottrina dell’inglese Thomas Hobbes. Come altri grandi pensatori politici, quali Machiavelli oppure Carl Schmitt (che ce lo ha ricordato), Hobbes era un sostenitore del pessimismo antropologico, cioè della natura “cattiva”, ma in scienza è meglio dire belluina (da animale da preda), dell’uomo. Infatti tutti ricordano – in genere gli studenti universitari erano colpiti solo da questo punto, pur riuscendo a fare confusioni persino nell’interpretarlo – il detto “Homo homini lupus” (“l’uomo è lupo all’uomo”, frase che non è nel Leviatano di Hobbes del 1651 come tutti credono e persino insegnano, ma nel libro di Hobbes L’uomo, del 1658, compreso nel trattato in tre tomi Elementi di filosofia)[3]: formula che non sta a significare che l’uomo si comporta come il lupo, che oltre a tutto è un animale altamente sociale come il suo discendente, il cane, almeno tra i suoi simili, ma come fa (o farebbe) il lupo con l’uomo.
Si capisce che nell’impostazione di Hobbes (e derivati) non possa esservi concettualmente diritto naturale alla pace, né dentro un Paese né tra Paesi, ma una specie di naturale “guerra di tutti con tutti” (“bellum omnium contra omnes”), che porterebbe all’autodistruzione del genere umano se questi predatori asociali che siamo, o saremmo, noi umani, essendo sì predatori, ma intelligenti, non avessero inventato un essere straordinario (in latino un “monstrum”) salvifico (simboleggiato tramite la figura biblica del Leviatano): lo Stato. Questo è un ente artificiale, nel senso che in natura non c’è affatto. Come giustamente il pensiero anarchico, o libertario, sottolinea sempre, lo Stato non c’è affatto sempre stato. Non c’è sempre stato questo ente “artificiale” che monopolizza tutta la violenza territoriale innanzitutto (guai a praticarla al suo posto come Stato nello Stato, perché sarebbe, e anzi è, necrosi dello Stato, dove accade non in modo eccezionale, ma prevalente). Monopolizzando “tutta” la violenza territoriale, che solo esso può legittimamente usare, lo Stato impone la legge, che tutti sovrasta, e così difende innanzitutto il naturale diritto dei cittadini alla vita (il vero diritto naturale, che in natura non è rispettato, nel senso che quello che tutti vogliono è restare in vita; e fanno lo Stato, si mettono insieme tramite accordo o tacito o scritto, cioè contratto, per tanti motivi, ma soprattutto “per la pelle”, e se lo stato non la garantisce, non è uno Stato o non lo è più, in attesa di esserlo o tornare ad esserlo). Il fare lo Stato per i singoli sarebbe stato e sarebbe sempre un ben vantaggioso patto, o “contratto” (contrattualismo), senza il quale i supposti egoisti violenti per natura che saremmo, tornerebbero a massacrarsi, come accadrebbe quando per eventi eccezionali, come disfatte o rivoluzioni, lo Stato si sfascia. Also sprach Hobbes.
Max Weber parlerà dello Stato come del solo ente ad avere, se è tale, il monopolio della violenza “legittima” (in nome della legge).
In generale lo si dice per tutta la Storia, ma vale tanto più con lo Stato che diciamo “moderno”, Stato in senso forte o pieno in quanto dotato di apparati burocratico amministrativi e soprattutto repressivi, armati, stabili (la macchina dello Stato), senza i quali ogni legge sarebbe vana, e ogni Paese sarebbe a rischio d’invasione.
Il problema, però, è che lo Stato è sempre territoriale, mentre un ente super partes che imponga la legge a tutti gli Stati, al di sopra dei confini, non c’è. Nel tempo sono sì state create strutture conciliatrici permanenti, che dovrebbero frenare i conflitti tra gli Stati, come la Società delle Nazioni, e poi le Nazioni Unite, o la Corte Internazionale dell’Aja, ma non avendo la possibilità d’imporsi con la forza come fa ogni Stato punendo i trasgressori della legge, il loro peso è limitato. Per la gran parte gli Stati vivono ancora, del tutto, o quantomeno in grandissima parte, in un perfetto stato di natura, cioè – per Hobbes o ragionatori analoghi – vivono homo homini lupus e in condizione di “bellum omnium contra omnes” (“guerra di tutti contro tutti”). Non si dilaniano certo di continuo, ma se il contrasto si radicalizza, storicamente lo risolvono con la violenza, cioè attraverso la guerra.
Facciamo un primo punto, per riprendere poi il ragionamento, sempre riferito, come sto per fare, agli “attori” d’oggi, ma procedendo “per tappe” anche nei riferimenti alla storia del pensiero politico.
Diciamo subito che il pensiero democratico, ma in gran parte pure rivoluzionario, è più groziano che hobbesiano. Ha una visione meno, o per nulla, pessimistica della natura umana, e per ciò crede di più nella pace interna legata al volontario rispetto dei patti (o leggi) e nella pace tra Stati tramite rispetto normale dei patti di pace (il groziano “pacta sunt servanda”) o patti permanenti, in cui si condivide la sovranità, come si vedrà (confederalismo o federalismo), o addirittura crede nell’autogoverno dei popoli e tra i popoli.
Ma perché queste guerre accadono?
– Perché qualcuno regola i conflitti territoriali tramite l’invasione.
La prima caratteristica dei sistemi autoritari è il violare i patti che stabiliscono che un dato territorio, in base all’ultimo patto tra Stati che era stato fatto, è di A e non di B. Ma ecco che a un certo punto un dittatore – modernizzatore o reazionario, in genere comunque autoritario e nazionalista – dice – scatenando la sua forza come Brenno quando gettò la sua spada sulla bilancia[4] – “Questo è mio”. Egli cambia la geografia politica del mondo. La muta con la forza o limitatamente oppure invadendo sempre nuovi paesi. Poi sarà difficile stabilire se fosse stato forzato o meno a farlo, ma lui “lo fa”: si chiami Napoleone o Hitler, il quale ultimo procedette per colpi del genere finché glielo lasciarono fare; o Saddàm Hussein, il dittatore irakeno, quando invase il Kuwait nella prima guerra del Golfo del 1990 (pagata nella seconda guerra del Golfo, scatenata dagli Stati Uniti contro l’Iraq, durata dal 2003 al 2011, fatta con una scusa criminale come quella delle inesistenti “armi di distruzione di massa”, e terminata con un’impiccagione tragica piuttosto barbara del dittatore irakeno, che a caldo qui io a suo tempo ho commentato[5]). Vale certo per Putin invasore dell’Ucraina.
In genere quest’attacco all’aggressore, che poi finisce quasi sempre con il suo ammazzamento, non è compiuto dall’aggredito, che in partenza è sempre più debole o considerato tale, ma da altri Stati che non consentono l’invasione, specie di aree considerate per molti motivi fondamentali per loro: perché il consentirlo, magari per timore del peggio del peggio, costituirebbe un precedente (come la storia ha mostrato cento volte). Lo si ritiene specie quando l’invasore perde il pelo ma non il vizio di compiere nuove invasioni, perché il consentirlo creerebbe un precedente per quell’invasore o suoi simili, con nocumento della geografia politica del mondo e dell’equilibrio tra gli Stati. Quando una potenza diventa troppo forte tramite l’espansionismo militare, gli altri Stati ristabiliscono l’equilibrio attaccando l’espansionista e provando a ricreare un ordine stabile.
Mi pare evidente che Putin abbia ragionato e ragioni in modo hobbesiano, anche se naturalmente dietro l’autoritarismo russo, come si vedrà, ci sono autori più recenti, tra cui Carl Schmitt, per i quali però Hobbes rimaneva un grande maestro “sempre attuale”. Comunque quelli che indulgono alle invasioni, oltre a tutto in modo reiterato, hanno poca fiducia in un ordine che non poggi sulla forza, all’interno dello Stato, e tra gli Stati; e un certo pessimismo sulla capacità dei cittadini di vivere decentemente senza autoritarismo; e credono che sia possibile variare la geografia politica tra Stati con atti di forza adeguati fatti a tempo debito, quando la probabilità di reazione bellica da parte di potenti avversari sembri minima. Certo uno degli autori dell’ideologo di Putin, Aleksander Gelevic Dugin, è Hobbes. E comunque Hobbes è l’autore di Carl Schmitti, attualissimo da quelle parti.
In fondo questo comportamento di Putin era prevedibile, e infatti era stato previsto, tanto che gli ucraini risultarono questa volta, dal febbraio 2022 a oggi, pronti a respingere l’assalto russo, previsto di pochi giorni o settimane dai russi stessi. Anche se Putin e la Russia avevano e hanno pure loro ragioni, come si vedrà.
Più difficile da decifrare è il caso di Israele nella guerra in corso in Medio Oriente. Per ora non voglio fare un lungo discorso su guerra e pace in Medio Oriente. Sin dalla guerra dei sei giorni del 1967 tra Israele e i paesi arabi coalizzati (allora avevo ventisei anni), mi capitò di riscrivere l’opuscolo, allora troppo sbilanciato in senso filoarabo, di un caro amico ora novantaduenne, per conto della Federazione del PSIUP di Alessandria[6]. Da allora sono accadute tante cose complicatissime. Gli israeliani hanno visto prevalere via via le tendenze più nazionalistiche, volte ad accentuare l’ebraicità dello Stato di Israele a scapito dei palestinesi (interni o contigui). Questi palestinesi sono sempre stati tra più fuochi, naturalmente a partire da quelli sempre ultra-invasivi israeliani (“coloni” e non). Da un lato stava e sta un’Autorità Palestinese, di Arafat e dei successori sino ad Abu Mazen, via via corrottasi, e che non fa libere elezioni da tanto tempo; dall’altro un movimento eversivo, o partito armato, più legato al popolo (Hamas), che però non ha mai riconosciuto lo Stato di Israele, che vorrebbe anzi distruggere. I palestinesi si sono pure trovati nel bel mezzo di un contrasto tra musulmani molto simile a quello tra cattolici e protestanti nel XVI e XVII secolo in Europa: quello tra i musulmani sunniti intorno all’Arabia Saudita (la terra di Maometto), e quello degli sciiti in Iran (che si rifanno al genero di Maometto, Alì, considerato come l’erede-continuatore del Profeta), sciiti che hanno trovato in Komeini una specie di Lutero musulmano: un islamismo iraniano intriso di un interessante misticismo orientaleggiante molto simile al miglior neoplatonismo, però fiorito all’ombra di una teocrazia particolarmente oppressiva, specie per le donne.
Ma quello che sembra il punto chiave è che la “democratura” – il mix tra dittatura e democrazia che sembra aggirarsi per il mondo nell’era della globalizzazione e della crisi delle vecchie superpotenze – in questi anni sembra prevalere pure in Israele, che pure resta l’unica vera democrazia in quell’area del mondo. Non a caso il leader del primo partito israeliano, il primo ministro, Benjamin Netanyahu, ha dovuto affrontare processi per corruzione, e pare restare in sella solo per via della guerra in corso, che avrebbe interesse a far durare e dilagare, passando alla Storia come quello che “ha messo a posto” i palestinesi una volta per tutti, trasformandoli in minoranza nazionale subalterna e ormai innocua, invece di passare alla prigione. Ma soprattutto egli stesso sembra espressione della stessa tendenza nazionalista di tipo spinto che come uno spettro da anni si aggira di nuovo per il mondo.
Tuttavia, nel mio piccolo, metterei pure in guardia da una lettura troppo riduttiva delle ragioni che spingono dall’ottobre 2024 a una guerra devastante sanguinaria e condotta proprio con tutti i mezzi che Grozio aveva considerato letali dal 1625: guerra soprattutto contro la popolazione civile, segnata pure da assassinii politici (addirittura di negoziatori di pace). Ogni volta che la guerra è spiegata prevalentemente cercando il matto di turno, siamo quasi matematicamente certi che ci si sta sbagliando, scambiando un elemento importante, ma ben parziale, con la sostanza.
Ma come ha potuto accadere, sia nell’area che internazionalmente?
Nell’area ha potuto accadere per l’affermarsi del nazionalismo aggressivo al potere, tanto nel potentissimo Stato d’Israele che tra i palestinesi (che altro è Hamas stesso?), ma, soprattutto, perché ogni nazionalismo del mondo alza la cresta in presenza della grande crisi che ha travolto tanti anni fa, tra il 1989 e il 1991, la superpotenza sovietica, e oggi mina quella americana (ossia dalla fine del duopolio russo-americano sul mondo, del 1991, in poi). Gli Stati Uniti, poco tempo fa hanno dovuto riconoscere la sconfitta da parte di islamici spacciatori di eroina e dai costumi in parte medievali dell’Afghanistan, e oggi dimostrano tutta la loro debolezza non riuscendo a imporre un orientamento più dialogico ad Israele. Ma ciò ci riporta, sia sul piano della storia delle idee politiche che sul piano pratico-politico alle cose che favoriscono o danneggiano la pace e la guerra nel mondo. Come di seguito proverò a spiegare.
Che cosa impedisce la pace, sia secondo il pensiero politico che sui due scenari di guerra che sto cercando di esplorare, sia pure minimamente?
Proverò ora a spiegarlo.
(Segue)
di Franco Livorsi
(La lunga notte dell’Occidente, capitolo II, 22 agosto 2024).
[1] F. LIVORSI, La lunga notte dell’Occidente, “Città Futura on-line”, 7 agosto 2024.
[2] U. GROZIO, Prolegomeni al diritto della guerra e della pace, a cura di G. Fassò, Zanichelli, Bologna, 1949. Ma si vedano pure le pagg. su Grozio nel mio libro: I concetti politici nella storia. Dalle origini al XXI secolo, Giappichelli, Torino, 2008, pp. 111-115.
[3] T. HOBBES, Leviatano, a cura di G. Miceli, La Nuova italia, Firenze, 1976, ma si veda pure, dello stesso: Elementi di filosofia. Il corpo – L’uomo, a cura di A. Negri, UTET, Torino, 1972; Elementi di filosofia sul cittadino. Dialogo fra un filosofo e uno studioso del diritto comune d’Inghilterra, a cura di N. Bobbio, UTET, 1959. Ma si veda pure: F. LIVORSI, I concetti politici nella storia, cit., pp. 115-120.
[4] Brenno, capo dei Galli “Senoni”, aveva messo a sacco Roma nel 390 a.C. Come risarcimento di guerra a favore dei suoi era stata stabilità una certa quantità d’oro, ma lo si pesò con bilancia truccata a favore dei Galli, e i Romani protestarono. Allora Brenno posò sulla bilancia anche la sua spada, pronunciando la famosa sentenza “Vae victis” (“Guai ai vinti!”). L’episodio è raccontato nella vasta opera “Ab urbe condita” (“Dalla fondazione della città”, detta “Storia di Roma”, di Tito Livio, composta dal 26 a.C. al 9 a. C. al libro V, par. 48. L’opera in molti volumi si può leggere pure, con testo latino a fronte, presso la Biblioteca Universale Rizzoli di Milano, nel2008, in tredici volumi.
[5] Si vedano pure: F. LIVORSI, Il Golfo e il governo del mondo, “Critica Sociale”, gennaio 1991, pp. 77-83. E, quando fu impiccato Saddam Hussein: F. LIVORSI, La morte annunciata di Saddàm Hussein, “Città Futura on-line”, 31 dicembre 2006.
[6] Il PSIUP e il Medio Oriente, “filorosso”, Alessandria, a. IV, n. 32, 22 agosto 1967. Si tratta di un opuscolo ciclostilato di dieci pagine, che indica nella prima anche il nome mio e quello di questo mio vecchio amico. Ora nel mio Archivio.
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