La lunga notte dell’Occidente

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La lunga notte dell’Occidente

di Franco Livorsi

Vorrei provare a scrivere nuovamente – come già nella serie qui a suo tempo indicata come “Filosofia del socialismo”, e poi da me ripresa e messa a punto nel libro Il Rosso e il Verde. L’idea della liberazione sociale, ecologica e spirituale dal XIX al XXI secolo (2021)[1] – una serie di articoli tra loro connessi. In tal caso, però, vorrei farlo con un più forte approccio politico, ma anche politologico, più che non storico-politico.[2] Il focus dovrebbe insomma essere il mondo, e in esso l’Italia, qui ed ora: insomma, il mondo che va dal presente al futuro. Il passato, più o meno remoto, in questo caso dovrebbe insomma certo entrarvi, perché non se ne può mai fare a meno, se si vuole capire qualcosa (e quindi agire con efficacia), ma dovrebbe entrarvi di scorcio.

Punto di partenza. Viviamo in una situazione che in altre epoche, ai poli opposti della politica, avrebbe aperto chissà quali speranze redentive, in presenza del crollo di tutto un mondo, che palesemente è “in disfacimento”. Negli anni direttamente anteriori e direttamente posteriori alla Grande Gerra del 1914-1918, ad esempio, era stato così. Erano stati anni di crisi del vecchio ordine mondiale, ma anche di attesa di un ordine nuovo o di tipo rivoluzionario, democratico e sociale o di tipo nazionale-imperiale o anche di democratizzazione del vecchio continente.

Intanto era stato così nel mondo politico ideale socialista. Fu così quando l’austriaco-tedesco Rudolf Hilferding nel 1910 scrisse Il capitale finanziario, oggi più attuale che mai. Sosteneva che ormai il capitalismo contemporaneo non era più imprenditoriale, ma incentrato sul mondo delle banche, il cui potere cresceva a dismisura, anche perché quando le banche erano in difficoltà era giocoforza salvarle per non far fallire, con esse, l’economia complessiva cui inerivano e che dominavano: creando però, con ciò, oligopoli finanziari sempre più grandi e incontrollabili, a lungo andare economicamente malsani e insostenibili. Hilferding era un economista marxista socialdemocratico riformista. Ma tre anni dopo il suo famoso libro, un’altra protagonista del marxismo e del socialismo, in tal caso rivoluzionario, Rosa Luxemburg, scrisse L’accumulazione del capitale. Sosteneva che il capitalismo ricava i profitti dal mercato, ma che questo richiede mercati di sbocco delle merci sempre nuovi, che quando verranno a mancare, con capitalismo arrivato pure nelle zone più remote del mondo, ingenereranno necessriamente “il crollo” del sistema capitalistico, “crollo”, più o meno automatico, certo accelerato per lei dalla rivoluzione proletaria. Per parte sua Lenin nel 1916, in parte concorde e in parte discorde da Hilferding e Rosa Luxemburg, in L’imperialismo fase suprema del capitalismo sosteneva, classicamente rispetto a Marx, che il dominio del capitale finanziario s’integrava pur sempre con quello imprenditoriale, ingenerando monopoli ed oligopoli anche industriali (che ora chiamiamo multinazionali), ma al tempo stesso unificando suo malgrado forze sociali proletarie altrettanto vaste e conflittuali, che nel corso della grande crisi dell’ordine del capitalismo mondiale rappresentata dalla Grande Guerra avrebbero necessariamente innescato la rivoluzione proletaria internazionale (di cui la Rivoluzione d’ottobre sarebbe stata considerata, poi, l’antefatto). Tutti questi leader e pensatori socialisti e marxisti (o, come Lenin, dal 1918 pure comunisti) sentivano imminente – mentre si cominciavano a udire tamburi di guerra o già risuonavano – la fine del capitalismo (che però è sempre qua).[3]

Ma la Grande Guerra era sentita invece non già come campana a morto del capitalismo, bensì come aurora di un ordine mondiale nuovo, che sarebbe sorto dal conflitto perenne, ma ormai esplosivo, tra gli Stati “nazionali” per il dominio quanto maggiore possibile del mondo, come sostenevano i teorici dello Stato-potenza, quali l’importante pensatore politico tedesco Heinrich von Treitschke, autore di Politica. Ogni nazionalismo sosteneva il primato preteso civilizzatore e superiore del proprio Stato (Impero) nel mondo, nel caso di Treitschke nella “logica” della politica dell’impero tedesco “guglielmino” degli Hoenzollern compendiata nel famoso principio “la Germania sopra tutto” (Deutschland über Alles).[4] Le radici remote del mito nazista del Reich “millenario”, ossia di un impero autoritario mondiale durevole che risolva in senso etnocentrico e con la forza i problemi di unificazione mondiale sono lì. Ma anche gli altri grandi imperi del mondo (e i loro corifei dottrinari), dal grande conflitto si attendevano almeno un decisivo rafforzamento, come l’impero asburgico austriaco, l’impero ottomano turco, da tanti anni in crisi, e l’impero russo degli zar Romanov.

In quegli anni furono pure ben presenti anche i puri democratici, in Italia interventisti di sinistra, che si attendevano da una Grande Guerra il crollo di tutti gli imperi del mondo, più o meno autoritari, da cui sarebbe sorto, secondo loro, un mondo di libere nazioni sorelle, come aveva pensato Mazzini (mentre poi arrivarono Hitler e Stalin). Allora lo pensarono democratici di sinistra sostanzialmente mazziniani come Gaetano Salvemini, ma tra il 1914 e il 1919 pure come l’ex socialista Mussolini (dopo la rotta di Caporetto e soprattutto dopo la pace di Versailles sempre più risucchiato dal “nazionalismo”), e pure come Leonida Bissolati, Ivanoe Bonomi, Giovanni Amendola, Pietro Nenni, Piero Gobetti e Carlo e Nello Rosselli. Ma pure il presidente americano Wilson nutriva simili illusioni sulla fine degli imperi autocratici, pur non avendo niente in comune con i mazziniani. E, forzando un poco le cose si può vedere nel Partito Democratico americano un approccio similare, che vede sempre nel crollo di Stati o imperi autoritari la “missione” degli Stati Uniti, anche se la rovina di vecchi Stati autoritari consolidati spesso ha prodotto risultati disastrosi.[5]

Comunque qui, per ora, in prima approssimazione, a me premeva sottolineare che in tutti gli anni immediatamente anteriori e posteriori alla Grande Guerra si era fatto un gran discorrere, con amore e odio, oppure con entrambi i sentimenti, di guerra e di rivoluzione per tutto il proprio “mondo”. Del resto Marinetti nel 1909 aveva pubblicato il Manifesto del futurismo, in cui inneggiava al tempo stesso alla “guerra – sola igiene del mondo”, e perciò al “militarismo”, al “patriottismo”, ma pure al “gesto distruttore dei libertari”, e alle “belle idee per cui si muore” (ma anche, ahinoi, al “disprezzo della donna”). Inneggiava alle “grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa”, alle “maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne”[6].

Dopo un ordine mondiale che, pur tra una guerra o guerricciola circoscritta e l’altra, era durato un secolo (dal congresso di Vienna del 1815), tanta gente non ne poteva proprio più. La stessa belle époque, che volgeva al termine, pareva marcia, vile e socialmente ingiusta: una via di mezzo tra le farse di Feydeau e il mondo dei padroni delle ferriere. Anche il giolittismo, in Italia, suscitava nei due poli opposti reazioni del genere.

Thomas Mann nelle prime pagine del Doktor Faustus (1947) ha descritto da par suo quella strana atmosfera allucinata, in cui tante persone, stufe del mondo pregresso, prima della Grande Guerra si dicevano: “Ah! Se ci fosse almeno una bella guerra!”[7] Insomma, c’era tutt’intorno una straordinaria miscela esplosiva, che portò direttamente all’immane tragedia della Grande Guerra (da una parte) e alla rivoluzione proletaria in Russia del 1917, che sembrava dover dilagare in tutto il mondo (dall’altra): miscela esplosiva che però poi portò anche alla rivoluzione “all’incontrario”, cioè alla rivoluzione contro la rivoluzione, vale a dire ai fascismi, in Italia dal 1922 al 1943/45 e in Germania dal 1933 al 1945 (per non parlare di Ungheria, Romania, Spagna e Portogallo).

Oggi è persino evidente che da anni viviamo in una condizione simile a quella descritta in relazione agli anni tra 1909 e 1914, anche se su ciò dovremo tornare. Il punto chiave però è che oggi ci sono nel mondo TUTTI gli elementi di crisi richiamati in riferimento all’anteguerra del 1914 senza nessuna Rivoluzione o Grande Riforma all’orizzonte (anche se sul versante opposto – certo, almeno per ora, in contesto democratico – a destra l’acqua bolle forte). Su ciò potrei dire molte cose, ma per ora mi fermo, perché in questo primo momento volevo solo mettere in luce un contesto. Sostengo solo, preliminarmente al discorso che intendo svolgere nei prossimi mesi, che “per capirci qualcosa”, ma al fine di uscire dalla situazione tragica che sta attanagliando il mondo, oggi come oggi dovremmo – tutti insieme, e uno per uno – provare a rispondere a tre grandi interrogativi “urgenti”:

I) Perché non riusciamo a porre fine alle due guerre pericolose e disumane presenti e più pericolose che mai, come la guerra in Medio Oriente, che rischia ogni giorno di coinvolgere l’Iran e quindi di diventare guerra in tutta una vasta area chiave del mondo, e come quella russo-ucraina: due guerre che, oltre a tutto verificandosi insieme, contengono rischi di terza guerra mondiale scatenata, necessariamente anche nucleare?

II) Perché, nella grande crisi in questione (e non), tutto il mondo sembra pericolosamente andare verso forme varie di nazionalismo populista invece che di alternativa democratica riformatrice o rivoluzionaria?

III) Perché la sinistra, o come diavolo vogliamo chiamarla, appare dappertutto o sulla difensiva o addirittura in grave ripiegamento?

Tutti questi tre quesiti dovremo cercare di affrontarli tenendo sempre d’occhio la situazione italiana, che non è la più importante del mondo, ma è la “nostra”.

Questi sono i nodi che mi riprometto via via di provare a sciogliere, ben inteso a confronto con tutti gli altri miei contemporanei che vi riflettono.

di Franco Livorsi

  1. L’opera uscì presso Golem Edizioni, a Torino, nel 2021. Nel testo a stampa, oltre a limare tutto, esclusi pure taluni capitoli, che un lettore eventualmente interessato potrà scovare nel sito di Città Futura.
  2. L’approccio “politico” è legato alla comprensione delle forze in campo in vista di un’azione da determinare a livello sociale e politico istituzionale. L’approccio politologico, detto pure “scientifico politico” (o anche di filosofia “della” politica), che ho sempre sentito affine, è quello che nella politica di tutto un mondo, o perenne, o quantomeno contemporaneo, cerca i dinamismi costanti, cioè le “leggi” o costanti che lo tengono in piedi, come nell’elitismo di Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto, o in Raymond Aron, o nelle analisi di Giovanni Sartori, e in Norberto Bobbio. L’approccio storico vuole ricostruire il passato, sicché anche quando si concentri sul presente lo fa spiegandolo come risultante di quel che era accaduto prima; si dà non solo in riferimento al divenire collettivo, ma pure in ambiti più circoscritti, come – in relazione a quello che era il mio campo come docente universitario – la storia del pensiero politico o delle idee o dottrine politiche.
  3. R. HILFERDING, Il capitale finanziario (1910), a cura di E. Brancaccio e L. Cavallo, Mimesis, Milano, 2011; R. LUXEMBURG, L’accumulazione del capitale (1913), tr. di B. Maffi e Introduzione di P. Sweezy, Einaudi, Torino, 1968; LENIN, L’imperialismo fase suprema del capitalismo (1916), in “Opere complete”, 1966, vol. 22.
  4. H. von TREITSCHKE, La politica, Laterza, Bari, 1918, quattro volumi. Treitschke era pensatore della fine del XIX secolo. Questa tendenza, in un complesso rapporto di connivenza e superamento con imperialismo guglielmino e poi col nazismo, è al centro della vasta e complessa opera di Friedrich MEINECKE, con particolare riferimento a: Cosmopolitismo e Stato nazionale. Studi sulla genesi dello Stato nazionale tedesco, La Nuova Italia, Firenze, 1930, e poi1975, due volumi e La catastrofe tedesca (1946), La Nuova Italia, 1948. Ma si veda pure: F. TESSITORE, Introduzione a Meinecke, Laterza, 1998.
  5. Per questi aspetti è importante il primo vol. della biografia di Mussolini di R. DE FELICE: Mussolini. Il rivoluzionario (1883-1920), Einaudi, Torino, 1965. Ma si veda: E. GARIN, Cronache di filosofia italiana (1900-1943), Laterza, 1959. Per la storia culturale del periodo, rimane fondamentale: H. STUART HUGHES, Coscienza e società. Storia delle Idee in Europa dal 1890 al 1930 (1958), Einaudi, 1967.
  6. F. T. MARINETTI, Manifesto del Futurismo (1909), “Figaro”, Parigi, 20 febbraio 1909 e, dello stesso, in: “Opere. I. Teoria e innovazione futurista, Prefazione di A. Palazzeschi, Mondadori, Milano, 1972, pp. 7-13.
  7. T. MANN, Doktor Faustus. La vita del compositore tedesco Adrian Leverkün, narrata da un amico (1947), Mondadori, Milano, 1961.

 


Perché queste guerre?

di Franco Livorsi

Pubblicato il 22/08/2024

Nella mia riflessione precedente, La lunga notte dell’Occidente [1], mi sono ripromesso di utilizzare le molte cose che ovviamente so e debbo sapere come professore ordinario di “Storia delle dottrine politiche” dell’Università di Milano (a riposo dall’ottobre 2010), e come autore di molte opere, in modo parco: più che altro come sfondo concettuale. Si tratta di riferimenti necessari, ma il focus ha da essere il presente come storia. La storia delle idee politiche va bene, insomma, ma in funzione della politica, tanto più in riferimento alle due guerre in corso, che incidono sulla storia del mondo e sulla vita di tutti noi come non mai dopo il 1945.

  Certo di guerre se ne sono fatte sempre, e spargendo il sangue a fiumi, dalle origini della Storia in qua (diciamo pure da seimila anni almeno). Ma la memoria prevalente è corta. Non solo ci dimentichiamo di quel che è capitato e anche oggi capita in Africa e da tante altre parti, come se ci fossero morti di serie A o B o C, ma ci siamo già pure scordati della seconda guerra dell’Iraq contro Saddàm Hussein, fatta – usando la faccenda come giustificazione per scatenare il conflitto – sostenendo l’esistenza di armi di distruzione di massa nucleari che il dittatore irakeno avrebbe avuto, e che invece non c’erano, e dimenticando che di conseguenza morì, dopo un lungo conflitto durato dal 2003 al 2011, oltre un milione di persone. Così vuole la “nostra” pelosa coscienza.

   Comunque oggi siamo a una nuova guerra in Medio Oriente e ad una guerra tra Russia e Ucraina, che sono guerre diverse dalle tante in corso nel mondo perché se l’Iran venisse attratto in campo aperto, trascinato in guerra, e la Russia dovesse veder invaso il suo Paese dai suoi “invasi”, la terza guerra mondiale, non “a pezzi” come dice il papa, ma in senso stretto, si scatenerebbe. Bombe atomiche tattiche, cosiddette di portata limitata, potrebbero scoppiare da un momento all’altro. Sono sotto attacco ucraino persino centrali nucleari. Poi si piangerà come fontane sul latte versato, come dopo l’esplosione di un reattore nucleare a Chernobyl, in Ucraina, il 16 aprile 1986, che ebbe effetti nefasti tumorali sin qui. Ma questa volta sarà stata pure colpa nostra, poiché abbiamo lasciato che il conflitto russo-ucraino degenerasse sino a diventare nocivo per tutti, invece di spingere le due parti al compromesso, il quale oltre a tutto alla fine ci sarà e sarà come quasi sempre accade insoddisfacente per tutti.

   Naturalmente, sia ciò giusto o meno, come studioso, e non solo come semplice cittadino che legge i giornali, scarterei le spiegazioni troppo di superficie, di cui si pascono o i troppo ingenui politicamente, oppure i troppo furbi. Ad esempio l’idea che il finimondo che si è scatenato in Medio Oriente, che ha già fatto morire oltre quarantamila palestinesi in gran parte civili, e per parte non piccola donne e bambini, sia scoppiato, e soprattutto seguiti, perché le bande criminali di Hamas il 7 ottobre 2023 hanno compiuto, com’è innegabile, una strage orrenda e senza attenuanti, di ben 1200 giovani israeliani innocenti che facevano festa, e rapito, nella stessa occasione, 253 israeliani; oppure che la guerra russo-ucraina sia tutta spiegabile attraverso la proditoria invasione dell’Ucraina, che pure c’è stata e c’è, da parte di un dittatore russo, Putin, descritto più o meno come il generale pazzo dei film western che vuole per forza far strage di indiani, non mi pare credibile. Questi terribili crimini scatenanti, come la grande strage di israeliani innocenti o la proditoria invasione dell’Ucraina da parte dei russi, sono stati reali, ma debbono esserci cause più profonde. Altrimenti dovremmo pensare che l’attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914 in cui l’arciduca Francesco Ferdinando e consorte furono uccisi da un nazionalista serbo sia stato la causa della Grande Guerra, e che la questione del “corridoio di Danzica” sia stata la causa profonda della Seconda guerra mondiale del 1939. Sembra evidente che strage degli innocenti israeliani e attacco proditorio all’Ucraina siano stati casus belli o magari concause, ma che “sotto” debbano esserci ragioni più profonde.

   A questo punto vorrei provare a riferire ai decisori di oggi alcune prime cose che sappiamo su guerra e pace attingendo alla storia del pensiero politico.

   Le premesse sono individuabili sia in senso positivo che negativo, cioè sia in relazione a un ordine cosiddetto “naturale” infranto che a un disordine “naturale” scatenato.

   Il primo importante filosofo su guerra e pace tra gli Stati fu l’olandese Ugo Grozio (Hulg Van Groot), uno dei grandi teorici del diritto di natura (giusnaturalismo), cioè dell’ordine armonico naturale che c’è, o ci sarebbe, se venisse rispettato (o meglio nella misura in cui gli Stati lo rispettano, agendo in base a quello che lì è considerato l’ordine naturale delle relazioni internazionali), nel suo trattato del 1625 De jure belli ac pacis (“Sul diritto della guerra e della pace”). Questa pace ci sarebbe, o c’è, in base a principi, cercati dall’autore, tali da valere – a suo dire – “anche se Dio non esistesse”. L’autore era un fervente calvinista, ma faceva tale premessa (per lui per assurdo), per sottolineare che stava svolgendo ragionamenti stringenti, fondati sulla scienza e non sulla fede. Nel suo ragionamento lo stato naturale delle relazioni umane non è la guerra, ma la pace. La guerra viola l’ordine naturale, come ogni evento che rompa l’ordine naturale, pure nella vita (come una sorta di malattia grave, o gravissima, o mortale). L’ordine pacifico dovrà poter sussistere per quanto più tempo sia possibile e, ove sia rotto dalla guerra, tornare il più presto possibile ad affermarsi, tramite trattative, arbitrati e così via.

   Sarà un ordine durevole – sempre secondo Grozio – se i contendenti potenziali, che ovviamente ci sono sempre, rispetteranno talune condizioni, la principale delle quali è il rispetto dei patti tra Stati (“pacta sunt servanda”, “i patti debbono essere salvati”, cioè rispettati; e guai, per la pace, a considerarli “pezzi di carta”, come li disse il cancelliere tedesco Theobald von Bethmann Hollweg nell’estate 1914, con conseguenze ben note). Inoltre, in caso di guerra, dovranno essere almeno salvaguardati taluni criteri, come il tener fuori i popoli, i non combattenti in campo, dal conflitto. Allora era del tutto possibile, tanto che ancora il grande sovrano e condottiero prussiano Federico II di Prussia, che era anche un fine intellettuale, protagonista, oltre un secolo dopo Grozio, della devastante guerra dei sette anni del 1756/1763, diceva di fare di tutto perché i suoi sudditi non si accorgessero neanche di essere in guerra. Da secoli non è più così, sol che si pensi a bombardamenti e stermini specie dalla Seconda guerra mondiale in poi.

   Un altro criterio per favorire la pace, anche malgrado le guerre, sarebbe consistito nell’evitare, anche in guerra, gli atti odiosi contro il nemico, come assassinii proditorii, avvelenamenti o torture, che avrebbero lasciato strascichi di odio, e di volontà di vendetta, anche a guerra conclusa.[2]

   Al polo opposto di Grozio sta la dottrina dell’inglese Thomas Hobbes. Come altri grandi pensatori politici, quali Machiavelli oppure Carl Schmitt (che ce lo ha ricordato), Hobbes era un sostenitore del pessimismo antropologico, cioè della natura “cattiva”, ma in scienza è meglio dire belluina (da animale da preda), dell’uomo. Infatti tutti ricordano – in genere gli studenti universitari erano colpiti solo da questo punto, pur riuscendo a fare confusioni persino nell’interpretarlo – il detto “Homo homini lupus” (“l’uomo è lupo all’uomo”, frase che non è nel Leviatano di Hobbes del 1651 come tutti credono e persino insegnano, ma nel libro di Hobbes L’uomo, del 1658, compreso nel trattato in tre tomi Elementi di filosofia)[3]: formula che non sta a significare che l’uomo si comporta come il lupo, che oltre a tutto è un animale altamente sociale come il suo discendente, il cane, almeno tra i suoi simili, ma come fa (o farebbe) il lupo con l’uomo.

   Si capisce che nell’impostazione di Hobbes (e derivati) non possa esservi concettualmente diritto naturale alla pace, né dentro un Paese né tra Paesi, ma una specie di naturale “guerra di tutti con tutti” (“bellum omnium contra omnes”), che porterebbe all’autodistruzione del genere umano se questi predatori asociali che siamo, o saremmo, noi umani, essendo sì predatori, ma intelligenti, non avessero inventato un essere straordinario (in latino un “monstrum”) salvifico (simboleggiato tramite la figura biblica del Leviatano): lo Stato. Questo è un ente artificiale, nel senso che in natura non c’è affatto. Come giustamente il pensiero anarchico, o libertario, sottolinea sempre, lo Stato non c’è affatto sempre stato. Non c’è sempre stato questo ente “artificiale” che monopolizza tutta la violenza territoriale innanzitutto (guai a praticarla al suo posto come Stato nello Stato, perché sarebbe, e anzi è, necrosi dello Stato, dove accade non in modo eccezionale, ma prevalente). Monopolizzando “tutta” la violenza territoriale, che solo esso può legittimamente usare, lo Stato impone la legge, che tutti sovrasta, e così difende innanzitutto il naturale diritto dei cittadini alla vita (il vero diritto naturale, che in natura non è rispettato, nel senso che quello che tutti vogliono è restare in vita; e fanno lo Stato, si mettono insieme tramite accordo o tacito o scritto, cioè contratto, per tanti motivi, ma soprattutto “per la pelle”, e se lo stato non la garantisce, non è uno Stato o non lo è più, in attesa di esserlo o tornare ad esserlo). Il fare lo Stato per i singoli sarebbe stato e sarebbe sempre un ben vantaggioso patto, o “contratto” (contrattualismo), senza il quale i supposti egoisti violenti per natura che saremmo, tornerebbero a massacrarsi, come accadrebbe quando per eventi eccezionali, come disfatte o rivoluzioni, lo Stato si sfascia. Also sprach Hobbes.

    Max Weber parlerà dello Stato come del solo ente ad avere, se è tale, il monopolio della violenza “legittima” (in nome della legge).

    In generale lo si dice per tutta la Storia, ma vale tanto più con lo Stato che diciamo “moderno”, Stato in senso forte o pieno in quanto dotato di apparati burocratico amministrativi e soprattutto repressivi, armati, stabili (la macchina dello Stato), senza i quali ogni legge sarebbe vana, e ogni Paese sarebbe a rischio d’invasione.

  Il problema, però, è che lo Stato è sempre territoriale, mentre un ente super partes che imponga la legge a tutti gli Stati, al di sopra dei confini, non c’è. Nel tempo sono sì state create strutture conciliatrici permanenti, che dovrebbero frenare i conflitti tra gli Stati, come la Società delle Nazioni, e poi le Nazioni Unite, o la Corte Internazionale dell’Aja, ma non avendo la possibilità d’imporsi con la forza come fa ogni Stato punendo i trasgressori della legge, il loro peso è limitato. Per la gran parte gli Stati vivono ancora, del tutto, o quantomeno in grandissima parte, in un perfetto stato di natura, cioè – per Hobbes o ragionatori analoghi – vivono homo homini lupus e in condizione di “bellum omnium contra omnes” (“guerra di tutti contro tutti”). Non si dilaniano certo di continuo, ma se il contrasto si radicalizza, storicamente lo risolvono con la violenza, cioè attraverso la guerra.

   Facciamo un primo punto, per riprendere poi il ragionamento, sempre riferito, come sto per fare, agli “attori” d’oggi, ma procedendo “per tappe” anche nei riferimenti alla storia del pensiero politico.

   Diciamo subito che il pensiero democratico, ma in gran parte pure rivoluzionario, è più groziano che hobbesiano. Ha una visione meno, o per nulla, pessimistica della natura umana, e per ciò crede di più nella pace interna legata al volontario rispetto dei patti (o leggi) e nella pace tra Stati tramite rispetto normale dei patti di pace (il groziano “pacta sunt servanda”) o patti permanenti, in cui si condivide la sovranità, come si vedrà (confederalismo o federalismo), o addirittura crede nell’autogoverno dei popoli e tra i popoli.

   Ma perché queste guerre accadono?

  – Perché qualcuno regola i conflitti territoriali tramite l’invasione.

   La prima caratteristica dei sistemi autoritari è il violare i patti che stabiliscono che un dato territorio, in base all’ultimo patto tra Stati che era stato fatto, è di A e non di B. Ma ecco che a un certo punto un dittatore – modernizzatore o reazionario, in genere comunque autoritario e nazionalista – dice – scatenando la sua forza come Brenno quando gettò la sua spada sulla bilancia[4] – “Questo è mio”. Egli cambia la geografia politica del mondo. La muta con la forza o limitatamente oppure invadendo sempre nuovi paesi. Poi sarà difficile stabilire se fosse stato forzato o meno a farlo, ma lui “lo fa”: si chiami Napoleone o Hitler, il quale ultimo procedette per colpi del genere finché glielo lasciarono fare; o Saddàm Hussein, il dittatore irakeno, quando invase il Kuwait nella prima guerra del Golfo del 1990 (pagata nella seconda guerra del Golfo, scatenata dagli Stati Uniti contro l’Iraq, durata dal 2003 al 2011, fatta con una scusa criminale come quella delle inesistenti “armi di distruzione di massa”, e terminata con un’impiccagione tragica piuttosto barbara del dittatore irakeno, che a caldo qui io a suo tempo ho commentato[5]). Vale certo per Putin invasore dell’Ucraina.

  In genere quest’attacco all’aggressore, che poi finisce quasi sempre con il suo ammazzamento, non è compiuto dall’aggredito, che in partenza è sempre più debole o considerato tale, ma da altri Stati che non consentono l’invasione, specie di aree considerate per molti motivi fondamentali per loro: perché il consentirlo, magari per timore del peggio del peggio, costituirebbe un precedente (come la storia ha mostrato cento volte). Lo si ritiene specie quando l’invasore perde il pelo ma non il vizio di compiere nuove invasioni, perché il consentirlo creerebbe un precedente per quell’invasore o suoi simili, con nocumento della geografia politica del mondo e dell’equilibrio tra gli Stati. Quando una potenza diventa troppo forte tramite l’espansionismo militare, gli altri Stati ristabiliscono l’equilibrio attaccando l’espansionista e provando a ricreare un ordine stabile.

   Mi pare evidente che Putin abbia ragionato e ragioni in modo hobbesiano, anche se naturalmente dietro l’autoritarismo russo, come si vedrà, ci sono autori più recenti, tra cui Carl Schmitt, per i quali però Hobbes rimaneva un grande maestro “sempre attuale”. Comunque quelli che indulgono alle invasioni, oltre a tutto in modo reiterato, hanno poca fiducia in un ordine che non poggi sulla forza, all’interno dello Stato, e tra gli Stati; e un certo pessimismo sulla capacità dei cittadini di vivere decentemente senza autoritarismo; e credono che sia possibile variare la geografia politica tra Stati con atti di forza adeguati fatti a tempo debito, quando la probabilità di reazione bellica da parte di potenti avversari sembri minima. Certo uno degli autori dell’ideologo di Putin, Aleksander Gelevic Dugin, è Hobbes. E comunque Hobbes è l’autore di Carl Schmitti, attualissimo da quelle parti.

   In fondo questo comportamento di Putin era prevedibile, e infatti era stato previsto, tanto che gli ucraini risultarono questa volta, dal febbraio 2022 a oggi, pronti a respingere l’assalto russo, previsto di pochi giorni o settimane dai russi stessi. Anche se Putin e la Russia avevano e hanno pure loro ragioni, come si vedrà.

   Più difficile da decifrare è il caso di Israele nella guerra in corso in Medio Oriente.  Per ora non voglio fare un lungo discorso su guerra e pace in Medio Oriente. Sin dalla guerra dei sei giorni del 1967 tra Israele e i paesi arabi coalizzati (allora avevo ventisei anni), mi capitò di riscrivere l’opuscolo, allora troppo sbilanciato in senso filoarabo, di un caro amico ora novantaduenne, per conto della Federazione del PSIUP di Alessandria[6]. Da allora sono accadute tante cose complicatissime. Gli israeliani hanno visto prevalere via via le tendenze più nazionalistiche, volte ad accentuare l’ebraicità dello Stato di Israele a scapito dei palestinesi (interni o contigui). Questi palestinesi sono sempre stati tra più fuochi, naturalmente a partire da quelli sempre ultra-invasivi israeliani (“coloni” e non). Da un lato stava e sta un’Autorità Palestinese, di Arafat e dei successori sino ad Abu Mazen, via via corrottasi, e che non fa libere elezioni da tanto tempo; dall’altro un movimento eversivo, o partito armato, più legato al popolo (Hamas), che però non ha mai riconosciuto lo Stato di Israele, che vorrebbe anzi distruggere. I palestinesi si sono pure trovati nel bel mezzo di un contrasto tra musulmani molto simile a quello tra cattolici e protestanti nel XVI e XVII secolo in Europa: quello tra i musulmani sunniti intorno all’Arabia Saudita (la terra di Maometto), e quello degli sciiti in Iran (che si rifanno al genero di Maometto, Alì, considerato come l’erede-continuatore del Profeta), sciiti che hanno trovato in Komeini una specie di Lutero musulmano: un islamismo iraniano intriso di un interessante misticismo orientaleggiante molto simile al miglior neoplatonismo, però fiorito all’ombra di una teocrazia particolarmente oppressiva, specie per le donne.

   Ma quello che sembra il punto chiave è che la “democratura” – il mix tra dittatura e democrazia che sembra aggirarsi per il mondo nell’era della globalizzazione e della crisi delle vecchie superpotenze – in questi anni sembra prevalere pure in Israele, che pure resta l’unica vera democrazia in quell’area del mondo. Non a caso il leader del primo partito israeliano, il primo ministro, Benjamin Netanyahu, ha dovuto affrontare processi per corruzione, e pare restare in sella solo per via della guerra in corso, che avrebbe interesse a far durare e dilagare, passando alla Storia come quello che “ha messo a posto” i palestinesi una volta per tutti, trasformandoli in minoranza nazionale subalterna e ormai innocua, invece di passare alla prigione. Ma soprattutto egli stesso sembra espressione della stessa tendenza nazionalista di tipo spinto che come uno spettro da anni si aggira di nuovo per il mondo.

   Tuttavia, nel mio piccolo, metterei pure in guardia da una lettura troppo riduttiva delle ragioni che spingono dall’ottobre 2024 a una guerra devastante sanguinaria e condotta proprio con tutti i mezzi che Grozio aveva considerato letali dal 1625: guerra soprattutto contro la popolazione civile, segnata pure da assassinii politici (addirittura di negoziatori di pace). Ogni volta che la guerra è spiegata prevalentemente cercando il matto di turno, siamo quasi matematicamente certi che ci si sta sbagliando, scambiando un elemento importante, ma ben parziale, con la sostanza.

   Ma come ha potuto accadere, sia nell’area che internazionalmente?

  Nell’area ha potuto accadere per l’affermarsi del nazionalismo aggressivo al potere, tanto nel potentissimo Stato d’Israele che tra i palestinesi (che altro è Hamas stesso?), ma, soprattutto, perché ogni nazionalismo del mondo alza la cresta in presenza della grande crisi che ha travolto tanti anni fa, tra il 1989 e il 1991, la superpotenza sovietica, e oggi mina quella americana (ossia dalla fine del duopolio russo-americano sul mondo, del 1991, in poi). Gli Stati Uniti, poco tempo fa hanno dovuto riconoscere la sconfitta da parte di islamici spacciatori di eroina e dai costumi in parte medievali dell’Afghanistan, e oggi dimostrano tutta la loro debolezza non riuscendo a imporre un orientamento più dialogico ad Israele. Ma ciò ci riporta, sia sul piano della storia delle idee politiche che sul piano pratico-politico alle cose che favoriscono o danneggiano la pace e la guerra nel mondo. Come di seguito proverò a spiegare.

   Che cosa impedisce la pace, sia secondo il pensiero politico che sui due scenari di guerra che sto cercando di esplorare, sia pure minimamente?

Proverò ora a spiegarlo.

                                            (Segue)

di Franco Livorsi

(La lunga notte dell’Occidente, capitolo II, 22 agosto 2024).

[1] F. LIVORSI, La lunga notte dell’Occidente, “Città Futura on-line”, 7 agosto 2024.

[2] U. GROZIO, Prolegomeni al diritto della guerra e della pace, a cura di G. Fassò, Zanichelli, Bologna, 1949. Ma si vedano pure le pagg. su Grozio nel mio libro: I concetti politici nella storia. Dalle origini al XXI secolo, Giappichelli, Torino, 2008, pp. 111-115.

[3] T. HOBBES, Leviatano, a cura di G. Miceli, La Nuova italia, Firenze, 1976, ma si veda pure, dello stesso: Elementi di filosofia. Il corpo – L’uomo, a cura di A. Negri, UTET, Torino, 1972; Elementi di filosofia sul cittadino. Dialogo fra un filosofo e uno studioso del diritto comune d’Inghilterra, a cura di N. Bobbio, UTET, 1959. Ma si veda pure: F. LIVORSI, I concetti politici nella storia, cit., pp. 115-120.

[4] Brenno, capo dei Galli “Senoni”, aveva messo a sacco Roma nel 390 a.C. Come risarcimento di guerra a favore dei suoi era stata stabilità una certa quantità d’oro, ma lo si pesò con bilancia truccata a favore dei Galli, e i Romani protestarono. Allora Brenno posò sulla bilancia anche la sua spada, pronunciando la famosa sentenza “Vae victis” (“Guai ai vinti!”). L’episodio è raccontato nella vasta opera “Ab urbe condita” (“Dalla fondazione della città”, detta “Storia di Roma”, di Tito Livio, composta dal 26 a.C. al 9 a. C. al libro V, par. 48. L’opera in molti volumi si può leggere pure, con testo latino a fronte, presso la Biblioteca Universale Rizzoli di Milano, nel2008, in tredici volumi.

[5] Si vedano pure: F. LIVORSI, Il Golfo e il governo del mondo, “Critica Sociale”, gennaio 1991, pp. 77-83. E, quando fu impiccato Saddam Hussein: F. LIVORSI, La morte annunciata di Saddàm Hussein, “Città Futura on-line”, 31 dicembre 2006.

[6] Il PSIUP e il Medio Oriente, “filorosso”, Alessandria, a. IV, n. 32, 22 agosto 1967. Si tratta di un opuscolo ciclostilato di dieci pagine, che indica nella prima anche il nome mio e quello di questo mio vecchio amico. Ora nel mio Archivio.


Pubblicato il 11/09/2024

Cinque vie alla pace mondiale nella storia del pensiero politico: I) Il pacifismo cristiano

di Franco Livorsi

1)Piccola premessa

Prima di entrare pienamente nel merito dei problemi connessi agli scenari di guerra e pace che ci stanno più a cuore – su cui proverò a dire, più avanti, la mia opinione – vorrei seguitare nelle mie meditazioni su guerra e pace legate alla storia del pensiero politico, in tal caso “soprattutto” contemporaneo. Provo a individuare taluni modelli di pensiero politico su pace e guerra, vedendo però come abbiano funzionato nella storia concreta. Quest’apertura alla verifica delle idee nella prassi dovrebbe essere l’elemento di novità pure rispetto alla mera storia del pensiero politico: storia cui però farò solo taluni richiami, precisi ma di sorvolo. Naturalmente non potrò dire niente di compiuto, perché sto solo provando a fare un ragionamento, sia pure documentato.

Il presupposto – per dirla in modo un poco spiccio – è che il tipo di pensiero politico su guerra e pace che risulti maggiormente capace di interpretare il mondo, e pure di favorire in esso la pace, sia quello da valorizzare di più anche come chiave per capire e modificare le guerre d’oggi che sconvolgono maggiormente il mondo (la russo-ucraina e l’israelo-palestinese).

Al proposito individuo cinque indirizzi, che tratto brevemente uno per uno, sempre sorvegliando i fatti che debbono suffragare, o confutare, un singolo indirizzo: 1) Pacifismo etico-religioso; 2) Internazionalismo “proletario” socialista, comunista e marxista; 3) realismo nazionalista; 4) realismo conservatore; 5) democraticismo e federalismo.

2) La via morale e religiosa alla pace nel mondo

Questo è l’approccio di tipo primariamente morale e religioso, in specie buddhista, per taluni aspetti induista e soprattutto cristiano, qui con particolare riferimento alla confessione cattolica. Prego tutti di non correre subito mentalmente a contraddirmi pensando ai tanti casi di fatto che potranno pure non corrispondere a quel che sto per dire, ricordando che vengo indicando linee di tendenza, che valgano per la gran parte dei casi, nel mondo contemporaneo, ma certo non in tutti (il che sarebbe impossibile, perché le idee, tanto più politiche, sono mappe di navigazione, soggette a molte variazioni).

Ciò posto noto che per l’approccio che chiamo morale (o morale-religioso), pace e guerra dipendono da virtù o vizi del genere umano. In forma pura, in campo cristiano questo è l’ideale del Vangelo, con i ben noti passaggi sulla pace in terra, sull’amore pure per i nemici, e sulla non violenza, ripresi creativamente tra XIX e XX secolo da Tolstoj e soprattutto da Gandhi[1] (quest’ultimo legato a quella forma di induismo che si chiama jainismo).

Per tale indirizzo il rapporto amico-nemico, “mors tua vita mea”, inteso come legge della vita è un’aberrazione morale, e il pacifismo è la scelta morale per ripristinare l’ordine naturale-divino delle cose. Naturalmente il radicalismo pacifista, nel senso della scelta di vita basata sulla fratellanza, proprio dei Vangeli, è stato presto modificato in senso più realistico, man mano che il cristianesimo diventava religione dominante; ma il Vangelo ha seguitato ad essere sempre predicato, per cui la tendenza di cui si è detto è seguitata, ora come un fiume carsico e ora come un grande fiume. Anche per chi voleva “precisarlo e approfondirlo”, in realtà per rettificarlo, di lì doveva passare.

La modifica fondamentale rispetto al Vangelo, risalente alla Città di Dio (410/430) di Agostino, ma sviluppata soprattutto da Tommaso d’Aquino nella Summa teologica (1262/1274), concerne il passaggio dalla pura non-violenza tra gli uomini alla teoria della “guerra giusta” (bellum justum), di difesa e simili[2], che però nell’epoca delle guerre tecnologiche distruttive, eventualmente atomiche, che destabilizzano il mondo stesso, e anche nell’epoca attuale dell’inequivocabile globalizzazione (e connessa interdipendenza) del mondo, ha dato luogo piuttosto al “diritto contro la guerra” (jus contra bellum), che porta alla condanna della guerra come risposta comunque disumana. L’iter recente si è sviluppato dall’enciclica fondamentale di Giovanni XXIII del 1963, Pacem in terris, alla costituzione pastorale del Concilio Vaticano II Gaudium et Spes (1965).

In proposito è molto rilevante l’azione recente di papa Francesco (Jorge Mario Bergoglio), con particolare riferimento al documento sulla fratellanza umana firmato con il Grande Imam musulmano a Dubai nel 2014, incorporato nella sua enciclica più francescana, Fratelli tutti, dell’ottobre 2020[3], e confermato si può dire in omelie continue in questi tempi di conflitto globale, dal papa detto “guerra mondiale a pezzi”: guerra in specie tra Ucraina e Russia, e tra Israele e la Palestina (quest’ultima più o meno identificata, dallo Stato ebraico, col gruppo terroristico di Hamas, e atrocemente bombardata).

Comunque in un contesto ormai globalizzato, subito colto dalla preveggente chiesa cattolica, il pacifismo è diventato l’istanza fondamentale, tale per cui la stessa guerra formalmente giusta è ritenuta qualcosa di male in sé che non si sia potuto evitare e che bisogna far finire al più presto.

In certo modo la dottrina “recente” sviluppatasi sempre più dal 1963 ad oggi, tenendo appunto conto del carattere globalizzato delle guerre d’oggi rifiuta ogni giustificazionismo in materia di guerra, e mira ad una vera comunione dei popoli. Su ciò, a causa del mondo ormai globalizzato, si tende a superare l’idea di guerra giusta e a condannare la guerra in sé come male, com’era nel Vangelo, ma naturalmente in modo ben altrimenti argomentato. Inoltre è fortissima la tendenza a superare più o meno totalmente la logica (o l’illogica) degli Stati nazionali, verso forme di convivenza internazionale della comunità umana, come quelle che valorizzano in particolare le Nazioni Unite, di cui si auspica la progressiva trasformazione in governo mondiale sulla base di un diritto alla pace e giustizia di tipo universale.

Sono da tanto tempo assai rispettoso di tale posizione, che influenzando in senso pacifistico universale immense folle, ha pure un valore politico non da poco. Ritengo però anche che essa – se non sia unita ad altri indirizzi più concreti – sia impotente, come sempre, in tempi di barbarie. Gli appelli nobilissimi e continui del papa per la pace, anche carichi di riferimenti concreti e di un vero pathos universalmente umano, rischiano di parere prediche inefficaci, anche se la chiesa cattolica, cui qui mi sono prevalentemente riferito, prova pure ad utilizzare la propria influenza per favorire il dialogo diplomatico in funzione della pace tra contendenti, con generosa interposizione tra loro a fini di conciliazione. Comunque su questi temi la chiesa ha maturato posizioni molto avanzate per la pace, che unendosi a movimenti più politicamente impegnati in tal senso hanno il loro peso storico concreto. Ma non pare che tali posizioni possano guidare più che tanto la storia concreta del mondo, soprattutto quando il conflitto coinvolga Stati internazionalmente importanti. Tuttavia ogni spirito riformatore può solo rallegrarsi di tali posizioni, pacifiste e solidariste, e aiutare a realizzarle anche senza essere minimamente cristiano o cattolico in senso stretto.

(Segue)

  1. L. TOLSTOJ, La mia fede (1884), con Prefazione di P. C. Beri, Giorgio Mondadori, Milano, 1984.M. K. GANDHI, Antiche come le montagne, a cura di S. Radhakrishnan, Comunità, Milano, 1963; Teorie e pratica della non-violenza, a cura e con un saggio introduttivo di G. Pontara, Einaudi, 1973; G. PONTARA, L’antibarbarie. La concezione etico-politica di Gandhi e il XXI secolo, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2019.
  2. A. AGOSTINO, La città di Dio (410/430), a cura di C. Carena, Einaudi-Gallimard, Torino, 1992.TOMMASO D’AQUINO, La Somma Teologica (1262/1274), Edizioni Studio Domenicano, Bologna, 2014, tre volumi.
  3. GIOVANNI XXIII (Angelo Roncalli), Pacem in Terris (1963), Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (Milano), 1978.

    FRANCESCO Papa, (Jorge Bergoglio), Fratelli tutti. Sulla fraternità e l’amicizia sociale, con Introduzione di A. Spadaro, Marsilio, Venezia, 2020.

 


Pubblicato il 20/09/2024

Cinque vie alla pace nel mondo nella storia del pensiero politico:

II) L’internazionalismo rivoluzionario da Karl Marx a Antonio Negri

di Franco Livorsi

L’internazionalismo rivoluzionario, socialista comunista e marxista, ha a che fare con il tema della pace e della guerra nel pensiero politico, specialmente contemporaneo, perché mira a un mondo unito senza confini. L’idea della comunione umana, propria del pacifismo cristiano, è perciò presente, forse persino come segreta e inconscia matrice, anche nell’internazionalismo proletario e marxista, ma qui come risultato finale, preteso necessario, di un mondo in cui siano sparite, o meglio “abolite” tramite il potere proletario, le differenze di classe, cioè le classi, e per ciò stesso lo Stato, nel mondo perché l’economia è da tanto tempo interdipendente; ma questo “scopo finale” in tale approccio è ritenuto – almeno morfologicamente, se non proprio cronologicamente – prevedibile, necessario e già in marcia nella storia, come l’embrione che si sviluppa, dando gioia e speranza, ma anche sofferenza e travaglio, nel ventre della madre. L’obiettivo è ben evidente già nell’inno L’Internazionale, composto da un poeta operaio della Comune di Parigi, Eugène Pottier, nel 1871, e diventato poi famoso nel mondo, e adottato da Lenin come inno della Russia rivoluzionaria nel 1917 e mantenuto come tale sino al 1944 come Inno dell’URSS, per rimanere poi comunque sempre l’inno del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, e che diceva tra l’altro: “È la lotta finale, uniamoci e domani l’Internazionale sarà la futura umanità”: il che sarebbe accaduto attraverso l’abolizione del capitalismo in quanto economia privatistica e di mercato, ritenuta la vera fonte dei conflitti, come prevedeva e auspicava il marxismo più “classico”, specie da Marx e Rosa Luxemburg a Lenin e Trockij, ma con taluni sviluppi, a quanto pare oramai senza consistenza politica di massa minimamente rilevante, sino ai giorni nostri, come nel “sovversivo” Antonio Negri (col suo amico americano Michael Hardt).

Ridotto a schema – spero però congruo – il ragionamento del marxismo “classico” era più o meno il seguente.

L’economia è “la struttura”, o comunque la chiave di volta della storia. Il resto è “sovrastruttura”, almeno “in ultima istanza”.[1] Lo Stato stesso, con tutti i suoi apparati burocratico repressivi, sarebbe sovrastruttura della classe economicamente dominante: una specie di corazza o spada di fuoco del padronato di turno nella Storia pregressa (che però avrebbe da finire, con una sorta di “salto di qualità” in essa inscritto).

Quindi le guerre sarebbero sempre fatte per ragioni economiche, per il dominio economico su vicini o lontani; o, se si vuole – come diceva Lenin dal 1914 con particolare enfasi, e in specie nel 1916[2] – sarebbero guerre tra “ladri di bottino”, per il controllo delle materie prime e dei mercati.

Se il mondo in cui tutti competono per avere più materie prime, più mercati da dominare e più merci da consumare fosse liquidato; se cioè fosse liquidata la politica di predazione delle materie prime e dei mercati, e in primis la compra-vendita della forza lavorativa sul mercato delle merci – chiunque ci campi – la rivoluzione proletaria mondiale ci darebbe pure la pace mondiale permanente (almeno secondo tale approccio).

Siccome il marxismo rivoluzionario sapeva, sia pure con diverse accentuazioni, che sin dall’inizio del secolo XX il capitalismo si era mondializzato (o si andava mondializzando irreversibilmente e rapidamente), la rivoluzione proletaria avrebbe dovuto essere mondiale. Altrimenti il contesto capitalistico mondiale, per ovvie ragioni economiche in un mondo sempre più economicamente interdipendente, si sarebbe presto mangiato l’economia socializzata, che solo dal 1928 in poi prese ad essere confusa col capitalismo burocratico di stato.

La guerra franco-prussiana aveva portato alla Comune di Parigi del 1871, cioè alla rivoluzione operaia al cuore della Francia: rivoluzione proletaria pure spaventosamente repressa nel 1871, ma dopo aver mostrato al mondo che cosa sia il potere politico e sociale del proletariato, che fa estinguere il potere dei corpi separati burocratico repressivi, rendendo tutto elettivo e pagando tutti “come operai” al più specializzati, realizzando passo passo l’estinzione dello Stato, ossia la fine dello Stato, in quanto macchina burocratico-repressiva del potere, che dura pure al di là dei cambi della forma di governo[3] (finché dura, ma per il marxismo da Marx a Trockij “dura minga, non può durare”). La guerra mondiale del 1914/1918 avrebbe dovuto provocare una Comune mondiale: la rivoluzione internazionale.

L’idea maturata nei rivoluzionari marxisti era che la rivoluzione dei soviet (consigli elettivi dei lavoratori), scoppiata nell’area più debole, o arretrata – come insieme territoriale – del capitalismo mondiale (Russia del 1917), sarebbe ben presto dilagata al cuore del capitalismo, in Europa Occidentale e in America. Del resto non era forse subito dilagata pure la Rivoluzione Francese, con l’ex giacobino Bonaparte che aveva cercato di portare il suo Codice Civile, il Codice della borghesia vittoriosa dal 1789/1794, da Parigi a Mosca? Poteva non accadere alla Rivoluzione proletaria, in un mondo ben più globalizzato come quello svelato dalla Grande Guerra “mondiale” del 1914-1918?

Su ciò tutto quello che Lenin scrisse e disse soprattutto dal 1916 al 1920, ivi compresi i grandi discorsi nell’Internazionale Comunista, dal 1914/1916 al 1921, è del più grande interesse anche politico dottrinario, in riferimento a un modello di socialismo, marxiano, lì proseguito e approfondito (ripreso nel 1917-1918 in Stato e rivoluzione, ma pure in straordinari discorsi nell’Internazionale Comunista tra 1919 e 1921): modello comunardo, totalmente basato sull’autogoverno dei lavoratori anche al di là del “governo” comunista: modello “comunardo”, o sovietistico, o di potere dei “liberi” consigli dei lavoratori, di cui lo stalinismo – dal 1928 in poi nella prassi, e dal 1944 anche nel pensiero – fece poi perdere persino la traccia (a parte il mito del potere operaio), tanto che se oggi, e anzi dal 1945 in poi, uno parla (o avesse parlato) anche con un intellettuale di sinistra dottrinariamente e storicamente attrezzato, si accorge (o si sarebbe accorto) che “per lo più” l’interlocutore neanche sospetta più (o sospettava più) che sia mai esistito (o fosse mai esistito), a parte forse il libro Stato e rivoluzione, visto come “utopia” o propaganda, un tentativo su vastissima scala di fondare uno Stato e un’economia basati sul potere diretto dei lavoratori stessi in perfetto spregio delle “leggi” del valore plusvalore e profitto (e anzi fatto proprio per poterle violentare in senso “comunionistico”). La cosa paradossale è che sino al 1928 almeno, tutti quelli minimamente preparati nel mondo socialista o comunista invece lo sapevano.

I riformisti democratici e socialisti lo ritenevano già utopistico, e lo consideravano un salto nel buio: un “fine” che per loro era “nulla”, mentre il movimento operaio, con le conquiste sindacali e riforme sociali che si potevano ottenere tramite la democrazia parlamentare, era “tutto” (come Bernstein diceva in un suo famoso, e antelucano, libro sin dal 1899[4]). Ma pure il riformismo, come il marxismo rivoluzionario, condivideva l’idea di Marx che il capitalismo si basi sul meccanismo del plusvalore, che genera il profitto. Il Capitale, infatti, è un sistema in cui si vendono e comperano merci, la più importante delle quali è l’energia – o forza – lavoro umana, il cui prezzo, come il cartellino su una cassetta di pomodori, è il salario, che fluttua in base alla domanda e offerta della merce sul mercato, come ogni merce. Il lavoro dipendente fa tutto (quasi tutto), ma il suo valore è minimo, anche perché ce n’è sempre di più, “nel mondo”. Ma la merce forza-lavoro è umanità angariata, e non mero oggetto di consumo, e perciò non lo può accettare, almeno durevolmente e nel profondo. A ciò essa è sempre latentemente o manifestamente ostile (lotta di classe).

La conseguenza era che il solo modo di liberarsi da parte della forza lavoro, salariata, che produce la gran parte delle merci per un salario minimo, fosse quello di superare il meccanismo del plusvalore e del profitto. Per Marx in sostanza finché le merci avranno un valore (un prezzo, a partire dal prezzo della forza lavoro, il salario), il lavoro non avrà valore, sarà un oggetto di consumo venduto e comprato come un altro. Parlare di “valore del lavoro”, mentre dura il capitalismo, per Marx sarebbe stato insensato, come parlare del valore dello schiavo che resti schiavo. Si sarebbe dovuto passare da un’economia monetaria, di mercato, a un’economia di distribuzione sociale delle merci, con criteri non più basati sul maggior guadagno, ma sul bene comune, in certo modo violentando la legge del valore (che sarebbe solo il modo di funzionare dei regimi in cui c’è una classe che sfrutta il lavoro e una classe sfruttata, pure presenti in forme differenti dal tempo degli schiavi antichi a quello dei lavoratori moderni). Anzi, la dittatura del proletariato aveva senso solo per alterare l’economia di mercato tramite il potere operaio, che bada al bene comune senza curarsi del profitto: non però perché non riesce a produrne abbastanza (come tanto spesso nei regimi cosiddetti comunisti di stato, in realtà capitalisti di stato), ma perché si realizza un’economia basata sulla distribuzione dei beni nell’associazione comune dei cittadini-lavoratori invece che sul mercato. Questo era reso possibile – sarebbe stato reso possibile – passando dallo Stato degli apparati burocratico repressivi allo Stato autogovernato dai lavoratori stessi, che sin dall’inizio per Marx e Engels era un “semistato”, anarchia comunitaria in cammino, meglio se a poco a poco; sarebbe inoltre stato possibile tramite l’internazionalizzazione della rivoluzione proletaria.

Ma entrambe le possibilità ben presto fallirono: non resistette l’autogoverno proletario da parte dei consigli dei lavoratori e la rivoluzione proletaria non si realizzò mai in Occidente.

Così, comunque, parlò e operò Lenin dal 1914 in poi, con particolare riferimento a tutto quello che scrisse e disse in L’imperialismo, fase suprema del capitalismo (1916), Stato e rivoluzione (1917, ma 1918), e tutto quello che scrisse o disse dal 1917 al 1921, compresi i discorsi nell’Internazionale Comunista dal 1919 in poi, che a mio parere sono del più grande interesse anche nella storia del pensiero politico socialista e comunista. Diversamente da Gramsci, io non dico che Lenin sta a Marx come San Paolo sta a Cristo[5], ma che Lenin un giorno sarà riscoperto come il Machiavelli del XX secolo[6], anche lui con quella doppia identità su cui ancora si accanisce la storiografia per vedere se il vero Machiavelli sia quello assolutamente democratico repubblicano dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (1512/1517, ma postumo 1531) oppure, quello più noto da sempre, maestro di realismo politico brutale e di “dittatura” (allora principato) del Principe.(1513, ma postumo 1532).[7]

Pensare che la rivoluzione dei soviet sarebbe dilagata non era difficile, perché i comunisti avevano sempre presente il precedente della Rivoluzione detta “della borghesia” del 1789/1793, che poi aveva portato la sua legge e sistema, il Codice civile e un nuovo ceto politico borghese, nel mondo, tramite l’ex giacobino Napoleone Bonaparte, che alla fine era stato sconfitto, ma era pur giunto sino a Mosca. Bordiga ne parlò nel bellissimo articolo, forse il suo articolo più “bello”, Fiorite primavere del Capitale, ma pure quando nel 1951 diceva al suo compagno Onorato Damen che nei giudizi liquidatori sul mondo sovietico, che pure lui (Bordiga) dava tragicamente dal 1926 e tanto più dal 1929 in poi, bisognava andare cauti perché quello era stato il primo esempio di una grande rivoluzione della storia “che si rincartoccia”. [8]

Stalin dapprima – quando si vide che ormai in Occidente la rivoluzione proletaria non arrivava – provò a tirarne le conseguenze sostenendo che, dati anche gli immensi spazi e materie prime dell’URSS, si poteva “fare il socialismo” là (“socialismo in un solo paese”) anche senza dipendere dalla pur desiderata e immancabile rivoluzione a Occidente, per la quale però non si poteva mettere a rischio l’esistenza dell’URSS. (Ma così l’URSS diventava sempre di più, e non solo in uno stato d’eccezione, Stato burocratico autoritario ben più che proletario, o invece che proletario; e non solo per i tempi d’eccezione insurrezionali, in stato di assoluta emergenza, ma proprio come sistema politico-sociale).

Chi invece era, per la verità sin dal principio (con Parvus, e da solo, dal 1905), persuaso del carattere necessariamente mondiale della rivoluzione proletaria (per cui bisognava operare sempre e innanzitutto ad ogni costo), era il grande creatore e capo vittorioso dell’Armata rossa, Lev Trockij. Egli pensava che la Rivoluzione del 1917 avrebbe dovuto essere vista in funzione della Rivoluzione mondiale, come un primo Paese conquistato dalla rivoluzione mondiale e direttamente legato ad essa in un processo storico ininterrotto (“rivoluzione permanente”). Ma i più tra russi e sovietici, dopo il fiume di sangue versato tra Grande Guerra, rivoluzione e successiva guerra civile efferata tra “rossi” e “bianchi”, appena finita, sin dal 1921-1922 anelavano ad una stabilizzazione interna. Perciò, ancora a livello tutto politico – anche se sbilanciato a favore di chi manovrava ormai un apparato sempre più forte (il segretario, Stalin) – Trockij fu sconfitto ed esiliato nel 1927, e nel 1939 fu fatto assassinare in Messico da un sicario di Stalin, dopo molti tentativi del genere per farlo fuori.

Trockij comunque enunciò due teorie dall’esito paradossale. Nel 1936 pubblicò La rivoluzione tradita, in cui sosteneva che la “degenerazione burocratica” del potere sovietico era gravissima, ma non intaccava la sostanza socialista del sistema, il fatto che mezzi di produzione fossero sostanzialmente nazionalizzati: tanto più che la burocrazia non sarebbe una classe, ma semmai una casta di privilegiati, che a tempo debito il corpo collettivista “sano” potrà scrollarsi di dosso, come un bubbone estirpabile. Questa teoria fu, suo malgrado, la più grande difesa del potere burocratico comunista stalinista e post-stalinista, visto come la malattia di un corpo sano. Specie dopo la destalinizzazione del 1956, l’idea era sempre quella per cui “ha da venì’ la sburocratizzazione”, il ritorno al potere dei liberi consigli dei lavoratori, almeno dal 1927 diventati longa manus della burocrazia autoritaria detta comunista. Dato che non c’erano più “i padroni” nell’economia sovietica, e che i burocrati marxisticamente non potevano essere classe dominante, ma solo “la casta”, il bubbone burocratico avrebbe potuto essere estirpato. Lo strapotere burocratico-repressivo non era nella “struttura”, ma “solo” nella sovrastruttura. Ci si attendeva sempre che l’URSS e i paesi “fratelli” (tali loro malgrado: “liberati” nel 1945 dall’Armata Rossa e, sull’onda, convertiti loro malgrado al modello sovietico comunista burocratico autoritario), si sarebbero liberati dal “bubbone” burocratico autoritario (essendo lo strapotere burocratico un dato non dell’economia, ma dell’amministrazione): tanto che quando con un ritardo di quarant’anni sotto Gorbaciov l’URSS provò un poco a liberalizzare le opinioni e i diritti d’impresa, molti, tra cui chi scrive[9], s’illusero che stesse accadendo fuori tempo massimo l’attesa sburocratizzazione del socialismo burocratico autoritario di stato (“Il Manifesto” scrisse addirittura che l’URSS stava tornando a dare “Tutto il potere ai soviet”), mentre l’idea era così falsa che bastò quel limitato riformismo gorbacioviano intrasistemico per far crollare tutto il sistema.

Ciò per me “dimostra” che lo Stato non è “sovrastruttura”, ma la “struttura” della vita collettiva o “almeno” uno dei due volti insopprimibili della struttura. Se crolla lo Stato (allora quello burocratico “comunista”, e negli auspici dei suoi nemici domani quello cinese), crolla tutto. In attesa che lo Stato rinasca dalle ceneri, “più forte che pria”, ma con un intervallo di anni o decenni di frantumazione dello Stato e di rovina economica, sperimentati due volte dalla Russia: una tra disfatta nella Grande Guerra e rinascita dello Stato autoritario all’ombra della bandiera rossa (dal 1917 al 1921) e l’altra al crollo dell’URSS del 1991 sino all’avvento dello Stato “forte” e poi semidittatoriale di Putin (2000, ma soprattutto dal 2012 ad oggi).

Trockij comunque, al suo tempo, aveva sostenuto, come capo rivoluzionario vittorioso, che ogni sforzo dovesse essere fatto per fare in modo “ininterrotto” (Lenin) o “permanente” (lui stesso) la rivoluzione anticapitalista nel mondo, perché il mondo sarebbe stato ormai economicamente tutto interdipendente, per cui anche in prospettiva l’alternativa sarebbe stata sempre tra guerra mondiale e rivoluzione mondiale. Parvus e soprattutto Trockij furono i due primi pensatori, marxisti, a comprendere che era ormai in atto quel che noi oggi chiamiamo “globalizzazione”. O il capitalismo è fatto morire in tutto il mondo o tutto resta come prima o peggio (sino all’esplosione del sistema-mondo).

Tuttavia nel 1939 Trockij prese a sospettare che la rivoluzione mondiale, nonostante la Seconda guerra mondiale alle porte, avrebbe potuto non arrivare affatto, ripetendo lo scenario della “rivoluzione mancata” in Occidente dopo la Grande Guerra e la Rivoluzione d’ottobre. In un articolo del novembre 1939, In difesa del marxismo, disse che se ciò fosse accaduto il discorso del marxismo sul proletariato come classe almeno latentemente rivoluzionaria – nel senso che in Veneto dicono “bronsa cuerta” (“brace sotto la cenere”) – sarebbe risultato falso, e in tal caso si sarebbe dovuto ripiegare su un programma minimo per difendere gli sfruttati.[10]

In sostanza l’idea che una rivoluzione mondiale possa creare un socialismo internazionale e “quindi” la pace mondiale, per quel che qui interessa, è risultata falsa. La rivoluzione mondiale non è mai arrivata a Occidente. Semmai il modello sovietico stabilizzatosi via via tra 1921 e 1927 fruttò in “Oriente”, e “per l’Oriente”, dove in grandi paesi, dalla Cina al Vietnam, si realizzò una rivoluzione attraverso cui élites burocratico statali “comuniste” fecero quello che in Occidente aveva fatto la borghesia privatistica, qui a Occidente cresciuta via via dai mercanti-produttori del 1300 in poi. In Occidente se ne è fatto a meno, perché qui il lavoro era stato fatto ed è fatto, meglio, dal Capitale privatistico che non dallo Stato. Ma “a Oriente” l’élite comunista rivoluzionaria ha supplito alla carenza estrema di borghesia privatistica, che invece a Occidente era cresciuta via via dal Basso Medioevo in poi.

Tutte queste idee marxiste sono state riprese nel “Sessantotto”, a mio parere in modo tanto vasto e interessante quanto sterile. Venivano originalmente ribadite le stesse idee che negli anni Venti o erano fallite, e non certo perché fossero giuste, oppure avevano generato, a “oriente”, il totalitarismo burocratico (o come lo vogliamo dire). Perciò nell’insieme si può dire che tanto la via al potere proletario dall’alto, tanto la via della burocrazia autoritaria comunista oramai, tanto più dopo il crollo dell’URSS del 1991, da Berlino a Vladivostock e tanto più ancora più a Occidente, abbiano fallito. E non per caso.

A mio parere c’è stata una sola corrente che, pure dopo il 1927, abbia seriamente provato a riprendere e aggiornare profondamente il discorso del socialismo come antagonismo proletario per il potere diretto dei lavoratori stessi: l’operaismo marxista, in Italia da Foa e Panzieri a Mario Tronti e, anche dopo il ritorno di Tronti al PCI (ma nel contesto pure Pierre Carniti e Bruno Trentin avevano dato un apporto di prim’ordine), il filosofo politico Antonio Negri. La vicenda politica ed umana di questo filosofo della politica preteso “rivoluzionario” è stata gravemente contigua, e in parte certo connivente, con il terrorismo di sinistra, ed è stata segnata da tanti anni di prigione scontati dal personaggio, e da me è sempre stata totalmente respinta; ma è stata pure accompagnata via via da un’elaborazione dottrinaria sempre da prendere con le molle, però a mio parere da studiare e meditare profondamente, come tutto l’operaismo e post-operaismo marxista, sino a testi recentissimi. L’operaismo marxista, infatti, è stato la sola corrente socialista-comunista che sin dalla sua “rinascita” in Italia intorno al 1958[11], e poi sempre in seguito, abbia rifiutato l’aut-aut tra comunismo burocratico, stalinista e post-stalinista (autoritario o anche socialdemocratizzato) e socialdemocrazia riformista. Ma anche per quella via la rivoluzione operaia in Occidente non è venuta fuori, né tantomeno la rivoluzione mondiale. Nelle sue fluviali, sebbene interessantissime, memorie, Toni Negri, nell’ultimo volume, aveva un bel lamentarsi quasi con stupore della scomparsa quasi completa dei “comunisti” marxisti nel nostro tempo, ma si dovrebbe essere stupiti perché qualcuno “vero” di loro, che non sia semplicemente un nostalgico da strapazzo delle dittature della burocrazia sovietica, ci sia ancora.

Siamo in uno scenario in cui non solo non c’è più il preteso comunismo burocratico di stato crollato nel 1989/1991 da Berlino a Vladivostock, ma il proletariato come classe operaia è addirittura diventato una piccola minoranza sociale di lavoratori più o meno specializzati, nell’era tecnologica dell’automazione e dell’Intelligenza Artificiale.

A ciò l’operaismo marxista (e il post-operaismo), ha reagito in un triplice modo. Ai primi due modi accenno soltanto perché esulano dal nostro tema.

Nella società capitalistica avanzata, il Capitale ormai sarebbe dovunque, non più incentrato nelle fabbriche (come se tutta la società fosse diventata fabbrica capitalistica, e la contestazione proletaria, perciò, fosse dappertutto e in nessun luogo specifico, connotata dal cosiddetto “operaio sociale”, in rivolta manifesta o latente ovunque, con atti che stravolgono le “leggi” pretese dell’economia ben prima che si attui la cosiddetta rivoluzione proletaria, e connesso venir meno non solo della defferenza marxiana tra proletariato e sottoproletariato, ma pure tra l’atto eversivo del libertario e quello del rivoluzionario, in sostanza tra comunismo e anarchia ). Questo dall’operaismo marxista di sinistra era già stato colto verso il 1978, dimostrand per assurdo lo scacco dello stesso operaismo marxista.

Di conseguenza il vero antagonismo sarebbe dappertutto, in una sorta di insubordinazione, violenta e non violenta, a tutti i livelli, in cui i proletari, che ormai sono un tutt’uno con i sottoproletari, compiono atti eversivi continui che stravolgono di proposito, o comunque “di fatto”, il funzionamento del sistema dominante. Fanno di fatto la rivoluzione (atti rivoluzionari), rendendo anomica l’economia capitalistica: quasi a conferma del bel paradosso “orientaleggiante” di Mao: “Grande è la confusione sotto il cielo: la situazione rivoluzionaria è eccellente”. I proletari prendono le cose, le merci, le case, e spezzano la disciplina sociale. Le “leggi” dell’economia sono stravolte. Sarebbe tutto dentro un processo rivoluzionario, attuale e di lunga durata, e mondiale. Also sprach Toni Negri.

Mentre una parte del terrorismo era marxismo-leninismo in pillole, imitazione casereccia e però orrendamente sanguinosa dei modelli cinese o cubano o persino sovietico, “l’autonomia operaia” ragionava (o sragionava) come ho detto.

Alla fine, tardivamente, dopo tanti fallimenti e inutili e prolungati imprigionamenti, Negri, con il suo alter ego americano Michael Hardt, ha anche provato a volgere in chiave più costruttiva il discorso del primato della lotta nel sociale, valorizzando pure il cooperativismo ugualitario e il mettersi insieme dal basso, come in Assemblea.[12]

Ma qui m’interessava il dato internazionale. Ora va ricordato che un punto chiave dell’operaismo marxista, in ciò persino suo malgrado contiguo al Marcuse di L’uomo a una dimensione (1964)[13], era costituito – nel quadro delle illusioni e ripulse verso il neocapitalismo negli anni Sessanta del Novecento – dall’idea che ormai il capitalismo col suo riformismo potesse dominare tutto, fuorché l’antagonismo operaio (che infatti era quello che si voleva scatenare contro il sistema). Ma a un certo punto si vide che di lì la “rivoluzione” non arrivava (come per altro si era già visto nel primo dopoguerra, e sarebbe bastato a capirlo, con più onestà intellettuale sulle ragioni “più vere” della “rivoluzione mancata”); e non sarebbe arrivata, nonostante i miglioramenti sociali che si ottenevano e furono ottenuti, ad esempio in Italia dal 1968 al 1978.

Allora invece di abbandonare la teoria smentita dalla realtà – con un modo di fare che Popper aveva già stigmatizzato negli storicismi come il marxismo e ahinoi nella psicoanalisi – si riadattò la teoria per renderla riproponibile.[14]

Lo si fece in primo luogo dilatando sino all’inverosimile una tendenza che c’era già in Marx, ma che tramite l’antropologismo “scientifico” di Lévi-Strauss e pure di Foucault, è stata quasi assolutizzata: lo strutturalismo. Esso ci dice che ogni sistema è condizionato in modo nullo o irrilevante dai decisori, perché opera più o meno come il nostro corpo, o universo. Tu puoi non sapere come funziona l’intestino o il cervello o il tuo occhio, ma quelli hanno i loro dinamismi, la loro ratio inerente (quel che i metafisici chiamavano “principio di ragion sufficiente”). Così la rivoluzione proletaria può non sembrare operante affatto, ma sotto sotto sta lavorando “con metodo”, “come una vecchia talpa”, diceva Marx nella famosa pagina di Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte (1852). Così Althusser, attribuendo l’idea a Lenin stesso (in Lenin e la filosofia, del 1969), diceva che la storia, come già nel Capitale di Marx, è “senza soggetto”: accade e si fa, in specie tramite gli automatismi economici; ma non è “fatta” da questo o quello, se non superficialmente. Accade quel che deve e può accadere. E perciò si può dire che il rivoluzionario ha ragione perché nel fondo del fondo la rivoluzione continua (continuerebbe) sempre.

Inoltre si ritenne che se il proletariato – inteso marxianamente come tutta la gente che ha venduto o vorrebbe vendere la propria merce – l’energia lavorativa, la forza lavoro – sul mercato, per campare, cioè la classe dei lavoratori salariati o salariabili – non faceva la rivoluzione o qualcosa di simile, si poteva mutare la nozione di proletariato, identificandolo con le masse diseredate del mondo, cioè con quelli che Fanon aveva chiamato “i dannati della terra”[15], ossia con la “moltitudine” dei diseredati, dei poveri, dei miseri: spiandone i continui movimenti tellurici, di rivolta, in questo o quel punto del globo. L’idea era sempre quella che il capitalismo si autoregola sempre più, come una sorta di organismo unitario di miliardi di cellule interconnesse, salvo che nella massa omogenea proletaria che “di fatto”, sapendolo o meno, non sta al gioco: massa ora costituita da innumerevoli persone analogamente spremute che, sapendolo o meno, rovinano sempre la festa del Capitale, in attesa che i “fochi” della rivolta diventino il grande incendio rivoluzionario del mondo.[16]

In tutto il ragionamento, forse dall’inizio della tendenza, c’è persino un fondo liberista, oltre che libertario, che tende a vedere all’opera qualcosa di molto simile alla mano invisibile che per Adam Smith sembra dirigere il mercato privatistico (nel senso che evidentemente per lui si autodirigeva)[17]. Ci sarebbe la “mano invisibile” del Capitale, ma pure quella del proletariato che lo deve dissolvere per campare.

Così in un saggio best seller che all’uscita io recensii sulla rivista degli studiosi della storia del pensiero politico (“Il pensiero politico”), Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione (2000), Negri e Hardt sostennero che ormai il mondo capitalistico è globale e si autoregola. Presupporrebbe una sorta di poliedro, però unitario, di poteri sovranazionali, di cui fanno parte banche, Grandi Stati, agenzie dell’ONU, eccetera. Le vere guerre in tale quadro sarebbero impossibili (sarebbero ormai operazioni di polizia internazionale contro chi spezza l’ordine omeostatico del Capitale mondiale), che però urta (urterebbe) sempre di più con la resistenza delle moltitudini oppresse. Queste, però, a quanto a me pare palmare possono solo fare delle jacqueries, episodi o atti di rivolta come quelli delle banlieux parigine, che poco incidono sul sistema, tanto che alla fine, nei pochi casi riusciti di rivolta delle moltitudini, ad esempio in Sud America, arriva il solito dittatore populista (in genere economicamente, oltre che in termini di libertà, del tutto perdente, se non economicamente disastroso). Inoltre è necessario perdere tempo a dimostrare che il mondo è di nuovo precipitato nell’era delle guerre vere e proprie anche tra Stati?

Il lettore si chiederà, a questo punto, che c’entri tutto questo con le guerre che tolgono ora il sonno al mondo, in Medio Oriente o tra Russia e Ucraina, per tacere delle altre.

A dire la verità non c’entra niente, ma lo spiegarlo serve a sgombrare il campo dall’illusionismo sull’autonomia della sfera economica rispetto allo Stato; sull’abbattimento dello Stato (che invece risulta sempre o struttura primaria, o “comprimaria”, nella Storia: Stato che non si può affatto abbattere senza provocare immani disastri). E, così, possiamo ora passare oltre, mettendo però nel nostro “pagliaio” questi due tesoretti: che l’economia non determina la vita dello Stato, il quale o la domina o comunque è pure per essa decisivo, sicché o è esso la struttura, o è esso pure struttura, come se la storia avesse un motore nella società civile e uno sovraordinato, lo Stato; e che abbattere lo Stato non conviene affatto, perché i guai che si provocano sono colossali, e poi quello rinasce sulle “proprie” ceneri “più forte che pria”. Non mi pare poco. L’ulteriore analisi su guerra e pace nel mondo, di ciò dovrà ora fare tesoro.

Infine anticipo che tale conclusione non liquida affatto l’istanza post-capitalista e persino anticapitalistica, dato il mondaccio che ci ritroviamo; ma questa “Grande Riforma” o Rivoluzione a mio parere non dovrà più passare attraverso l’abbattimento dello Stato-macchina (anche se la sua forma di governo liberaldemocratica è la meno peggiore e la più produttiva in esso); piuttosto ha a che fare con il buon funzionamento, o governabilità, dello Stato che si abbia, e però anche sulla nascita di forme di vita nuova, libera e autogestita, nella società civile. Quest’ultima annotazione la propongo a mo’ di “post scriptum”, per ora come mera dichiarazione d’intenti, perché richiederebbe una trattazione a parte.

(Segue)

  1. Per una breve classica esposizione della teoria su struttura e sovrastruttura è sempre decisiva la Prefazione di Karl MARX al suo Per la critica dell’economia politica (1859), Editori Riuniti, 1959. L’idea era molto enfatizzata da Friedrich Engels nell’Introduzione alla terza edizione del libro di Marx Le lotte di classe in Francia (1850), del 1895, come emerge chiaramente in: K. MARX, Le lotte di classe in Franca dal 1848 al 1850 (1850), a cura di G. Giorgetti, Editori Riuniti, Roma, 1962. La precisazione di Engels, forse più fuorviante che chiarificatrice, sulla dipendenza della sovrastruttura dalla struttura (economica) “solo in ultima istanza”, era in una lettera sul materialismo storico di Engels a J. Bloch del 21 settembre 1890, che si può leggere in: MARX-ENGELS, “Opere scelte”, a cura di L. Gruppi, ivi, 1966, pp. 1242-1244. Ho discusso questo punto decisivo in: F. LIVORSI, Note su struttura e sovrastrutture, “Il pensiero politico”, a. XIX, n. 3, 1987, pp. 395-400, da me ripreso col titolo: Tesi su struttura e sovrastrutture nel mio: Stato e libertà. Questioni di storia del pensiero politico, Tirrenia Stampatori, Torino, 1992, pp. 303-308. Sono molto tornato su questi temi anche in: Il Rosso e il Verde, L’idea della liberazione sociale, ecologica e spirituale dal XIX al XXI secolo, Golem Edizioni, Torino, 2021, con molte parti anticipate su “Città Futura on line”.
  2. LENIN, L’imperialismo fase suprema del capitalismo (1916), cit.
  3. K. MARX, La guerra civile in Francia (1871): con questo scritto, e Prefazione, F. Engels raccoglie gli indirizzi di Marx, come presidente dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori (Prima Intenazionale), rivolti a caldo alla Comune di Parigi e che contengono questa teoria dello Stato “operaio”, ritenuta desunta dagli eventi della Comune stessa. Questi testi sono pure, con altri scritti intitolati “L’Internazionale e la Comune di Parigi” (1864/1874), in: K. MARX – F. ENGELS, Il partito e l’Internazionale, tr. di P. Togliatti, Edizioni Rinascita, Roma, 1953, pp. 99-218. Il libro di LENIN Stato e rivoluzione. La dottrina marxista dello Stato e i compiti del proletariato nella rivoluzione (1917, ma 1918), è in “Opere complete”, Editori Riuniti, ivi, 1967, vol. XXV, pp. 361-477, è in gran parte un commento attualizzante, rispetto alla Rivoluzione bolscevica prossima, dei testi marx-engelsiani citati.
  4. E. BERNSTEIN, I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia (1899), a cura di L. Colletti, Laterza, Bari, 1968.
  5. Si vedano tutte le pagine su Lenin (“Ilic”) nei Quaderni del carcere (1929/1935, ma postumo, in edizione tematica dal 1948 al 1955) e critica, dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana, Einaudi, 1975, quattro volumi (in specie sulle “Note su Machiavelli”).
  6. Sono da vedere le “Opere complete” di Lenin in 35 volumi edite dagli Editori Riuniti a Roma, ma pure “Opere scelte”, ivi, in due volumi, con tutte le opere fondamentali. Ma si vedano pure con attenzione: J. DEGRAS, Storia dell’Internazionale Comunista attraverso i documenti ufficiali (1971), Feltrinelli, 1975; A. AGOSTI, La Terza Internazionale. Storia documentaria, Editori Riuniti, Roma, 1974, I.
  7. N. MACHIAVELLI, “Tutte le opere”, secondo l’ed. di M. Martelli (1971), Introduzione di M. Ciliberto e coordinamento editoriale di P. D. Accendere, Bompiani, Milano, 2018. Per secoli Machiavelli è stato letto tutto assumendo come punto focale “Il Principe”, come ancora in L. RUSSO, Machiavelli, Laterza, 1945. Oggi si enfatizza come chiave il Machiavelli dei “Discorsi” (vedendolo come il primo grande rappresentante moderno del repubblicanesimo democratico), come in: M. VIROLI, Il sorriso di Niccolò, Storia di Machiavelli, Laterza, 1998. Verso il 1995 Viroli venne a Torino a illustrare le sue tesi al Dipartimento di Studi Politici. Siccome è nato, come Mussolini, a Forlì (e credo anzi persino a Forlimpopoli, vicino a Predappio), interloquendo scherzosamente nei “pour parler”, al Bar, io gli dissi che era originario della “terra in cui è facilissimo confondere la repubblica con il principato”.
  8. Fiorite primavere del capitale, “il programma comunista”, 19 febbraio – 4 marzo 1953, ma lo si veda pure in: A. BORDIGA, Scritti scelti, a cura di Franco Livorsi, Feltrinelli, Milano, 1975, pp. 244-256. L’espressione sulla rivoluzione d’Ottobre come primo caso di grande rivoluzione “che si rincartoccia” è in un epistolario del 1951 tra Bordiga e Onorato Damen, in: O. DAMEN, Amadeo Bordiga, Validità e limiti di una esperienza, Milano, Epi, 1971. Naturalmente rinvio pure al mio libro: Bordiga. Il pensiero e l’azione politica, Editori Riuniti, 1976, che però sarebbe da integrare con altri miei saggi in proposito, e soprattutto col mio saggio: Scienza e politica in Amadeo Bordiga. La critica dell’opportunismo, il settarismo e il determinismo, “Il Risorgimento” (rivista dell’Istituto per la storia del Risorgimento di Milano), a. LVII, n. 2-3, 2005, pp. 263-302, appendice ideale al mio libro del 1976 perché contiene la mia valutazione più meditata su Bordiga.
  9. F. LIVORSI, Socialismo e libertà nel mondo di Gorbaciov, “Il Ponte”, a. XLVI, n. 6, giugno 1990, pp. 19-49.
  10. L. TROCKIJ (L. Bronstein), La rivoluzione tradita (1936), Schwarz, Milano, 1956; La rivoluzione permanente (1928), Oscar Mondadori, 1971. Su Trockij si veda ancora la grande biografia: I. DEUTSCHER, Il profeta armato. Trotsky: 1879-1921 (1949), I; Il profeta disarmato. Trotsky. 1921-1949 (1961), II; Il profeta esiliato: Trotsky, 1929-1940, III (1963), Longanesi, Milano, 1956/1969. E soprattutto: P. BROUÉ, Trotsky (1988), e col titolo: La rivoluzione perduta. Vita di Tockij (1879-1940), Bollati Boringhieri, Torino, 1991.
  11. Il primo testo importante furono le Tesi sul controllo operaio di Raniero Panzieri e Lucio Libertini comparse sul mensile del P.S.I. “Mondo operaio” nel 1958, subito criticate sull’”Unità” e “Rinascita” da Paolo Spriamo ed altri comunisti.Qui parlo di “rinascita” dell’operaismo marxista perché già il sindacalismo rivoluzionario dei primi quindici anni del ‘900 anticipa la tendenza.
  12. V. FOA, Per una storia del movimento operaio, Einaudi, 1980; Il cavallo e la torre. Riflessioni di una vita, ivi, 1991; “Quaderni rossi”, rivista di Panzieri e poi dei suoi continuatori edita a Torino dal 1961 al 1966, con ritmo semestrale; “Classe operaia”, mensile diretto da Mario Tronti nel 1964/1966; R. PANZIERI, Dopo Stalin. Una stagione della sinistra. 1956-1959, a cura di S. Merli e L. Dotti, Marsilio, Venezia, 1986; R. PANZIERI, Lettere. 1940-1964, a cura di S. Merli e L. Dotti, ivi, 1987; M. TRONTI, Operai e capitale, Einaudi, 1966; Il politico. Antologia di testi, Feltrinelli, 1979; Dello spirito libero. Frammenti di vita e di pensiero, Il Saggiatore, Milano, 2015. Si vedano pure, su “Città Futura on line”, i miei articoli: Operai e capitale nell’Italia in cammino: il punto di vista di Mario Tronti (3 dicembre 2023), Operai e capitale nell’Italia in cammino: il punto di vista di Mario Tronti (3 dicembre 2023), Comunismo italiano, “autonomia del politico” e spirito libero nel pensiero di Mario Tronti (3 dicembre 2023). Ma si vedano: A. NEGRI, Dall’operaio massa all’operaio sociale. Intervista sull’operaismo, a cura di P. Pozzi e R. Tomassini, Multhipla, Milano, 1975, che chiarisce in modo esemplare idee e storia della corrente; con M. HARDT, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, 2000; Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, ivi, 2004; Assemblea (2017), Ponte alle Grazie, Milano, 2018. Si legga pure la fluviale autobiografia, che è interessante non tanto per la vita in sé di Negri o per la stessa storia della sua microfrazione (che pure hanno il loro senso – però, per la Storia, minimo: vita e storia di cui evidentemente, e umanamente, Negri sopravvalutava decisamente l’importanza) quanto perché finisce per discutere abbastanza diffusamente e profondamente tutte le idee e opere importanti del pensiero marxista e libertario europeo, in specie italiano e francese. L’autobiografia – Storia di un comunista (ma prima, e non a caso, Negri, come si evince chiaramente, seppure di scorcio, era stato molto cristiano, dirigente importante dell’Azione Cattolica, e poi socialista di sinistra persino segretario della Federazione del PSI di Padova) – è comparsa, a cura di G. De Michele, presso Ponte alle Grazie di Milano, nel 2015 (I), 2018 (II) e 2020 (III). In quest’ultimo volume – Da Genova a Torino. Storia di un comunista – si manifesta appunto un certo stupore, di cui si è detto, per la scomparsa dei comunisti.
  13. Einaudi, 1967.
  14. K. POPPER, Miseria dello storicismo (1944-1945), a cura di C. Montaleone e con Introduzione di S. Veca, Feltrinelli, 1988.
  15. L. ALTHUSSER, Lenin e la filosofia (1969), Jaca Book, Milano, 1969. Si tratta della “questione della personalità nella storia”, su cui, nella stessa direzione impersonalitica (o non-personalistica) vi sono stati importanti apporti di Engels, di Plechanov e di Amadeo Bordiga.Per l’ipervalorizzazione rivoluzionaria delle masse diseredate del mondo specie a partire dalla loro pelle nera (la “negritudine”), si veda: F. FANON, I dannati della terra (1961), Einaudi, 2000.
  16. Seguendo questo ragionamento si potrebbe dire che il proletariato, sempre antagonistico nel profondo, dal punto di vista borghese incarna le cellule tumorali che cercano di distruggere l’organismo (capitalistico), mentre dal punto di vista dei lavoratori e di chi vive del lavoro rappresenta gli anticorpi che difendono l’organismo collettivo dal tumore maligno capitalistico che lo distrugge.
  17. A. SMITH, La ricchezza delle nazioni (1776), a cura di A. Graziani, Bollati Boringhieri, Torino, 1969.

    Potrei documentare questa valorizzazione dell’autoregolazione delle forze produttive, “girata” in senso operaistico, in decine di passaggi delle opere citate di Negri (o di Hardt-Negri).


pubblicato il 01/10/2024

Cinque vie alla pace nel mondo nella storia del pensiero politico: III) Il realismo nazionalista

di Franco Livorsi

Ora vorrei provare ad esplorare – su guerra, e soprattutto pace, mondiale – tre forme di pensiero che considero di tipo realista: il realismo che chiamerò “nazionalista”; il realismo che dirò conservatore, illiberale e liberale; e, infine, il realismo democratico e federalista. Non sfuggirà il fatto che non ho chiamato “realista” né l’approccio pacifista cristiano né quello internazionalista proletario, su cui già mi sono soffernato. E non per caso.

Preciso, però, che utilizzo il termine “realismo” non tanto come sinonimo di concretezza o fattibilità delle idee che si abbiano, ma al modo assolutamente corrente nel pensiero politico, ossia come maniera di ragionare che privilegia su tutto la considerazione dei rapporti di forza. Il realista politico non perde tempo, o non perde troppo tempo, a vedere chi abbia ragione, ma vede come si possa fare a vincere nelle lotte della vita e della storia. Per lui le altre considerazioni vengono tutte “dopo”, e spesso connotano i “poveri illusi”. Sa infatti bene che pure il suo avversario farà altrettanto. Se non fa così mostra solo – come dice Machiavelli – di essere uno che “non se ne intende”. Il buon realista lo fa per la parte, idea, classe o nazione in cui creda, tutto stravolgendo per far vincere la sua area (e sé stesso con essa); ma legioni di mezze calzette sono pronte a tutto per un avanzamento di carriera o per quattro soldi (pòuri diàu).

Il realismo politico, che è sempre persino troppo attento al rapporto di forza, ha una lunga storia che va dal primato del “politico” di Machiavelli, politico che per fondare, mantenere ed espandere lo Stato può compiere azioni efferate, almeno secondo Il Principe (1513, ma 1532)[1]; all’idea della sovranità dello Stato come un che di indivisibile, per non spezzare lo Stato stesso, precipitando tutto nell’anomia, come uno che faccia a pezzi la chiglia della nave con cui attraversa i mari: sovranità indivisibile, assoluta e perpetua del “sovrano” teorizzata, nel 1576, in De la république (“lo Stato”) da Jean Bodin, come pensatore “politique”, per porre lo Stato stesso fuori e sopra la lotta delle fazioni, allora in Francia tra cattolici e protestanti calvinisti (“ugonotti”)[2]; alle teorie espresse in Della ragion di Stato dal gesuita piemontese Giovanni Botero e, in I ragguagli del Parnaso, da Traiano Boccalini, pensatori dell’assoluto primato dello Stato, allora assolutista, nella vita collettiva, anche al di sopra della morale se necessario, come condizione fondamentale per il bene comune, anche economico oltre che di pace interna e di potenza esterna[3]; all’idea dello Stato come sola possibilità di evitare “la guerra di tutti contro tutti” (il bellum omnium contra omnes), ossia la condizione homo hominis lupus ritenuta propria della natura egoistica dell’uomo naturale (allo “stato di natura”, in cui si riprecipiterebbe necessariamente durante ogni guerra civile, per la morte temporanea dello Stato), secondo il Leviatano (1651) dell’assolutista Thomas Hobbes[4]: sino – in epoca di Restaurazione, post-napoleonica – alla teoria dello Stato come normatore etico al di sopra dei nuclei familiari naturali e dei conflitti “selvaggi” della società civile ove quest’ultima – detta talora “bestia selvaggia” e che è innanzitutto l’economia reale – non sia disciplinata dallo Stato stesso, propria di Hegel in Lineamenti di filosofia del diritto (1821)[5].

Ma tutti questi passaggi, intrisi di realismo politico, ruotano attorno alla centralità dello Stato moderno, col suo esclusivo potere sovrano, mentre – fermo restando lo statalismo autoritario, almeno per l’approccio nazionalista – a un certo punto emerge con forza un’altra dimensione decisiva ulteriore: il patriottismo (nel XIX secolo soprattutto di liberazione nazionale da un dominatore straniero), che soprattutto in tutto il XX secolo diverrà imperialistico, e che sarà meglio definito, piuttosto che col termine patriottismo, col termine nazionalismo. Ma già nel patriottismo, che pure è termine più congruo a definire l’ipervalorizzazione della propria patria da liberare da potenze straniere, è latente qualche traccia di nazionalismo (sol che si pensi all’”elmo di Scipio” del patriota repubblicano Mameli, autore del nostro inno nazionale, composto nel 1847).

Comunque in linea di tendenza, in tutti i passaggi sin qui indicati, il soggetto principale non era il cittadino, non era la nazione, ma lo Stato. Andando a grandi linee si può dire che sino al 1789 non era stato lo Stato ad afferire al cittadino, almeno nell’Europa continentale, ma era stato il cittadino ad afferire allo Stato, tanto che spostandosi i confini degli Stati coi trattati, e le diverse attribuzioni di regni, mutava pure l’appartenenza nazionale del cittadino stesso, e per secoli ciò era parso ovvio. Ma nel 1789 inizia la Rivoluzione francese e, con essa, comincia a nascere il patriottismo “spinto”. Chi non ricorda l’inno della Francia, il canto dei volontari di Marsiglia del 1792 contro gli Stati d’Ancien Régime” schierati contro la Rivoluzione, La Marsigliese, con quel formidabile attacco “Les enfants de la patrie”? Lì l’appartenenza è diventata in primo luogo appartenenza alla patria, cui lo Stato da allora prende sempre più ad afferire almeno idealmente (o di fatto o almeno giuridicamente, con la “legge uguale per tutti” a prescindere dal ceto, perché lo Stato da allora trae il suo valore dal suo incarnare, o meno, in una forma o nell’altra, la volontà generale dei suoi cittadini – ossia il cittadino “collettivo” almeno ideale – in tutte le forme di governo, ma in specie nelle democrazie, che infatti, quasi sempre, alla fine della fiera vincono la partita con le potenze autoritarie, che sembrano sempre più forti, mentre il più delle volte risultano, guarda caso, più deboli[6]).

All’inizio del XIX secolo, proprio contro l’imperialismo rivoluzionario, o riformista “borghese”, di Napoleone “imperatore”, l’idea di patria dilagherà, specie a partire dai Discorsi alla nazione tedesca di Fichte (1807-1808), in cui il patriottismo si esaspera, ma dentro un nazionalismo ancora di liberazione nazionale (allora dalla Francia). Lì nazionalismo è ancora sinonimo di patriottismo, tra l’altro in primo luogo culturale e spirituale. Non c’è ancora il nazionalismo del – e dal – secolo successivo: imperialista e razzista, nonostante quel che dice parlando di Fichte ad esempio un noto manuale di storia del pensiero politico scritto da un francese (J. J. Chevallier[7]). Ma subito, dietro il patriottismo, emerge appunto il nazionalismo, che in sostanza è il patriottismo diventato imperialistico. Spesso lo si vede ad occhio nudo. Ad esempio in Italia il vero protagonista siciliano dell’impresa dei Mille del 1860, Francesco Crispi, già mazziniano fervente, convintissimo ed esemplare, e decisivo per l’impresa di Garibaldi, diverrà poi il primo “uomo forte” di governo e mancato conquistatore dell’Etiopia[8], anticipando Mussolini. Ma qual è il passaggio fondamentale dal patriottismo al nazionalismo nella storia pregressa, in termini di evoluzione (o involuzione) delle idee politiche?

Non lo è tanto il patriottismo imperialistico napoleonico, ancora pieno di tratti illuministi, da nuovo ordine dispotico cosmopolita, da “sacro romano impero” semplicemente imborghesito, emancipatosi dai preti e dalla vecchia nobiltà, in marcia da Parigi a Mosca, e purtroppo sconfitto. Un impero più o meno mondiale con capitale a Parigi non sarebbe stato tanto male, come ha detto di recente lo storico divulgatore Alessando Barbero.

Il nazionalismo novecentesco, imperialistico, arriva, piuttosto, nell’ultimo ventennio dell’Ottocento, attraverso la grande colonizzazione di Africa e Asia da parte delle potenze occidentali diventate modernamente capitalistiche. Ma su ciò qui, in riferimento al pensiero politico, mi interessa la cultura coeva, la cultura del nazionalismo imperialistico (il suo pensiero politico), che in sostanza fu il darwinismo sociale, cioè l’applicazione del principio darwiniano dell’evoluzione delle specie attraverso la lotta per la vita, mediante selezione naturale, dalla biologia alla società umana, e allo Stato e relazione tra Stati.[9]

La borghesia capitalistica, dopo aver liquidato in modo sanguinosissimo l’ultima rivoluzione del ciclo 1789-1871 (una tentata rivoluzione proletaria dopo la disfatta di Napoleone III a Sédan, la Comune di Parigi), ormai sicura dei fatti suoi andava alla conquista di Africa e Asia tramite l’imperialismo coloniale, in base ad una pretesa superiorità biologica su razze pretese inferiori (per nazionalisti, e poi fascisti e nazisti), o quantomeno “primitive” e da subordinare ed educare, secondo il pensiero liberale del tempo, per il loro stesso bene. Ho detto “borghesia”, ma se vogliamo di Stato moderno capitalistico per me va bene lo stesso.

Nel nazionalismo, fascismo e nazismo era sempre sotteso il darwinismo sociale, cioè l’indebita applicazione del darwinismo dalla biologia alla politica. La si trova teorizzata in forma liberista in Spencer. La si trova in Kipling, il grande e umanissimo scrittore dell’imperialismo inglese più deciso (per quanto lo scrittore fosse pure nato, e innamorato, dell’India). Ma da ottimo nazionalista inglese (morto nel 1936) fece in tempo ad ammirare Mussolini e al principio, ma subito pentendosene, pure Hitler.[10]

L’approccio dottrinario politico nazionalista (imperialista) si trova espresso nella Politica di Heinrich von Treitschke, che è vero e proprio pensiero politico del nazionalismo imperialistico guglielmino germanico.[11] Lo si trova poi in Hitler, il cui proposito deliberato era proprio quello di essere per il nazionalismo quello che Lenin era stato per il comunismo. Invece dell’economia critica come scienza della pretesa necessaria fine del capitalismo (Marx e Lenin), si aveva, in Hitler, un biologismo pseudoscientifico, che sostituiva alla lotta tra le classi una cosiddetta lotta biologica tra razze pretese superiori e pretese inferiori nella storia, e anche dentro ogni Paese: etnie pretese inferiori da piegare, asservire e in condizioni estreme sterminare (come l’ebraica)[12]. Tutto ciò è pure “realismo” politico nel senso di visione per cui la sola cosa che conti sono i rapporti di forza: mors tua vita mea. Anche se come si vedrà questo realismo assoluto non è mai realistico (ora pure a dispetto di Putin, e, nonostante l’ovvio antinazismo ebraico, pure di Netaniahu).

Ora va notato che nel nazionalismo novecentesco, oltre al darwinismo sociale di cui si è detto, si ha pure una strana mescolanza con l’idealismo della destra hegeliana[13]. Parrebbero tendenze antitetiche, e in Italia in gran parte lo furono (neoidealismo contro positivismo), ma la miscela tra nazionalismo biologico e statalismo hegeliano di destra spesso “di fatto” fu forte, insopprimibile nel nazionalismo.

Nel nazionalismo, e poi nel fascismo, statalismo “forte” apologeta dello Stato come coscienza incarnata dei cittadini (idealismo hegeliano) e positivismo “di destra” (evoluzionismo biologico applicato alla lotta dei popoli) si danno la mano. Ad esempio questo si vede bene in un giurista di primissimo ordine passato dal Nazionalismo al Fascismo: Alfredo Rocco, l’autore del famoso Codice Penale del 1930. La sua visione dello Stato è quella di un hegeliano di destra, ma la sua visione complessiva, come quella dell’Associazione Nazionalista delle “camicie azzurre” di cui faceva parte dal 1910, confluita nel febbraio 1923 nel Partito Nazionale Fascista, è appunto darwinista politica: imperialista coloniale e antidemocratica, come quella di Enrico Corradini. Lì la forza si fa diritto, preteso diritto, tanto più tra popoli pretesi superiori e pretesi inferiori.[14]

In realtà il fascismo ha una storia molto complessa, e anche ondivaga, e un’ideologia articolata da studiare, irriducibile alle storie per spaventare i bravi bambini che oggi vanno di nuovo per la maggiore, ma questo complesso tema esula dalle questioni sulla guerra e soprattutto pace mondiale che in queste riflessioni vorrei avant tout trattare.

Piuttosto vorrei concentrarmi su due grandi temi, che emergono nel nazionalismo e nei fascismi e post-fascismi: 1) L’estetizzazione del realismo politico (dirò poi in che senso); 2) l’idea di pace nel mondo o nuovo ordine mondiale, come si è evoluta da Hitler al notevole giurista, per tutti geniale, ma non per questo meno reazionario e compromesso col nazismo sino al midollo, Carl Schmitt).

A me sembra che nei fascismi accada uno strano fenomeno, che credo sia da rapportare da un lato alla cultura “darwinista” positivista della lotta a morte per la vita indebitamente applicata alla storia umana, e dall’altra al combattentismo volontario e comunque entusiasta, da “camerati”, di chi aveva fatto la Prima guerra mondiale per così dire col coltello tra i denti, e comunque con forte convinzione che fosse la continuazione del Risorgimento: l’assumere come bellissimo ideale, iper-realistico, conforme alle dure leggi della vita come guerra degli esseri viventi, quello che per quasi tutti i pensatori di cui ho detto da Machiavelli a Hegel era stato al più una dura necessità della storia: la logica del salvare, o fondare, o rifondare lo Stato anche con la forza e ad opera del Capo; l’essere antidemocratici e totalitari persino per principio; il non fare alcun conto dei freni morali; la disposizione a contraddirsi, smentirsi, ingannare, aggredire, uccidere come se fosse la cosa più “naturale”, e spesso “bella”, del mondo; una sorta di fascinazione del sangue (ecco l’estetizzazione del “realismo” politico). Già si intravede nel Manifesto del Futurismo del 1909, non in tutto quel che può essere stato in quel movimento culturale un’importante valorizzazione della rottura col passato, ma laddove si diceva, al punto 9: “Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna”.[15] Ma poi, nel testo importantissimo Fascismo per la Treccani, del 1932 – tutto firmato da Mussolini, che scrisse la parte sul movimento politico, affidando quella sulla “Dottrina del fascismo” al filosofo neoidealista (neo-hegeliano) Giovanni Gentile, che scrisse per lui, certo discutendo insieme – non solo si rivendica apertamente il carattere antidemocratico e totalitario del fascismo, ma si dice: “Anzitutto il fascismo, per quanto riguarda, in generale, l’avvenire e lo sviluppo dell’umanità, e a parte ogni considerazione di politica attuale, non crede alla possibilità né all’utilità della pace perpetua.” (Questo naturalmente era contro il piccolo prezioso libro di Kant del 1795 Per la pace perpetua). “Respinge quindi il pacifismo, che nasconde una rinuncia alla vita e una viltà – di fronte al sacrificio. Solo la guerra porta al massimo di tensione tutte le energie umane e imprime un sigillo di nobiltà ai popoli che hanno la virtù di affrontarla. Tutte le altre prove sono dei sostituti, che non pongono mai l’uomo di fronte a sé stesso, nell’alternativa della vita e della morte. (…) Questo spirito antipacifista, il fascismo lo trasporta anche nella vita degli individui. L’orgoglioso motto squadrista ‘me ne frego’ scritto sulla benda di una ferita” – motto in realtà degli arditi della Grande Guerra – “è un atto di filosofia non soltanto politica; è l’educazione al combattimento, l’accettazione dei rischi che esso comporta; è un nuovo stile di vita italiano. Così il fascista accetta, ama la vita, ignora e ritiene vile il suicidio; comprende la vita come dovere, elevazione, conquista: la vita che deve essere alta e piena: vissuta per sé, ma soprattutto per gli altri vicini e lontani, presenti e futuri”.[16] E qui, alla fine, si sente proprio la mano del filosofo dell’atto puro, Gentile.

Qui interessano molte cose. È chiaro l’ideale del combattente. E questo è importante non solo per capire la mania delle armi persino di taluni politici d’area che si gingillano con esse pure oggi a Natale, ma il fatto che fascismo e nazismo nascono da un humus volontariamente combattentistico, tanto che sarebbe stato assolutamente impossibile che tali movimenti prendessero forma di massa consistente senza la Grande Guerra, che è la vera cesura del Novecento, pure più delle rivoluzioni (socialiste) e delle rivoluzioni contro le rivoluzioni (fascismi), ulteriori. Ma spiega pure tutta quella tendenza dei fascismi a gettarsi in guerre senza che fosse minimamente indispensabile, come in Africa (1935-1936) o in Spagna (1936-1939) e persino nel 1939 o 1940, come se fosse normale risolvere con la guerra i conflitti politici, dentro gli Stati (contro un preteso nemico interno, preteso antinazionale) e tra gli Stati (contro il nemico esterno). Qui c’è una differenza veramente fondamentale tra il realismo politico classico o conservatore, di cui dirò in seguito, e quello nazionalista e fascista. Il primo faceva delle guerre come extrema ratio.

Qui, invece, la violenza, interna e tanto più internazionale, è un fin troppo “bello” scenario, per chi senta così, che gli consente di giocare con la vita (purtroppo non solo mettendo a repentaglio la propria, ma anche quella dei tanti che ne avrebbero fatto o farebbero decisamente a meno, come fu vero non solo in Italia, ma pure in Germania, dove ancora bruciava la memoria della Grande Guerra; ma si era succubi del partito dominante, e soprattutto del proprio “duce” o führer). Ma quest’estetica della violenza aveva i suoi estimatori, che erano quantomeno una forte minoranza sociale convinta e persuasa. In Germania c’è pure stato un grande scrittore e intellettuale, poi pure post-nazista, che della guerra aveva fatto una sorta di ideale esistenziale, Ernst Jünger, l’autore di Tempeste d’acciaio (1920) e altri testi letterariamente importanti, comunque degni di essere letti e meditati, che non erano certo paccottiglia[17]. Egli non era neppure un nazista, ma semmai uno dei cosiddetti “rivoluzionari conservatori”, e non era affatto antisemita, ma era stimato dai nazisti, come vero “guerriero” per vocazione e teorico della bella vita come guerra. Hitler lo ammirava a un punto tale che quando, dopo l’attentato del 1943 in cui si salvò a stento, gli dissero che pure lo scrittore era stato coinvolto, invece di approvare il solito processo sommario che si concludeva impiccando i congiurati e talora appendendoli a ganci da macellai, disse loro: “Lasciate stare Jünger”.

Ma è soprattutto interessante la contrapposizione tra il punto di vista del massimo studioso di strategia militare Clausewitz, il generale e nobile prussiano autore del famoso trattato Della guerra (1832), e uno dei più grandi politologi contemporanei, fortissimamente compromesso col nazismo, Carl Schmitt. Clausewitz aveva detto che “la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi”.[18] Ma il filosofo politico “nazi” Schmitt, in Il concetto del politico (1927) e altrove, diceva che “è la politica ad essere la continuazione della guerra con altri mezzi”. Infatti tutta la politica, segnatamente nell’epoca contemporanea in cui l’irruzione delle masse avrebbe avviato la morte dello Stato “sovrano”, sarebbe segnata dalla relazione tra “amico e nemico”. Il vero politico, in tal caso, è quello che oppone al caos, oramai dilagante in una statalità ormai fatalmente moritura, la sua deliberazione, in condizioni di emergenza: come “decisore”, fonte di diritto. Così quando nel 1934 Hitler, partecipando persino di persona all’efferatezza dell’evento, sterminò i capi delle sue “Squadre d’Azione”, SA che volevano soppiantare con i loro effettivi i capi dell’esercito regolare della Wermacht, il reazionario Schmitt plaudì dicendo che non è la buona legge a fare il buon führer, ma è il buon führer a fare la buona legge.[19]

Schmitt era soprattutto un hobbesiano. Secondo il suo maggior studioso italiano, il mio ex collega dell’Università di Bologna Carlo Galli, autore di una vastissima e profonda opera su di lui, Schmitt si credeva addirittura la reincarnazione di Hobbes, come gli sentii dire alla Fondazione Firpo di Torino nel 1996[20] (e secondo altra studiosa curatrice per la BUR di un’edizione della Città del sole di Campanella, Luigi Firpo aveva lo stesso convincimento relativamente all’amato Campanella: tanto grande è talora il rapporto tra uno studioso e il suo autore, anche se un lama tibetano potrebbe pure dar credito ad entrambi, magari con qualche buon appiglio, a quel che sono portato a sospettare e talora credere pure io).

Anche per Schmitt solo lo Stato in cui chi l’impersona ha la totalità del potere (sovranità), garantisce la pace interna, anche se non può garantire facilmente quella internazionale, perché qualsiasi sentenza anche di diritto internazionale se non ha uno Stato che possa imporla, come si è poi visto tante volte, poco o nulla vale (o varrebbe). Ma secondo lo Schmitt più maturo, del Nomos della Terra (1950)[21], nel XVIII e XIX secolo gli Stati erano almeno pervenuti a un pur precario, ma profondo e di lunghissimo periodo, ordine mondiale, in cui certo esplodevano guerre, ma eccezionalmente e circoscritte; c’era stata, insomma, una sorta di instabile stabilità, o “equilibrio”, durato più o meno due secoli, ma soprattutto dal 1815 al 1914. Gli Stati potevano pure fare guerre, dopo le fratricide guerre di religione anteriori tra cattolici e protestanti, ma ora erano guerre limitate, tra monarchie imperiali, risolte con trattati perché erano tra contendenti che non negavano la legittimità dell’altro. Se le davano di santa ragione, talora anche molto sanguinosamente, ma senza coinvolgere i non combattenti, e sapendo che quando fosse stato possibile avrebbero fatto pace riconoscendosi di nuovo reciprocamente da buoni amici e magari re parenti. E fu così più o meno sino al 1914, quando i grandi Stato-impero precipitarono in una lotta a morte, che per Schmitt avrebbe dato inizio alla decadenza della forma Stato (anzi, alla necrosi dello Stato, all’era della “morte dello Stato” come sovranità che vale per tutti, e fatta di Stati tutti “umani”), cioè avrebbe dato inizio alla decadenza dei grandi Stati o Stati imperiali caratterizzati da “grandi spazi” (senza i quali Stati dei “grandi spazi”, o Stati imperiali, o continentali, non ci sarebbe pace durevole sul pianeta). Allora, come si vedrebbe bene dal 1917 in poi, è caduta la legittimazione reciproca, sicché sono arrivate le guerre per distruggere l’avversario, mors tua, vita mea (la Grande Guerra fu la prima). Da allora lo Stato avversario, e spesso pure il “nemico” interno, è troppo spesso odiato e possibilmente ammazzato, tanto più nei conflitti internazionali; è visto come un nemico del genere umano da distruggere, con guerre rivoluzionarie interne e guerre tra Stati esterne (conflitti per “far fuori” l’avversario “per sempre”, nelle intenzioni).

Tuttavia ci sarebbe una via alla pace mondiale, se non “perpetua” almeno di lunghissimo periodo; e a questo, ben inteso per Schmitt, avrebbe mirato pure il nazismo, che non a caso nel corso della Seconda guerra mondiale parlava della volontà di costituire un Reich “millenario”.

Hitler non giocava solo alla guerra, ma pur sognando per un futuro remoto un Reich planetario, mirava a un ordine tra pochi grandi imperi, come quello che per Schmitt ci sarebbe stato più o meno sino al 1914; avrebbe mirato a un ordine della Terra mandato in pezzi dalla Grande Guerra, distruttrice dei grandi imperi monarchici tradizionali. Schmitt era in sostanza un cattolico reazionario, di destra, approdato al nazismo come Von Papen.

In realtà Hitler voleva un impero etnocentrico, in cui gli slavi fossero sotto i tedeschi come fossero stati i neri dell’Africa per gli inglesi del secolo XIX e sino al 1945, e questo portava non nuovo ordine, ma nuovo disordine, come ha spiegato Carlo Galli pure al Festivalfilosofia del 2016.

Ma comunque è vero che conquistata la Francia, Hitler avrebbe voluto spartirsi il mondo con gli inglesi, considerati ariani cugini dei tedeschi, ma non capì che una Germania nazista da Berlino a tutto l’Est Europa, non poteva garbare all’Inghilterra liberaldemocratica (e alla sua potentissima sorella ancor più tale, l’America); non lo capiva perché guardava solo agli interessi di potenza, trascurando le diverse visioni del mondo, ma pure l’interesse a impedire che altri diventassero troppo forte, a casa d’altri.

Qui c’è un punto decisivo da capire tanto in riferimento a Mussolini e ad Hitler, ma pure a Putin: il realismo nazionalista considera il primato del rapporto di forza così universale da non poter capire, per una sorta di ultrarealismo, il pensiero altrui: in specie il fatto che pure nel mondo politico il ragionamento basato sulla pura forza non può bastare, perché è solo un aspetto, per quanto magari primario, dell’agire politico. Così Mussolini pensò, nel 1940, di entrare in una guerra che secondo lui stava finendo, e così rovinò il Paese e persino sé stesso e la sua parte. Hitler pensò ugualmente che l’interesse inglese fosse quello di lasciarlo andare a Mosca invece che “dall’altra parte”, per lo stesso ultrarealismo, in realtà non realistico. Per la verità dapprima e pure dopo, nel 1939 come nel 1941, cercò di bilanciare il rischio. Nel 1939, temendo la guerra su due fronti, fece il famoso Patto Molotov-Ribbentrop con la Russia di Stalin, ma proprio quello unì tutta l’Inghilterra (e i “moderati”) contro di lui (Chamberlain, che aveva ceduto molto nel Patto di Monaco del settembre 1938 a danno dei cechi, lo definì un bandito, e così in Inghilterra andò al potere un nemico irriducibile dei nazi, che forse è il più meritevole di tutti nella lotta contro Hitler: Churchill). Ma nel 1941, convinto che con le immense risorse dell’est avrebbe avuto mezzi illimitati per resistere anche decenni, e per convincere i nemici a un compromesso vantaggioso per la sua parte, e sottovalutando l’URSS, invase l’URSS, e così si trovò in insormontabili difficoltà. Anche lì vedendo solo l’aspetto “della forza” non comprese “l’anima russa”, così evidente già in Guerra e pace di Tolstoj[22] (anzi, il suo disprezzo razzista per gli slavi non glielo fece capire per niente). Si sa come andò a finire.

Qui io ricaverei la conclusione teorica per cui il realismo nazionalista si converte in un eccesso di bellicismo (in cui invece non erano cadute altre forme di Stato del passato come del presente), bellicismo che vedendo solo rapporti di forza, e ignorando o sottovalutando molto le altre componenti dell’agire politico, prende poi un sacco di legnate. (Può darsi che oggi Putin, con l’Ucraina, e il marcio e impotente Occidente, abbia fatto lo stesso errore, tipico del nazionalismo autoritario, anche ai massimi livelli politici; e forse il nazionalista sionista Netaniahu, pur non confrontabile in nulla con gli avversari “nazi” del suo popolo, per lo stesso nazionalismo “proprio”, stia facendo la stessa sciocchezza, con un islamismo che è un quarto del genere umano, che si può e deve detestare nella sua forma antifemminile, antisemita e teocratica, ma non sottovalutare scherzando troppo con un tale fuoco).

A questo punto torno a Schmitt in riferimento a due punti del suo pensiero politico. Uno è relativo a un suo saggio del 1942, Terra e mare[23]. Lì Schmitt, totalmente immerso nel III Reich, faceva un complesso ragionamento al tempo stesso geopolitico e psicopolitico, contrapponendo l’atteggiamento delle potenze di terra e mare nel corso della storia, sino a Russia e Germania da una parte e Inghilterra e America dall’altra. Le potenze di terra sarebbero – per vocazione di lungo periodo – tendenti al blocco d’ordine, al legame col suolo, a realizzare imperi stabili, autoritari o semiautoritari. (È pure probabile che Schmitt, pensando alle potenze di terra, disapprovasse l’invasione dell’URSS senza poterlo né volerlo dire). Le potenze del mare, il quale non ha confini e già per Grozio avrebbe dovuto essere “di tutti” per la pace comune, sarebbero invece realizzatrici di ordini politici instabili, con poco ordine, “liberali”, anche se vincitrici da secoli a quanto pare.

Schmitt, che visse quasi cento anni, tornò su questi temi nel grande libro già citato Il nomos della terra. Sarebbe possibile avere pace a tempo indeterminato, sia pure con guerre circoscritte, solo se si riformassero Stati-impero, in “grandi spazi”, come prima del 1917.

Questi tratti sono tutti ripresi e approfonditi dalla nuova destra internazionale. Siccome la globalizzazione, che è parsa convenire solo alla Cina, è sostanzialmente fallita, incapace di frenare i flussi dei popoli e l’economia mondiale, la “crisi del futuro”, come dicevano Morin e la Kern, “riattualizza il passato”[24]. Per cui la destra torna: naturalmente in panni e forme nuove (“democratura”, mix tra autoritarismo e parlamentarismo), come movimento di popoli.

Ha iniziato, e continua a scrivere, in tale ambito, un prolifico autore, che sin dal 1981 produsse un grosso tomo, Visto da destra: Alain de Benoist.[25] Benché meriterebbe uno studio più accurato, sembrerebbe essere più che altro un forte eclettico e non un pensatore originale, uno aperto a suggestioni diverse che cerca di comporre in un puzzle, e non il creatore di un nuovo pensiero politico, ma semmai solo il sognatore di una cosa alternativa alla cultura della sinistra marxista o socialista o liberale progressista. Da più di quarant’anni Alain de Benoist coltiva l’ambizione di enucleare autori e idee propri di un paradigma di destra di lunga durata, di cui i fascismi sarebbero stati solo un episodio, un capitolo: momento transitorio di una rivoluzione conservatrice di lungo periodo. Oggi insiste sul carattere obsoleto delle differenze tra destra e sinistra, cercando la coincidentia oppositorum contro l’americanismo, contro il capitalismo finanziario e pure contro il cristianesimo (in vista del neopaganesimo[26]). Viene sviluppata una tematica vicinissima a quella del Nomos della Terra di Schmitt, a favore di un mondo non più bipolare (nel senso di USA e URSS, ma pure di Cina e Stati Uniti), con tratti però pretesi neo-rivoluzionari. In pratica si vorrebbe un mondo di Stati-impero illiberali, autoritari e non, che possano coesistere com’era stato nel XVIII-XIX secolo e soprattutto dal Congresso di Vienna 1814-1815 al 1917.

Su ciò non solo c’è “schmittismo” intenso, ma pure forte convergenza con l’ideologo preferito di Putin, Alexander Dugin (sino a scrivere pure un libro con lui, Eurasia, nel 2014[27]): un Dugin di cui in rete su You Tube ci sono importanti interviste in perfetto italiano, tra cui una a un vecchio che era stato il primo grande eretico maoista in Italia già all’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso (o forse dopo il 1956), Dinucci, allora con la sua “nuova unità”, organo di un cosiddetto partito comunista d’Italia marxista-leninista. Dugin sarebbe da approfondire soprattutto per il suo libro La quarta teoria politica.[28] Ma il discorso è già stato abbastanza lungo e perciò mi limito a due osservazioni.

La prima osservazione mi induce a sottolineare che Dugin – il quale tra l’altro ha alle spalle una storia di studioso non d’accatto – è alla ricerca di una teoria politica che superi i tre grandi indirizzi degli ultimi secoli: liberalismo, fascismo (nazifascismo) e socialismo (socialcomunismo). L’istanza non sarebbe da buttar via se fosse in avanti, mentre invece sembra rifriggere idee naziste e post-naziste di Schmitt (e del neo-reazionario italiano Julius Evola), ossia pretende di andare avanti procedendo come i gamberi. E questo è pure il limite di de Benoist: proporre con qualche nuovo ingrediente e adattamento, cercando di evitare vecchie cose già risultare immangiabili, minestre riscaldate, che non sono mai buone.

La seconda osservazione concerne un tratto effettivamente nuovo del nuovo nazionalismo planetario. Tale tratto si rende evidente in un controverso personaggio che è stato per anni l’ideologo di Trump, Steve Bannon, teorico dell’Alt-Right (Alternativa di Destra)[29]: il carattere autoreferenziale, in primo luogo interno, del nuovo nazionalismo, inteso soprattutto come sovranismo che rifiuta il preteso “estraneo in casa” (questa volta ritrova lo straniero “inferiore” da soggiogare nel preteso estraneo immigrato nemico, da cacciare o almeno non fare entrare a nessun costo). Mentre il vecchio nazionalismo era soprattutto un imperialismo espansionistico, il nuovo tende a coesistere con imperi o autoritari o con democrature (e ad essere democratura). La lotta del nuovo nazionalismo non è più volta principalmente a sottomettere pretesi inferiori, ma a tenerli il più possibile lontani dai propri sacri confini. Ecco il trumpismo, ma pure il tratto di tutte le “democrature” che cercano di nascere nel mondo, ben al di là dell’Ungheria e Turchia.

Persino l’attuale leader di Israele, Netaniahu, è un neonazionalista, che pretende di potenziare al massimo la sicurezza e il benessere e la potenza internazionale dell’etnia dominante nel suo Stato dominando e possibilmente scacciando l’elemento interno considerato “diverso” e “ostile” (il palestinese, l’arabo “intruso”, l’islamico “fondamentalista” che minaccia il paese “di Dio”).

Anche in tal caso c’è un eccesso di realismo, cioè di fede taumaturgica nella forza bruta, che non promette niente di buono.

Tutto ciò sembra convergere in uno scontro mortale tra neoconservatori, neoautoritari e neonazionalisti e più in generale autoritari da una parte, di destra e di sinistra, e i democratici progressivi dall’altra, anche se come sempre è difficile decidere chi abbia cominciato “a picchiare” e come andrà a finire, Certo ancora una volta – lo facciano per difesa o per offesa; per bisogno di Stati di tornare forti o essere più forti, per non essere asserviti dall’”Occidente” – il realismo nazionalista ci immette in contesti bellici pericolosissimi. Può darsi che ponga pure problemi e istanze da considerare con cura, proprio per evitare il peggio, ma questo nuovo nazionalismo non sembra far parte delle soluzioni, ma del problema da risolvere. Ma si può risolvere? O siamo davvero come nel 1914 o nel 1939?

Vedendo che ne dica il realismo che ho chiamato conservatore, ora proverò a verificare anche questo.

(Segue)

  1. N. MACHIAVELLI, Il Principe (1513, ma postumo 1532), con un saggio di R. Aron, cronologia e nota introduttiva di F. Melotti, e Introduzione, note e glossario ideologico di E. Janni, BUR, 1975, p. 156.
  2. J. BODIN, I sei libri dello Stato (1576), traduzione e cura nel primo dei due volumi di Maria Isnardi Parente (che tra l’altro era originaria di Alessandria), e poi, al secondo, di Diego Quaglioni, UTET, I, 1964 e II, ivi, 1988. Giustamente i curatori hanno tradotto “République” con Stato, perché in Bodin indicava latinamente la “Res publica”, appunto lo Stato.
  3. T. BOCCALINI, Ragguagli del Parnaso (1612 e infine 1615), a cura di G. Rua, Laterza, Bari, 1910.G. BOTERO, Della ragion di stato (1598), a cura di L. Firpo, UTET, Torino, 1948.
  4. T. HOBBES, Leviatano (1651), a cura di G. Miceli, La Nuova Italia, Firenze, 1976.
  5. G. W. F. HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di G. Marini, Laterza, 1987.
  6. È vero che Napoleone fu sconfitto nella Russia zarista, ma il primo nemico irriducibile fu l’Inghilterra.
  7. G. A. FICHTE, Discorsi alla nazione tedesca (1807-1808), a cura di B. Allason, UTET, 1972. Per il riferimento a : J. J. CHEVALLIER, si veda il suo: Le grandi opere del pensiero politico (1949), Il Mulino, Bologna, 1968.Rinvio pure a: F. LIVORSI, Dio nell’Io e Io in Dio. Note su idealismo e religiosità in Fichte e Schelling, “Città Futura on line”, 14 aprile 2020.
  8. C. DUGGAN, Creare la nazione. Vita di Francesco Crispi, Laterza, 2001. Il giovane Giovanni Gentile lo apprezzerà, per le stesse ragioni per cui poi apprezzerà Mussolini al potere, sino alla fine.
  9. C. DARWIN, L’origine delle specie (1859), a cura di G. Montalenti, Torino, Boringhieri, 1977. Il principale anello di congiunzione tra biologismo e sociologia fu l’inglese Herbert Spencer, al suo tempo famosissimo, specie in: Principi di sociologia (1873, ma poi 1876/1896), a cura di Franco Ferrarotti, UTET, 1988. Era un liberale liberista, ma ebbe allora grande eco anche a sinistra, tra ultimi decenni del XIX secolo e primo decennio del XX, come supporto, o preteso supporto di tipo evoluzionistico sociale al socialismo “scientifico”.
  10. H. SPENCER, Principi di sociologia (1873/1896), UTET, 2013; L’individuo contro lo Stato (1885), a cura di A. Mingardi, Liberilibri, Milano, 2018.R. KIPLING (1865-1936), “Le opere”, a cura di V. Beonio Brocchieri, UTET, 1978.
  11. H. Von TREITSCHKE, La politica (1899), Laterza, 1918.
  12. Su ciò rinvio pure a: F. LIVORSI, Note politiche e psicanalitiche sul razzismo, “Thelema. La psicanalisi e i suoi intorni” (rivista lacaniana milanese diretta da Franco Baldini), n. 6, 1995, pp. 57-105.
  13. Ricordo per il lettore comune che in Filosofia chiamiamo Idealismo, almeno in prima approssimazione, ogni concezione in cui il reale rappresentato sia visto come creazione del pensiero dell’uomo. Dalla fine del Settecento, nel clima protoromantico, questo pensiero umano che da Kant in poi costruisce il vero quando unisce i dati dell’esperienza nelle funzioni a priori del pensare, viene infinitizzato e ritenuto immanente, presente e risolto, nell’uomo, come nell’idealismo classico tedesco di Fichte, Schelling e soprattutto Hegel. Quest’ultimo, in quanto lo Stato vale per tutti, idealizza pure lo Stato, sotto la Restaurazione in chiave autoritaria, anche se per lui incarna idealmnte la volontà generale dei cittadini.
  14. A. ROCCO, Dalla crisi del parlamentarismo alla costruzione dello Stato nuovo, a cura di E. Gentile, F. Lanchester e A. Tarquini, Carocci, Roma, 2010.E. CORRADINI, Il nazionalismo italiano (1914), Historica, Roma, 2020.Si confrontino con: E. FONZO, Storia dell’Associazione Nazionalista Italiana (1910-1923), Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2017: S. BATTENTE, Alfredo Rocco dal nazionalismo al fascismo, Angeli, Milano, 2015.
  15. Manifesto del Futurismo, dapprima nel “Figaro”, Parigi, 20 febbraio 1909 e poi in: F. T. MARINETTI, “Opere, I. Teoria e innovazione futurista”, Mondadori, 1972, pp. 7-13. Qui sottolineatura mia.
  16. B. MUSSOLINI, Fascismo, in: Enciclopedia italiana, 1932, vol. XIV, pp. 847-857.
  17. E. JÜNGER, Nelle tempeste d’acciaio (1920), e con Introduzione di G. Zampa, Guanda, Parma, 2000. Per quel che qui interessa, si veda pure: Irradiazioni. Diario 1941/1945, Guanda, Parma, 1993/1995.
  18. C. von CLAUSEWITZ, Della guerra (1832), Biblioteca Universale Rizzoli, 2004.
  19. C. SCHMITT, Il concetto del politico (1927), da vedere nell’accurata raccolta di saggi Le categorie del politico, da lui stesso prefata, a cura di G. Miglio e P. Schiera, Il Mulino, Bologna, 1972. Ma si veda pure: C. SCHMITT, I principi politici del nazionalsocialismo, a cura di D. Cantimori, Sansoni, Firenze, 1936 (il curatore, grande studioso della Riforma e poi dei Giacobini, molto vicino a Giovanni Gentile, divenne poi partigiano e comunista, traduttore del Capitale di Marx). Il testo di Schmitt sulla “strage dei lunghi coltelli” del 1934 è in: Il nazionalsocialismo. Documenti 1933-1945, a cura di W. Hofer, Garzanti, Milano, 1965.
  20. C. GALLI, Genealogia della politica. Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, Il Mulino, 1996 e infine 2010.
  21. C. GALLI, Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, Il Mulino, 1996 e infine 2010.
  22. L. TOLSTOJ, Guerra e pace (1867), Einaudi, 2019, due volumi.
  23. C. SCHMITT, Terra e mare (1942), Adelphi, 2005.
  24. E. MORIN – A. B. KERN, Terra-patria (1994), Cortina, Milano, 1995.
  25. A. de BENOIST, Visto da destra, Akropolis, Napoli, 1981.
  26. A. de BENOIST, Come si può essere pagani, Basaia, Roma,1984.
  27. A. DE BENOIST – A. DUGIN, Eurasia. Vladimir Putin e la grande politica, Controcorrente, Napoli, 2014.
  28. A. DUGIN, La quarta teoria politica, a cura di A. Virga, Aspis, Milano, 2020.
  29. La visione degli alt-right secondo Steve Bannon, a cura di M. Mancini, goWare, Firenze, 2017.

pubblicato il 20/10/2024

Cinque vie alla pace nel mondo nella storia del pensiero politico: IV) Il realismo conservatore e liberale

di Franco Livorsi

Ho già precisato, nella mia riflessione precedente sul realismo nazionalista, che nella storia del pensiero politico e nella politologia si chiamano “realistiche” le posizioni che vedono la storia e politica dominate dai meri rapporti di forza per far trionfare l’una o altra nazione, o movimento, o gruppo in campo. Tra le posizioni “realistiche”, il nazionalismo, al pari del suo opposto (l’internazionalismo, in specie proletario), ha una posizione rivoluzionaria (solo che quella del nazionalismo – in specie nei fascismi, che del nazionalismo sono i “figlioli” prediletti – è “rivoluzionaria contro la rivoluzione”). Infatti il nazionalismo fa valere l’istanza “realistica” del far prevalere la forza (con o senza lo schermo del preteso “diritto”), in modo molto eversivo dell’ordine mondiale esistente, cioè tale da sconvolgere sempre l’equilibrio, o precario equilibrio, preesistente “tra” gli Stati (e in certi frangenti “negli” Stati, quando se la prende con la forza contro un preteso “nemico interno”): assumendo il “fare la guerra” (talora interna) come una sorta di vocazione. I nazionalismi non solo fanno guerre, ma le fanno per vocazione. Sono amanti del “battere” gli oppositori irriducibili tramite il combattimento anche fisico. Tendono cioè a cambiare, tra Stati, il preesistente equilibrio, attraverso la guerra (anche quando non sia affatto sentito come inevitabile). E così molto spesso, ma non sempre, il nazionalismo aggressivo, qual esso sia, si rompe le corna, o rischia moltissimo di rompersele (direi “quasi” sempre), avvalorando – dal più al meno – il proverbio per cui a furia di andare al lardo, il gatto ci lascia lo zampino: la fiera mette la zampa in trappola e poi non può più tirarla fuori. La storia è piena di tali esempi, dalle “grandi” conquiste di Hitler alla prima guerra contro il Kuwait dell’Iraq di Saddam Hussein, e forse, ora – anche se non è scontato affatto, ma il prezzo pagato pure dall’aggressore è già stato alto – all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin.

Ma c’è una corrente realistica molto più illuminata, su guerra e pace, del realismo nazionalista: il realismo che direi conservatore, illiberale ma pure liberale (quantomeno nel senso di un liberalismo di destra, o liberalismo conservatore).

Per questo genere di realismo, la stella polare è il principio dell’equilibrio: un’istanza di ordine internazionale basata sul reciproco bilanciamento tra gli Stati: soprattutto quelli maggiori, che più contano, e dirigono il gioco del mondo (il che al realismo “conservatore” pare normale).

Quest’istanza di equilibrio tra Stati, che si può già vedere nel Diritto di guerra e di pace (1625) dell’olandese Ugo Grozio[1], nel concreto – da tempi remoti a tempi recenti od attuali – viene da un reciproco bisogno di convivenza (o coesistenza), che quasi naturalmente – per un’istanza di protezione ovvia e profonda – porta gli Stati ad avvertire che ogni sbilanciamento importante – tanto più tra Stati “grandi”, e che pesino sull’insieme del mondo – sconvolge l’assetto complessivo; può infatti portare a guerre sempre più vaste, lunghe, sanguinose e dolorose, tanto che è sempre meglio impedirlo subito per evitare guai sempre maggiori, ossia conflitti sempre più ampi e tremendi. I realisti conservatori, illiberali e pure liberali – quando non siano o troppo frenati da conflitti interni al loro Paese, o da dissensi troppo forti con i loro alleati, oppure quando non siano ormai governati da élites politiche formate da vecchi rimbambiti, “re fannulloni”, come pure nella storia talora accade – intervengono subito contro lo Stato che “squilibri” l’equilibrio consolidato, per evitare più vasti e dolorosi conflitti. Se non lo fanno, generalmente per una delle ragioni or ora richiamate, sono grandi guai per tutti (secondo il realismo “conservatore”, illiberale come liberale).

Naturalmente una pace basata sulla continua ricerca del compromesso tra grandi potenze non può essere perpetua, e il realista conservatore (liberale come illiberale) lo sa benissimo, ma accetta questa dura contingenza del mondo, preferendo sinché sia possibile la ricerca del compromesso, persino con una grande potenza a lui odiosa, alla lotta a morte che sia evitabile. Questo, naturalmente, può anche avere risvolti molto cinici, come l’accordo con Stati potenti ritenuti criminali o marci (in genere con sentimento ricambiato).

Al proposito va notato che nel mondo contemporaneo, che convenzionalmente facciamo procedere dal 1789 in poi, cioè dalla Rivoluzione francese, la tendenza conservatrice ha avuto il suo primo grande campione in Klemens von Metternich, già decisivo nel grande confronto dialogico e soprattutto bellico con Napoleone, e poi cancelliere di Stato dell’Austria, diventata grazie a lui (o con suo imprescindibile apporto) grande potenza europea, con territorio nel tempo raddoppiato e grandi alleati nel mondo, dal 1821 al 1848, quando i moti interni liberali indussero l’imperatore d’Austria a farlo dimettere.

La politica di Metternich si basava su una continua ricerca di compromesso tra grandi Stati; sulla lotta armata contro chi squilibrasse in modo grave l’equilibrio tra grandi stati (e piccoli o medi annessi e connessi), ma pure sulla conservazione dello status quo autoritario tradizionale al loro interno tramite dura repressione poliziesca. Metternich era sempre fautore di una ferma, autorevole ed efficace amministrazione del potere statale di sua spettanza o di spettanza dei suoi alleati, nel senso del settecentesco, illuministico “dispotismo illuminato”, ma appunto pure fautore della dura repressione di ogni tendenza antiautoritaria, liberale o democratico repubblicana (diciamo pure “rivoluzionaria”), negli Stati. Insomma, il conservatore illuminato doveva essere sempre pronto a farsi reazionario, duramente repressivo, spegnendo sul nascere i focolai rivoluzionari. Metternich faceva valere il principio del legittimismo, che vedeva nella difesa dell’ordine monarchico autoritario più o meno ristabilito nei regni, dopo la caduta di Napoleone, un assetto da salvaguardare a qualsiasi costo, con Santa Alleanza tra Stati “cristiani”, voluta da Russia e Austria, ma sottoscritta da quasi tutti gli Stati presenti al congresso di Vienna del 1814-1815. Nelle sue Memorie non mancava di ricordare che “Gli abusi del potere generale generano le rivoluzioni; le rivoluzioni sono peggio di qualsiasi abuso. La prima frase va rivolta ai sovrani; la seconda ai popoli”.[2]

L’insieme di questi punti non solo garantì all’Austria un’estensione territoriale e una potenza internazionale senza precedenti, ma fu efficace nella politica internazionale, tanto che l’ordine internazionale stabilito al congresso di Vienna del 1815, ampiamente legato all’influenza di Metternich, durò cento anni, sino alla Grande Guerra. Ci furono sì guerre pure importanti, come quelle per l’indipendenza dell’Italia e soprattutto la guerra franco-prussiana del 1870, ma per cento anni non ci furono più conflitti più o meno “mondiali” com’erano già stati quelli delle guerre del tempo di Bonaparte, arrivate dalla Francia alla Russia, o le successive due guerre mondiali del Novecento (sperando che in questo XXI secolo non arrivi presto la terza, dati i tremendi scricchiolii degli ultimi anni).

I punti deboli dell’impostazione del realismo conservatore, metternichiano e non, concernono l’assoluto disconoscimento da un lato del principio di nazionalità e dall’altro dell’istanza della libertà dei cittadini come singoli (che è poi il liberalismo, il quale garantisce la libertà dei singoli tramite la divisione, e reciproco bilanciamento, dei tre poteri fondamentali dello Stato, oltre che salvaguardando la proprietà privata). Non solo per Metternich e i suoi amici lo Stato fa la nazione (il che è storicamente vero), ma ne prescinde pure, come se il riferimento alla nazionalità fosse uno pseudoconcetto (mentre dal 1789 e tanto più da Napoleone in poi, e persino contro l’imperialismo di taluni popoli contro Napoleone, non lo era affatto): l’anelito alla libertà liberale, come pure alla liberazione nazionale, dal 1789, e tanto più dal 1800 (battaglia di Marengo), e tanto più dal 1848, erano ormai insopprimibili. Entrambi i dati (nazionalità e liberalismo) erano, e forse sono, punti deboli del realismo conservatore, che nel suo vedere solo i rapporti di equilibrio o squilibrio tra Stati fa troppo poco conto sia della nazionalità che della libertà dei cittadini, che sono invece imprescindibili.

Naturalmente non si può seriamente ragionare di pace senza seriamente ragionare di guerra. Così, nella stessa atmosfera politico-culturale di Metternich, ma in Prussia, uno dei generali protagonisti delle guerre anti-napoleoniche, Carl von Clausewitz, tra il 1818 e il 1831 scrive una grande opera incompiuta, pubblicata subito dopo la sua morte, Della guerra (1832), che oltre ad essere un grande trattato di strategia militare è un’opera di vera filosofia politica del conflitto armato. Egli ha piena consapevolezza del fatto che dopo la Rivoluzione francese il tempo delle cosiddette guerre di Gabinetto, fatte dai governi tramite truppe senza coinvolgere se non minimamente in modo diretto i popoli, è finito. La guerra è diventata un fenomeno complesso, che ha a che fare con conflitti che coinvolgono i popoli (“les enfants de la patrie”, o le “nazioni”, come la Germania del 1807 o poi sino al 1918 contro la Francia, o come la Spagna, contro lo stesso Bonaparte). Inoltre la guerra ha sempre a che fare con la capacità strategica dei condottieri militari; ma, soprattutto, è un modo, prima latentemente conflittuale e poi apertamente tale, di risolvere i conflitti “politici” tra Stati. Da quest’ultimo tratto ha origine il ben noto passaggio: “La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi. La guerra non è dunque solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del processo politico, una continuazione della politica con altri mezzi.”[3]

Quest’impostazione ha echi sino a noi, tanto che a suo dire ispira ancora la visione del ben noto Edward Luttwak[4]. Ma ha soprattutto eco in uno dei più grandi sociologi-filosofi del Novecento, l’amico-nemico di una vita di Sartre (con cui aveva fondato la rivista “Les Temps Modernes”, esistenzialista, ma da cui si era ben presto staccato non condividendo affatto il filocomunismo e l’orientamento da contestatore di sinistra di Sartre), Raymond Aron. L’instancabile meditante, sociologo filosofo e pubblicista liberale Raymond Aron scrisse pure un importante libro su Clausewitz, approfondendo la dialettica tra odii tra popoli, strategia e politica dei governi, osservando: “Considerata nella sua realtà concreta ogni guerra si presenta come uno strano triedro: 1) la violenza originale del suo elemento, l’odio, l’ostilità che bisogna considerare come una tendenza naturale cieca; 2) il gioco delle probabilità e del caso che ne fanno una libera attività umana; 3) la natura subordinata di strumento politico per cui ha a che fare con l’intelletto puro. La prima di queste tre facce corrisponde soprattutto al popolo, la seconda al capo militare, la terza al governo.”

Queste posizioni tendenti al bilanciamento tra grandi Stati, all’impedire tendenze rivoluzionarie interne che poi ingenerano anche guerre esterne, ed a coltivare una coscienza e sapienza di governo atte a capire e condurre i conflitti, rimbalzano pure nel XX secolo: non certo nella pace di Versailles del 1918, che a differenza del congresso di Vienna del 1815 registrò, da parte francese da parte francese in odio alla Germania e da parte americana (con Wilson) totale mancanza di realismo, e così pose alcune basi fondamentali per la Seconda guerra mondiale; sono, piuttosto, riprese da un nuovo conservatorismo, che ripensa Metternich e von Clausewitz in un contesto in cui i “grandi Stati” sono quelli che avevano vinto la Seconda guerra mondiale (in primis Stati Uniti e Unione Sovietica, ma pure Inghilterra e, buona quarta, la Francia, e decenni dopo la Germania risorta, ma più di tutto la Cina); i rivoluzionari da reprimere nel mondo per rendere stabile l’ordine mondiale disegnato a Yalta dai vincenti nel 1944, per i realisti politici conservatori, illiberali e liberali, sono stati, nel XX secolo, i comunisti.

Quest’approccio è svolto in senso liberale quasi classico, ma certo fermamente liberaldemocratico, dal geniale richiamato Aron (anche studioso ed estimatore di von Clausewitz[5]), fautore di un liberalismo abbastanza conservatore, ma sempre totalmente democratico, come quello incarnato in Italia dal leader del Partito Liberale Italiano Giovanni Malagodi e dal notevole storico delle dottrine politiche, studioso insigne di Tocqueville e filosofo della politica, infine pure favorevole al berlusconismo per lo stesso orientamento di centrodestra, Nicola Matteucci. Non è neppure un caso che uno dei più commossi ricordi di Aron fosse stato scritto da Giovanni Malagodi.[6]

Per Aron valeva soprattutto l’opposizione tra liberalismo e totalitarismi. Pur essendo ebreo, sin dall’avvento di Hitler aveva visto nei totalitarismi, come l’hitleriano, anche il frutto di un umanissimo bisogno di comunitarismo in età di grandi crisi storiche.[7] Ma, soprattutto, Aron aveva il senso della complessità della storia, con ostilità, nel suo contingentismo di fondo (certo sempre memore dell’esistenzialismo), nei confronti delle spiegazioni monocausali, come per lui era il marxismo. Di esso era grande estimatore e studioso, ma riteneva che l’approccio totalizzante, da concezione del mondo, finisse, potenzialmente “ab ovo”, per frustrare il bisogno molto serio di sintesi tra liberalismo e socialismo (che per lui era di liberalismo socialmente aperto). Ma questo stesso tratto illiberale del marxismo – consistente nel suo essere un pensiero totale, una specie di religione, “oppio degli intellettuali di sinistra, in specie nichilisti come Sartre, e come i per lui vacui contestatori del ’68[8] – si prestava bene ad essere l’ideologia dei comunisti. Questi, però, finivano sempre per far parte del gioco di potenze totalitarie come l’URSS, che con Breznev erano ormai volte a un gioco di pura potenza burocratica e autoritaria. Da combattere, con piena adesione all’atlantismo e connesso anticomunismo. Faceva pure una netta distinzione tra dispotismo burocratico autoritario russo e cinese, nel senso che l’URSS non era solo un derivato del secolare dispotismo zarista (come certo era via via totalmente ridiventata), ma pure l’esportatrice dell’antico-nuovo dispotismo, preteso “scientifico” e erede del razionalismo, in tutta l’Europa orientale, forzatamente soggiogata. Ciò alla lunga avrebbe minato lo Stato-impero “sovietico”. A confronto la Cina gli appariva più stabile e forte perché era sempre stata caratterizzata, si può dire da millenni, dal dispotismo orientale, da quelle parti ben più naturale e perciò accettabile ed accettato.

Il punto chiave dell’URSS è che essa era incompatibile con ogni processo di democrazia, ma che questo rendeva poi il mondo che si era annessa vincendo la Seconda guerra mondiale, malsicuro, e tale da minarne lo Stato-Impero, intimamente antidemocratico. Sin dal 1957 notava che le proteste nell’impero sovietico erano democratico-socialiste (fatti d’Ungheria, sanguinosissimamente repressi nel ’56 dai carri armati sovietici). Questo nel ’57 portò Aron a ritenere che l’URSS avrebbe potuto implodere quando non avesse più potuto seguitare a tenere con la forza popoli europei che del suo regime non volevano saperne. Quei regimi, diceva nel 1957 in un saggio pubblicato su “Ideazione” di Pierluigi Minnitti nel 2006, erano stati imposti “dall’esterno” ed erano perciò privi di “quel minimo di adesione popolare senza il quale le istituzioni sono come gusci vuoti”.[9]

L’altra ripresa di questo realismo conservatore si deve a Henry Kissinger[10], ebreo tedesco diventato americano dopo l’avvento al potere di Hitler in Germania e diventato un importante studioso di relazioni internazionali e poi segretario di stato sotto la presidenza Nixon e poi di Gerald Ford, dal 1969 al 1977, e sempre importante pure in seguito. Siamo nell’ambito di uno dei due grandi partiti americani, il Partito Repubblicano, che negli Stati Uniti, nel XX-XXI secolo (prima era stato ben diverso), incarna quello che da noi è il liberalismo di destra, ma con punte di estrema destra che in tempi di crisi degli USA si accentuano, come ora con Trump (mentre “liberal” in America è sinonimo di democratico di sinistra). Ora Kissinger è un neo-metternichiano, ben più di Aron, per studi e per “emulazione” politica. Uno dei suoi libri importanti è su Metternich[11]. E il vedere i rivoluzionari eversori dell’ordine mondiale nei comunisti, che c’era pure in Aron, in lui diventava, come in Metternich con liberali e repubblicani, impegno attivo a contrastare ogni apertura anche minima al comunismo, e complottismo contro la sinistra mondiale. Ma come Metternich poteva pure fare compromessi con potenze opposte, Nixon faceva le sue distinzioni. Così fu lui a normalizzare i rapporti con la Cina di Mao, aprendo la strada all’incontro storico del 1971 tra Nixon e Mao. Ma nell’America Latina tramava con tutti gli anticomunisti, sostenendo pure golpe di destra, prima del governo ultimo di Allende in Cile (secondo lui) e di quello finito con l’assassinio di Allende e la dittatura nazionalista di destra, fascistoide, di Pinochet. Scoraggiò ogni apertura a sinistra, ai comunisti anche in Europa, tanto che cercando invano di dissuadere Aldo Moro dal proposito di far entrare il PCI nel governo, gli avrebbe detto che l’avrebbe pagata assai cara.

In base allo stesso realismo, da uomo quasi centenario (fece in tempo a dialogare con Giorgia Meloni), era preoccupato per la pace mondiale, e riteneva necessario che si creasse un’intesa cordiale tra USA e Cina, come scrisse negli ultimi anni in un suo libro sulla Cina, sostenendo che era “ormai indispensabile che la Cina e gli Stati Uniti” trovassero “una strada per camminare insieme, date le urgenze del tempo”. Il messaggio, in un contesto con tanti segnali di guerra generale come questo del 2024, pare più attuale che mai.

Ora, guardando le cose in modo macrostorico come ho provato a fare sinora – e facendo la tara a molti orrori, da non giustificare mai, come la crudele repressione del liberalismo risorgimentale nascente ispirata da Metternich, o le trame oscure contro i comunisti del mondo di Nixon e consorti – si potrebbe ritenere che il realismo conservatore, illiberale e liberale, abbia avuto più argomenti e efficacia nel mantenere la pace in Europa e nel mondo di altre tendenze sin qui vagliate. Se non che la cosa oggi non funziona più, e da tempo immemorabile è tendenzialmente limitatrice dei processi di democratizzazione del mondo.

Infatti l’equilibrio tra le grandi potenze mondiali di cui quest’approccio non può mai fare a meno, pur scontando che talora sia necessario appoggiarsi di più su una potenza per contenerne un’altra (come faceva pure Metternich e come il duo Nixon-Kissinger fece con la Cina per contenere e combattere l’URSS, che si era espansa in Indocina e America Latina tra castrismo e guerra del Vietnam), è ormai saltato. Il crollo dell’impero sovietico e poi dell’URSS tra 1989 e 1991 non ha dato luogo a un solo impero mondiale americano come dapprima sperato dal politologo Fukuyama[12], ma all’anomia internazionale. Tra l’altro è avvenuto mentre si risvegliava l’islamismo fondamentalista e si accentuava molto, nel mondo globalizzato, la grande migrazione dei più poveri verso i paesi ricchi. La conseguenza è la latente terza guerra mondiale.

Una soluzione ci sarebbe, ed è nei voti della quinta tendenza in materia di pace nel mondo su cui proverò a dire qualcosa prossimamente: quella democratica e federalista. Portate pazienza e andiamo avanti.

(Segue)

  1. U. GROZIO, Il diritto di guerra e di pace (1625), a cura di C. GALLI e A. DEL VECCHIO, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici Press, Napoli, 2023.
  2. Si vedano: F. HERRE, Metternich, Bompiani, Milano, 1993; L. MASCILLI MIGLIORINI, Il Principe di Metternich, Salerno, Milano, 2020. Ma pure: Klemens von METTERNICH, Memorie, Einaudi, Torino, 1944; Ordine ed equilibrio. Antologia di scritti, a cura di G. De Rosa, ESA, Torre del Greco, 2012.Va pure ricordata la nota lettera di Metternich al conte Dietrichstein del 2 agosto 1847 in cui diceva: “La parola ‘Italia’ è un’espressione geografica, una qualificazione che riguarda la lingua, ma che non ha il valore politico che gli sforzi degli ideologi rivoluzionari tendono ad imprimerle.”
  3. C. von CLAUSEWITZ, Della guerra (1832), Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 2004.
  4. E. LUTTWAK, Strategia: la logica della guerra e della pace (1989), Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 2013.
  5. R. ARON, Clausewitz, Il Mulino, Bologna, 19987. Ma si veda pure, dello stesso: Paix et guerre entre les nations, Culmann-Levy, Paris, 1984. Pure interessante è: G. E. RUSCONI, Clausewitz, il prussiano: la politica della guerra nell’equilibrio europeo, Einaudi, 1999.
  6. Nicola Matteucci, professore ordinario di “Storia delle dottrine politiche” presso l’Università di Bologna, ha tra l’altro introdotto e curato “Scritti politici” di Alexis de Tocqueville (UTET, Torino, 1970, due volumi), ha fondato e diretto “Il Mulino”, rivista e casa editrice, e scritto molti libri importanti con approccio soprattutto filosofico politico (tra cui Lo stato moderno. Lessico e percorsi, Il Mulino, 1993). Ha pure molto collaborato a “Il giornale”, anche dopo l’ingresso di Berlusconi in politica, in base al suo costante orientamento ideal-politico liberale.G. MALAGODI, Un saluto a Raymond Aron, “Corriere della sera”, 23 ottobre 1983.
  7. Su ciò è da vedere: R. ARON, Machiavelli e le tirannie moderne (1934), con Introduzione di D. Cofrancesco, Edizioni Saem, Bolzano, 1998. Si veda pure: G. BELARDELLI, Machiavelli e le tirannie moderne, “Corriere della sera”, 17 luglio 1998.
  8. R. ARON, Quando fini intellettuali diventano nichilisti, “Corriere della sera”, 2 giugno 2008. Ma per l’interpretazione a caldo del Sessantotto francese, si veda: R. ARON, La rivoluzione introvabile (1968), a cura di A. Campi e G. De Ligio, Rubbettino, 2008. Si veda inoltre: R. ARON, In difesa dell’Europa decadente, Mondadori, 1978.
  9. Per R. ARON è molto importante vedere la vasta raccolta dei suoi scritti La politica, la guerra, la storia, con ampia Introduzione e cura di A. Panebianco, Il Mulino, Bologna, 1992. Su ciò si veda pure: L. COLLETTI, Dopo il silenzio è l’ora di Aron, “Corriere della sera”, 18 novembre 1992.Ma si veda pure: A. CARIOTI, La previsione di Aron: l’Urss cadrà dall’interno, “Corriere della sera”, 4 aprile 2006. Carioti definiva Aron un “liberale conservatore senza complessi”. L’articolo dava conto del preveggente saggio di Aron del 1957 allora pubblicato in italiano su “Ideazione”.
  10. Infatti Kissinger, nel suo libro Sulla Cina, (2011), Mondadori, Milano, 2011, con perfetta consapevolezza di questo “realismo politico” conservatore, dice che “non sono le ideologie e i diritti umani, ma gli interessi nazionali e i rapporti stabili di convenienza con le altre potenze che devono governare la politica estera di un Paese”.
  11. H. KISSINGER, Restaurazione di un mondo. Castelreagh, Metternich e i problemi della pace. 1812-1822. In italiano: Diplomazia della Restaurazione. 1812-1822 (1957), Garzanti, Milano, 1977. Dello stesso si vedano pure: Gli anni della Casa Bianca (1979), SugarCo, Milano, 1980; Anni di crisi. Il Vietnam. La caduta di Allende in Cile. La Guerra del Medio Oriente 1973, ivi, 1982; Sulla Cina, cit.
  12. F. FUKUYAMA, La fine della storia e l’ultimo uomo (1992), UTET, Milano, 2023.


pubblicato il 31/12/2024

Cinque vie alla pace nella storia del pensiero politico: il federalismo internazionale

di Franco Livorsi

In precedenti articoli ho illustrato diversi modelli di pace nel mondo nella storia del pensiero politico, soffermandomi abbastanza a lungo: sul pacifismo cristiano o gandhiano; sul nazionalismo dalla Germania guglielmina e dal nazifascismo sino a Putin; sull’internazionalismo proletario socialista e comunista, e sul realismo conservatore e pure liberale[1]. Mi resta ancora un’ultima tendenza importante da vagliare: quella ardua, ma al tempo stesso possibile, e comunque nei tempi lunghi per me necessaria, che si compendia nella parola “federalismo”.

Su questa tendenza è molto facile andare incontro a grandi fraintendimenti. Del resto ce ne sono stati tanti pure in riferimento a termini come “liberalismo”, “socialismo” e persino “nazionalismo”. Pure nazionalisti estremi e quantomeno fascistoidi come, dopo il comunismo, in Russia, Zirinovski o Putin, si sono detti liberali. Anche Hitler si diceva “socialista” (nazionalsocialista). E De Gaulle, il grande nemico dei collaborazionisti con Hitler, era un nazionalista democratico (benché l’espressione più cospicua del nazionalismo nel secolo scorso siano stati i fascismi, che in sostanza sono stati nazionalismi autoritari con basi di massa). Ma veniamo al Federalismo.

Faccio solo alcune brevi osservazioni sul Federalismo e, anzi, sui federalismi, in generale.

Potremmo dire che il Federalismo, legato all’etimo latino del phoedus (patto), è la tendenza “pattizia”: è la corrente che vuole realizzare sempre patti d’unione tra regioni o Stati in precedenza divisi, per associarli, salvaguardando però una vasta autonomia tra quelli che si mettono insieme. Sono plurimi in uno, molti nell’unità cui danno vita. Perciò il Federalismo, contro quello che molti credono, è una tendenza molto unitiva e niente affatto divisiva.

Me ne sono pure occupato molto come storico del pensiero politico: vuoi curando nel 2001, per gli Oscar Mondadori, il saggio di Carlo Cattaneo Notizie naturali e civili su la Lombardia (1844); vuoi in un mio saggio del 2007 sulla città di Milano nel pensiero di Cattaneo; vuoi introducendo e curando nel 2001 un’opera collettanea, del Dipartimento Giuridico Politico dell’Università di Milano cui afferivo, su libertà e Stato nel 1848 italiano.[2] Cattaneo (1801-1869) si muoveva in un contesto nell’insieme anteriore all’Unità d’Italia (1861 e poi 1870, con presa di Roma). Il suo Federalismo voleva unire l’Italia divisa in tanti stati e non già dividere quella già unita. Ma di ciò altro non dico qui, non occupandomi di tutte le tendenze a dividere invece l’Italia unita, senza volerlo o volendolo: dal mito e lotta per la Padania di Umberto Bossi al regionalismo “spinto” promosse sotto i governi di Prodi e poi Amato dal 1997 al 2001, in specie dal ministro della funzione pubblica, Franco Bassanini, con leggi tra 1997 e 1999 e con modifica dell’articolo quinto della Costituzione tramite il referendum del 7 ottobre 2001 (cui fui contrario), sino alla recente legge in vigore del 26 giugno 2024 di Roberto Calderoli, detta dell’autonomia differenziata, che rischia, sotto un governo nazionalista, di disfare il Risorgimento.

Qui però io ho solo posto qualche paletto su Italia e Federalismo, più che altro per segnalare che il vero Federalismo vuole l’unione fraterna di coloro che sono divisi, e non già la divisione di coloro che sono uniti, mentre il tema che vorrei svolgere qui concerne questa tendenza nella dimensione sovranazionale e internazionale, specie in vista della pace nel mondo.

Ora le tappe del Federalismo internazionale (o pure continentale) sono soprattutto le seguenti. Nel 1787 circa 35 delegati dei quattro milioni circa di abitanti distribuiti nei tredici Stati, ex colonie americane, liberatisi insieme dal dominio inglese, si riunirono nella Convenzione di Filadelfia (la loro Costituente). Si trattava di gestire la libertà dagli inglesi appena conquistata. La Storia riunì lì una manciata di persone di primissimo livello.

I liberi americani , che già nella Dichiarazione d’indipendenza del 1776 scritta da Thomas Jefferson si erano detti “popolo degli Stati Uniti”, in quel 1787 avrebbero potuto fare uno Stato unitario, allora generalmente monarchico, di tipo europeo. Ma un re non ce l’avevano, e addio indipendenza se ne avessero fatto arrivare uno da qualche casata europea. Avevano però un ottimo condottiero, George Washington (poi primo presidente degli USA). Potevano pure fare tredici Stati nazionali, ma sarebbero stati facilmente inglobati da una od altra potenza europea, e poi giocati l’uno contro l’altro; e poi ogni Stato, a quei tempi lontano dagli altri dato il sistema di comunicazioni del 1787, era pure geloso dell’indipendenza. Allora s’inventarono il Federalismo, sviluppando alcune idee che c’erano già nello Spirito delle leggi (1748) di Montesquieu[3], di cui erano tutti lettori entusiasti. Alla fine decisero, scrivendolo nella Costituzione, che si sarebbero fatte due Camere (nell’insieme dette “Congresso”). In una i cittadini avrebbero mandato i loro delegati (deputati) col classico criterio una testa un voto, allora rivoluzionario (Camera dei rappresentanti), come uno Stato nazionale ma democratico; nell’altra gli Stati, dapprima con delegati dei governi, avrebbero mandato due rappresentanti per Stato (invece di una testa – un voto, uno Stato – un voto (con due senatori), a prescindere da numero di abitanti o estensione territoriale: così anche gli Stati più remoti e poveri sarebbero stati uguagliati agli altri, e tutti si sarebbero sentiti rassicurati. Quindi, Camera dei cittadini uguali da un lato e Camera (Senato) degli Stati uguali tra loro, dall’altro: due Camere che costituiscono il Congresso degli Stati Uniti. Al di sopra posero un Presidente con amplissimi poteri, quasi da re elettivo, votato dal popolo, ma scelto tramite una complessa rappresentanza di grandi elettori nominati dagli Stati membri, su cui qui non mi soffermo: anche se quest’enorme potere del Presidente e Capo del governo dell’Unione, specie in materia di guerra e pace, era ed è bilanciato da un potere legislativo (Congresso), che essendo eletto a sé come il Presidente può essere come non essere di colore politico uguale a quello del Presidente. Per tacere della piccola Corte suprema (di nove giudici), varata nel 1791, garante della costituzionalità di ogni legge, tramite membri nominati a vita dal Presidente, che però poi prescindono da lui, sia perché l’eletto a vita può pure infischiarsene del nominante (perché come si sa in politica la gratitudine non paga mai o quasi), e sia perché essendo la nomina a vita il Presidente può eleggere solo qualcuno.

Poi il testo costituzionale fu sottoposto a referendum, e tra gli Stati allora più importanti c’era quello relativamente popoloso, e molto influente, di New York. Tre tra i principali costituenti – Alexander Hamilton, James Madison e John Jay – fecero allora una campagna di stampa sulla stampa di New York, firmando i loro 85 articoli, come fossero stati una sola voce, con lo pseudonimo “Publius” (allora era molto vivo, tra gli illuministi, il mito della Repubblica romana antica dei liberi cittadini, anche per influsso del libro di Montesquieu del 1734 Considerazioni sulla causa della grandezza dei romani e della loro decadenza: un Montesquieu[4] che ebbe la maggior influenza sui rivoluzionari del XVIII secolo, pure su Robespierre[5], più o meno come Marx tra XIX e XX, ma nel XVIII secolo in senso liberale o democratico nascente). Questi 85 articoli furono subito riuniti in volume, a cura del solo Hamilton, nel 1788, col titolo comune Il federalista, e sono in effetti, a mio parere, l’opera più straordinaria del e sul federalismo, specie per gli apporti di James Madison[6].

Su ciò c’è una discussione complessa tra storici relativa al carattere confederale o federale di quegli “Stati Uniti”. Al proposito va ricordato che nella storia del pensiero politico si chiama “confederazione” un’unione tra Stati sovrani che mantengono per la gran parte il carattere di Stati sovrani, unione da cui infatti ogni Stato però potrà sempre dissociarsi (come ha fatto la Gran Bretagna o Regno Unito nel 2016, dopo referendum interno); si chiama invece Federazione un vero “Stato di Stati”, come sarebbe stato quello della costituzione di Filadelfia del 1787 difesa anche dottrinariamente dal Federalist del 1788. E, per me, non c’è dubbio che quello dicessero Costituzione del 1787 (con integrazioni sino al 1791) e Federalist del 1788. Ma in principio il diritto di dissociazione non era ancora negato, tanto che il vero oggetto del contendere tra Stati del sud (“confederati”) e del nord tra 1861 e il 1865 non era tanto la libertà di avere schiavi quanto quello di potere o meno staccarsi dalla grande Unione degli Stati Uniti. Lo spirito di quel grande conflitto visto dalla parte dei vinti si può cogliere ancora nel grande romanzo di Margareth Mitchell Via col vento (1936), e nel coevo famoso film, fedele, interpretato pure da Clark Gable, del 1939.[7] Vinsero gli unionisti (“nordisti”), ma in una guerra civile con 600.000 morti, su quindici milioni di abitanti.[8]

Ma a questo punto facciamo un passo indietro, tra i contemporanei della Rivoluzione america, ma nella Prussia dell’assolutismo illuminato. Ivi operava, a Könisberg (che oggi è la russa Kaliningrad), il maggior filosofo dell’illuminismo, il razionalista tedesco Immanuel Kant. Egli sapeva tutto su Montesquieu, ma sapeva parecchio anche sull’America del 1787 e sulla Francia rivoluzionaria del 1789 e successiva. Nel 1795 volle affrontare il problema della pace stabile nel mondo, dopo le molte guerre recenti tra cui quella dei sette anni (finita nel 1765), in un piccolo libro, Per la pace perpetua, che io pure ho commentato in un mio saggio.[9] Che cosa avrebbe potuto garantire una pace idealmente permanente (“perpetua”), vero compimento dell’ideale della razionale intersoggettività realizzata nella Storia una volta per tutte? Forse la politica dell’equilibrio? (di cui qui si è detto a proposito del “realismo conservatore”). Kant diceva che la politica dell’equilibrio, che decide di intervenire, per lo più tramite coalizioni, contro chi con la forza muti la tradizionale geografia politica tra Stati, assomigliava a quella bellissima casa fatta con carte da gioco, che sembrava perfetta, ma bastava che un uccellino vi si posasse sopra e tutto crollava (regalandoci sempre nuove guerre). Queste erano destinate a tornare essendo gli Stati, tra loro, nello stato di natura tematizzato da Hobbes nel Leviatano (1651), la “guerra di tutti contro tutti” (“bellum omnium contra omnes”), in quanto nelle relazioni internazionali, diversamente che all’interno degli Stati, mancava un’autorità capace di fare la legge e soprattutto di imporla (la legge vale per la sua autorità costrittiva). Allora si trattava di farla (questa legge costrittiva, e dunque questo Stato) anche per il mondo. L’illuminista Kant non dubitava che una tal legge sarebbe arrivata, per lui soprattutto perché dai piccoli gruppi dei primitivi della Preistoria, o selvaggi, la dimensione degli Stati era diventata sempre più grande; e tutto, persino la rotondità della terra, diceva, pare aver sempre spinto verso una sempre maggiore interdipendenza tra gli uomini. Il solo problema era, e, secondo me, sempre più è, vedere se accadrà in forma di dispotismo universale (non tanto diverso dal sogno di un impero o Reich millenario come telos finale dei nazisti) oppure in forma liberale. Kant era per la seconda strada puntando su un’unione, ancora un poco vaga in quel 1795, tra “libere Repubbliche”, in cui però il termine “Repubblica”, come già la république di Bodin[10], stava non già per non-monarchia, ma per Stato (“res publica”): libero perché “di diritto”, e di diritto non tanto perché elettivo (lì scriveva un prussiano del 1795, per quanto ultrariformista), ma perché la legge non deve stare sotto il governo, ma una volta emanata ha da valere per tutti, anche per il governo (insomma, Stato “libero” stava per Stato di diritto, in cui la legge emanata regna sovrana su tutti i cittadini, governo compreso: altrimenti lo Stato, la res publica, non è libero). Sapeva benissimo che la realtà era diversa (di Stati ben divisi tra loro), ma sosteneva che sino a quando non si fosse fatto così, cioè la federazione o confederazione degli Stati “liberi” del mondo, sarebbero seguitate le guerre. Com’è poi accaduto, sino a quella più grande della storia, del 1939-1945, conclusasi con cinquanta milioni di morti. Anche le diverse Società delle Nazioni o Nazioni Unite o tribunali del diritto internazionale come la Corte dell’Aja, del XX e XXI secolo, non avendo forza di Stato mondiale per imporre i propri deliberati, non sono stati in grado di pacificare il mondo. Pur avendo un loro ruolo importante, sebbene mai decisivo, nell’evoluzione dello spirito umano.

Durante la Seconda guerra mondiale un gruppo di confinati antifascisti provò a tornare a ragionare sulla pace nel mondo. Erano Ernesto Rossi e Altiero Spinelli, autori nel 1941 del Manifesto di Ventotene, poi edito per la prima volta nel 1944 a cura di Eugenio Colorni, e testo fondamentale[11] del Movimento Federalista Europeo. Il solo modo di arrivare alla pace, per loro, è la continentalizzazione di tipo federativo degli Stati (qui lo Stato di Stati europeo, come gli Stati Uniti), che in realtà sarebbe solo una tappa verso lo Stato di Stati del mondo, come sottolinea con forza Lucio Levi.[12]

Questo sarebbe totalmente possibile come proprio la Costituzione del 1787 e il Federalist dimostrano benissimo (e il Manifesto di Ventotene riprendeva in modo definitivo). Anche se su questo si può discutere, perché il Federalismo come “Stato di Stati” nacque davvero in America tra 1787 e 1791, ma si realizzò come Stato di Stati solo nel 1865, non a caso tramite una guerra detta di secessione: guerra che non avvenne affatto, se non secondariamente, per l’abolizione della schiavitù, ma perché gli Stati del Sud (confederati) volevano staccarsi dagli Stati Uniti. La questione fu risolta in senso unionista dai nordisti, ma dopo una guerra civile sanguinosissima.

Io sono favorevolissimo a federalismo europeo, ma piuttosto pessimista, perché per me gli Stati o sono – con buona pace del marxismo (mi spiace) – la struttura della Storia, o sono almeno o una seconda struttura (a lato dell’economia nel divenire collettivo), oppure l’altra faccia di una sola struttura (rispetto all’economia): e le loro prerogative, la loro “sovranità”, non le mollano se non per forza, nei momenti essenziali, in genere tramite un federatore che bon gré mal gré si fa riconoscere, come lo Stato sabaudo fattosi nazionale nel Risorgimento, o la Prussia in Germania dal 1870, eccetera. Ma riconosco che si danno nella storia scenari straordinari, purché non si perda il treno.

Ad esempio dopo la Seconda guerra mondiale, lo sconvolgimento per quella montagna di morti e rovine fu tale, e l’interesse degli Stati Uniti a contenere quella che pareva imminente espansione del comunismo, erano così forti, che si sarebbe potuto fare molto in direzione degli Stati Uniti d’Europa, specie quando parve possibile mettere insieme una Comunità Europea di Difesa tra il 1950 e il 1952 (cioè unificare gli eserciti, punto chiave per fare uno Stato). Ma poi i francesi, ancora molto timorosi dei tedeschi, la fecero fallire nel 1954 nel loro Parlamento come nel maggio 2005 il popolo francese votò contro la pure un po’ macchinosa Costituzione europea.

Comunque tra molte traversie nel novembre 1993 si era giunti all’Unione Europea, che è una costruzione ibrida, un poco come l’assurdo animale chiamato giraffa al quale il sottile leader del PCI, Togliatti, nel 1960, con ironia voltairriana, paragonava il suo PCI, leninista e costituzionale al tempo stesso. Infatti l’Unione Europea è un ibrido tra confederalismo spinto e federalismo, cioè tra Grande Alleanza tra Stati sovrani, e “Stato di Stati”: nel senso che il diritto di veto anche di un solo membro blocca ogni decisione importante; ma ci sono due punti chiave da Stato di Stati, cioè federalisti: l’unione monetaria attorno all’euro per molti Stati membri, e la prevalenza delle norme del diritto europeo sul diritto dei singoli Stati. Tuttavia tutto questo ha fatto sì e fa sì che ogni Paese abbia una sua politica estera e militare. Si è visto che in tutte e due le grandi crisi belliche che negli ultimi anni hanno sconvolto il mondo – guerra russo-ucraina e del Medio Oriente – l’Unione Europea non ha contato quasi niente. Ha sì sostenuto politicamente e militarmente l’Ucraina, ma sempre come forza di complemento dell’alleanza militare occidentale della NATO, cioè degli Stati Uniti, e tutto sommato, pur con tutta la generosità lodevole del mondo, l’ha fatto a proprio economico danno.

Alcuni federalisti, come i miei amici Corrado Malandrino e Stefano Quirico, che su questi temi hanno dato apporti di prim’ordine,[13] sostengono essenzialmente due cose.

La prima è che l’Unione Europea in senso forte, come già la formazione di Stati nazionali come il nostro del XIX secolo, richiede una sorta di rivoluzione culturale: un sentirsi “popolo degli Stati Uniti d’Europa” come gli americani dalla famosa dichiarazione d’indipendenza del 1776 in poi, perché, come disse Rénan in una famosa conferenza del 1882 (Che cos’è una nazione?)[14], ogni nazione sottende l’implicito plebiscito quotidiano del voler “stare insieme”, cioè un dato di coscienza comune, che ad esempio in Germania e in Italia è arrivato da Fichte o Mazzini. Insomma, bisogna lavorare per educare tutti a sentirsi buoni europei. Condivido.

La seconda cosa è la critica al troppo frettoloso allargamento dell’Unione Europea – al tempo della presidenza Prodi, su pressione congiunta dei popoli dell’Est europeo sempre timorosi del ritorno dell’orso russo per ragioni non banali, e degli americani – a tutto l’est europeo, e in specie alla NATO. Ciò ha da un lato reso più complicato fare passi dalla confederazione alla federazione (verso l’Unione Europea come Stato di Stati); dall’altro ha innescato una conflittualità latente, e poi esplosa, con la Russia, che non poteva certo rimanere sempre Stato a pezzi come dopo il crollo dell’URSS del 1991, ma che in area russofona mirava e mira a tornare ad essere la “grande nation” slava che è da secoli (il che è il senso stesso dell’operare di quella sorta di Mussolini russo che è stato, e per ora è, Putin).

Di nuovo condivido la critica all’eccessivo e frettoloso allargamento dell’Unione Europea a tutto l’Est europeo, anche se la Polonia è Europa quanto l’Italia (e solo la geografia, che la pone tra due colossi come Germania e Russia, le aveva impedito di diventare una libera nazione europea come la nostra). Ma l’idea che gli Stati dell’ex impero sovietico siano entrati nella NATO invece di diventare una grande area neutrale tra Unione Europea e Russia, la trovo folle. È veramente incredibile, prova di tragica pochezza politica da Stato che stava morendo, come quella di Romolo Augustolo nel 476, che Gorbaciov abbia garantito che non sarebbe intervenuto a salvare l’impero (o paesi che si scindessero come la Germania Est), senza ottenere una garanzia, con trattato con americani e occidentali, almeno di neutralizzazione militare dell’Europa orientale che stava finalmente abbandonando dopo oltre quarant’anni di occupazione mascherata da fratellanza tra Stati “socialisti” nella speranza che diventasse tale.

L’invasione dell’Ucraina attuale da parte di Putin era certo, ed è, da condannare in modo totale. Erano pure giuste sanzioni in proposito alla Russia. Si potevano persino dare agli ucraini aggrediti le armi leggere che sovietici e cinesi davano ai vietnamiti bombardati dagli americani tutti i giorni col napalm. Ma, a mio parere, e l’ho detto qui sin dall’inizio della guerra russo-ucraina[15], la via scelta dagli americani, e seguita per un misto di ideologismo anche moralmente nobile e di cecità politica da parte dell’Unione Europea militarmente sempre subalterna degli Stati Uniti, è stata basata su una sostanziale sovrapposizione di motivazioni nel sostegno politico economico e militare all’Ucraina proditoriamente aggredita dai russi.

Da un lato c’è stata una motivazione idealistica e morale, che secondo me è stata molto forte anche tra gli americani, e tanto più tra gli europei, indignati per l’invasione cinica di un Paese ai confini della Polonia e che si sente da sempre attratto dall’Occidente – invasione da parte degli ex imperialisti sovietici, diventati imperialisti di tipo grande russo – e questa condanna era da condividere e persino da dilatare quanto possibile. In secondo luogo c’è stata la volontà di resistenza del governo e popolo ucraino, a partire dal capo del governo Zelensky, che forse per molto tempo si è sentito una specie di piccolo Bonaparte, in tal caso liberatore; se questi ucraini se la sentivano di lottare contro i russi invasori, invece di riparare in America come il fu Kerensky dopo il 1917, perché non lasciarglielo fare e sostenerli, pur stando come Stati Unirti e Unione Europea alla larga dalla Russia, che è pur sempre una grande potenza nucleare?

Però c’era una terza motivazione, certo importantissima per l’America, e condivisa o subita, anche per inferiorità militare e modestia politica dei suoi statisti, dall’Unione Europea e dai grandi Stati europei: sconfiggere la Russia; impedirle, per la solita lotta per l’egemonia mondiale delle grandi potenze, di ridiventare una grande potenza: ma senza mandare i propri “ragazzi” a morire per l’Ucraina, bensì sostenendo gli ucraini nella loro giusta, e però anche utile, lotta contro l’imperialismo russo. A quanto pare il disegno è fallito, sia nella parte nobile che in quella strumentale, di lotta tra imperialismo a stelle e strisce contro quello grande russo, del disegno. L’idea che questa lunga guerra con centinaia di migliaia di morti, e che in certi momenti ha rischiato di diventare nucleare, sia stata sostenuta – sino all’autorizzazione finale data da diversi paesi come l’America di Biden di tirare missili dentro la Russia – per puro idealismo democratico, contraddice la storia di tutte le guerre e io non me la bevo, come se uno volesse raccontarmi che la Grande Guerra è scoppiata per la piccola Serbia o la Seconda per Danzica. Al massimo quelle scoppiettanti e pur gravi crisi locali sono state concause (e neppure di primo livello: questo ci dice la storia). Ma allora la faccenda vera era colpire la Grande Russia, e così magari dare una bella lezione anche alla Cina sua alleata.

Quanto al federalismo internazionale, sembrerebbe doversi dire fallito sia come progetto di unificazione europea o mondiale di tal genere che di pacificazione tra i contendenti; e sembrerebbe, quindi, che debba essere data ogni ragione a quello che qui avevo definito realismo conservatore o liberale. Ma è vero solo in parte.

Certo potrebbe arrivare una terza guerra mondiale spaventosa, anche perché chiudere i conflitti in corso (in Ucraina e in tutto il Medio Oriente) non è facile come sembra, e ci sarà presto un inasprimento programmato dello scontro commerciale, con dazi sulle importazioni e chissà che altro, tra Cina e America (e forse persino tra USA e Unione Europea), e la crisi del Medio Oriente può generare ancora guerra. Tutto ciò purtroppo resta e resterà forse per diversi anni del tutto possibile.

Ma se invece talune di tali gravi crisi, come quella russo-ucraina, verranno risolte (e la guerra commerciale che si annuncia con Trump non degenererà in nuovi conflitti), pure l’ipotesi federalista potrà lentamente crescere. Spiace solo che per arrivare a quello che si poteva capire dal principio, e che io ho sostenuto subito qui, cioè che alla fine la Russia si sarebbe annessia Crimea e Donbass, sia stato versato un fiume di sangue di ucraini e russi innocenti. Certo alla conclusione ha concorso da un lato la maggior forza e resistenza della Russia, nonostante l’eroismo degli ucraini e i forti aiuti euro-americani, e dall’altro l’elezione a presidente degli Stati Uniti di Donald Trump, che mira ad una sorta di nuovo isolazionismo da “America agli americani”, e vuole sganciarsi non appena possibile da un conflitto con un Putin che addirittura ammira. L’elezione di Trump è certo stata una mezza catastrofe per la resistenza ucraina. Ma “è la storia, bellezza”.

Oltre a tutto il conflitto con la Russia ha addirittura messo in crisi economica la Germania (per via del costo delle materie prime che venivano dalla Russia), e danneggiato l’economia europea. Sarebbe stato meglio ricercare una soluzione di compromesso tra popoli per secoli legati che han deciso di dividersi, più o meno come nel 1861 volevano fare in America gli Stati del sud rispetto a quelli del Nord (solo che qui, tra ucraini e russi, sono stati gli slavi più europei, più avanzati, ucraini, a volersi, legittimamente, come da tanto tempo, staccare dall’ex casa madre).

Se però non ci fosse o non ci sarà alcuna grande guerra europea, il che per ora non si può sapere, cresceranno pure le chances del federalismo europeo e mondiale. In tal caso, sia pure in modo lentissimo, l’Europa “Stato di Stati” si farà, o quantomeno gli elementi di federalismo nell’Unione Europea cresceranno. Credo, però, che siccome l’Unione Europea non riuscirà mai né a realizzare una potenza militare propria come se fosse gli Stati Uniti e pagando le spese per questo, né a togliere il potere della forza militare, e dunque in politica estera, agli Stati nazionali membri (che non la molleranno mai), sarà giocoforza mettersi d’accordo con i russi invece di averli nemici. Questo naturalmente è impossibile finché dureranno i metodi cui sembra indulgere troppo spesso il regime retto dall’ex agente del KGB. Ma se, com’è possibile, in Russia si svilupperà non dico una democrazia liberale in stile Westminster, impossibile in Stati con tali dislivelli di sviluppo interni e tale varietà di popoli membri, ma quantomeno un regime decente, una democratura del genere dell’Ungheria o magari della Turchia, europei e russi potranno convivere nonostante la varietà dei regimi interni. In tal caso, anche se ci vorranno dieci anni, si realizzerà il disegno, pensato in alternativa all’imperialismo americano come russo, un tempo da De Gaulle, di un’Europa unita (meglio pacifica), “dall’Atlantico agli Urali”. Per De Gaulle, conservatore riformista vero, tanto l’Europa “delle patrie” quanto l’Europa “dall’Atlantico agli Urali” erano fondamentali.

Quanto al fine massimo del federalismo quantomeno “europeo”, spinelliano, ma prima ancora kantiano, di uno “Stato di Stati” europeo in vista di uno Stato di Stati mondiale, anch’esso in tempi molto lunghi, arriverà. Sono convinto che tra un secolo diverrà inevitabile, via via, per una ragione connessa alla globalizzazione dell’economia, che – nonostante il tentativo ora fortissimo di fermarne la globalizzazione restaurando gli Stati nazionali di una volta, che è alla base dell’attuale successo del nazionalismo populista nel mondo – non potrà essere fermata. Tra dieci anni o tra vent’anni nessuno crederà più che in un mondo così tutto interconnesso la pressione di centinaia di milioni di persone ad andare a stare dove almeno si mangia, e non si rischia troppe volte la vita di continuo persino senza guerre, e dove si ha qualche cura medica, possa essere fermata con la forza; e che in quest’era tecnologica possano funzionare le dogane di una volta. In tutta la storia umana ogni Stato ha sempre arbitrato, cioè un poco regolato, la propria economia (per me come la vera “mano invisibile” o ben presto “allungata”, con buona pace dell’Adam Smith della Ricchezza delle nazioni del 1776 [16]e di tutti i liberisti successivi); ora quest’economia è davvero mondializzata, cioè non è più, se non su scala ridotta, nel potere dei singoli Stati. Basta andare al supermercato per capirlo. Siccome uno Stato senza pieno potere indiretto sull’economia (di cui secondo me in ultima istanza è sempre la “mano visibile”), non è uno Stato, l’unico modo per evitare una catastrofe sarà sempre di più uno Stato di Stati del mondo. Ma è ben difficile, essendo troppo precario, che un tale Stato possa farsi con la forza, e soprattutto mantenersi con la forza. Perciò nei tempi lunghi della storia, la mondializzazione politica “pattizia”, confederativa, a me sembra fatale. Salvo una sorta di catastrofe, purtroppo essa pure possibile (quel che Marx e Engels nel 1848 chiamavano “la comune rovina delle classi in lotta”[17], che spesso sembra dietro l’angolo, ma “poi non accade”, grazie al Cielo, sino a prova contraria: per cui sarà il futuro a dirci come andrà a finire, essendo oggi quasi alla pari la relazione tra soluzione catastrofica o progressiva). Ma persino in uno sciagurato contesto, che per fortuna non sarà inevitabile sino all’ultimo momento, si dovrà poi necessariamente arrivare, in un mondo definitivamente globalizzato, e oltre a tutto con l’Intelligenza Artificiale, alla soluzione statale pattizia a livello mondiale. Mentre sui tempi brevi e medi ci sono molte ragioni per temere il peggio, nel periodo più lungo, anche se certo saremo tutti morti noi, da almeno un secolo, l’avvenire sarà sempre più dello Stato di Stati del mondo o almeno di una Confederazione mondiale. Attraverso quali travagli più o meno immani, purtroppo non si può prevedere a tavolino.

di Franco Livorsi

  1. FRANCO LIVORSI, Cinque vie alla pace mondiale nella storia del pensiero politico: I) Il pacifismo cristiano, “Città Futura on line”, 11 settembre 1924; Cinque vie alla pace nel mondo nella storia del pensiero politico: II) L’internazionalismo rivoluzionario da Karl Marx a Antonio Negri, ivi, 20 settembre 2024; Cinque vie alla pace nel mondo nella storia del pensiero politico: Il realismo nazionalista, ivi, 1° ottobre 2024; Cinque vie alla pace nel mondo nella storia del pensiero politico: IV) Il realismo conservatore e liberale, ivi, 20 ottobre 2024.
  2. C. CATTANEO,Notizie naturali e civili su la Lombardia (1844) – La città considerata come principio ideale delle istorie italiane (1858), Introduzione di M. Talamona, a cura di F. Livorsi (primo saggio) e di R. Ghiringhelli (secondo saggio), presentazione di E. A. Albertoni, Oscar Mondadori, Milano, 2001: F. LIVORSI, La città di Milano nel pensiero di Carlo Cattaneo, in: AA.VV., “Città e pensiero politico italiano dal Risorgimento alla Repubblica”, a cura di R. Ghiringhelli, Vita e Pensiero, Milano, 2007, pp. 71-95; DIPARTIMENTO GIURIDICO-POLITICO DELL’UNIVERSITÀDI MILANO – STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHE, Libertà e Stato nel 1848-49. Idee politiche e costituzionali, Introduzione e cura di Franco Livorsi, Giuffré, Milano, 2001. Rinvio ivi in particolare a: F. LIVORSI, Introduzione, pp. 1-22 e Libertà e Stato nel 1848-49 europeo. Note e riflessioni, pp. 23-56.
  3. MONTESQUIEU (C.-L. de Secondat barone di Montesquieu), Lo spirito delle leggi (1748), Prefazione di G. Macchi, Introduzione cronologia bibliografia e commento di R. Derathé, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1989, due volumi: per il tema della Repubblica federativa è ivi da vedere il libro IX, cap. I, pp. 283-284.
  4. MONTESQUIEU, Considerazioni sulle cause della grandezza dei romani e della loro decadenza (1734), a cura di M. Mori, Einaudi, Torino, 1980.
  5. M. A. CATTANEO, Libertà e virtù nel pensiero di Robespierre, Cisalpino, Milano, 1968. Sosteneva proprio la tesi della derivazione forte del pensiero di Robespierre da Montesquieu. Del resto il robespierriano vedere la virtù come fondamento imprescindibile della forma di governo della Repubblica, veniva certo dal libro di Montesquieu sui Romani antichi. La tesi è rafforzata dalla curatrice di: M. ROBESPIERRE, I principi della democrazia, a cura di A. M. Battista, CEDAM, Padova, 1997. Tuttavia il testo della Costituzione dei giacobini fatto votare alla Convenzione il 24 giugno 1793 mi sembra intriso di idee del Rousseau del Contratto sociale del 1762 (in: “Scritti politici”, a cura di P. Alatri, UTET, Torino, 1870pp. 719-843. Il testo della Costituzione giacobina del 1793 è in: Costituenti e Costituzioni nella Francia moderna, a cura di A. SAITTA, Einaudi, Torino, 1952.
  6. (A. HAMILTON – J. MADISON – J. JAY), Il Federalista (1788), con Introduzione di L. Levi, M. D’Addio, G. Negri, Il Mulino, Bologna, 1997
  7. M. MITCHELL, Via col vento (1936), Rizzoli, 2020. Il film omonimo “classico” è del 1939.
  8. R. LURAGHI, Storia della guerra civile americana, Biblioteca Universale Rizzoli, 2009.
  9. I. KANT, Per la pace perpetua (1795), a cura di N. Merker e con Introduzione di N. Bobbio, Editori Riuniti, Roma, 1992.F. LIVORSI, Pace perpetua e unione mondiale, in: AA.VV., “Stati e Federazioni. Interpretazioni del federalismo”, a cura e con Introduzione di E. A. Albertoni, Eured, Milano, 1998, pp. 3-31,
  10. J. BODIN, Six livres de la République (1576), giustamente tradotto col titolo: I sei libri dello Stato, a cura di M. Isnardi Parente nel I vol. e poi, nel II e III a cura di D. Quaglioni, UTET, 1988/1997, tre voll.
  11. A. SPINELLI – E. ROSSI, Il manifesto di Ventotene (1941 ma 1944 con Prefazione di E. Colorni), presentazione di T. Padoa Schioppa e con un saggio di L. Levi, Oscar Mondadori, 2006.
  12. L. LEVI, Crisi dello Stato e governo del mondo, Giappichelli, Torino, 2005.
  13. C. MALANDRINO, Federalismo. Storia, idee, modelli, Carocci, Roma, 1998; FONDAZIONE EINAUDI, Un popolo per l’Europa unita. Fra dibattito storico e nuove prospettive teoriche e politiche, a cura di C. Malandrino, Olschki, Firenze, 2004; C. MALANDRINO – S. QUIRICO, L’idea di Europa. Storia e prospettive, Carocci, Roma, 2020.
  14. E. RENAN, Che cos’è la nazione? (1882), a cura di S. Lanaro, Donzelli, Roma, 2004.
  15. FRANCO LIVORSI, Umiliati e aggressori: i “Russi” contro l’Ucraina, “Città Futura on line”, 6 marzo 2022; Note sull’Antisessantotto, ivi, 26 luglio 2022; L’anello principale della catena sta in Ucraina, ivi, 25 marzo 2023; Riflessioni minime su problemi internazionali massimi, ivi, 10 novembre 2023, ivi. Ed altri.
  16. A. SMITH, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776), a cura di A. Roncaglia, Isedi, 1995. Smith diceva appunto che l’economia di mercato funziona da sé, come se “una mano invisibile la dirigesse”. Lo pensava pure Marx, vedendo l’economia, col suo gioco continuo tra forze produttive (classi) e rapporti di produzione, come “struttura della storia”. Ma a lato (con una sua dinamica), sta lo Stato, che in modo palese o occulto come minimo la regola, tanto che il vero modo di rovinare economicamente un Paese è sfasciarne lo Stato e il vero modo di salvarne l’economia è farlo funzionare. Molto meglio se democraticamente, senza Stato padrone, perché si può dimostrare che gli Stati relativamente più liberi sono sempre stati i più forti nella storia.
  17. K. MARX – F. ENGELS; Manifesto del Partito comunista (1948), a cura di E. Cantimori Mezzomonti, Einaudi, 1962, a proposito del tema per cui la lotta di classe si conclude sempre o con la vittoria di una classe sull’altra o con la comune rovina delle classi in lotta.

1 Commento

  1. Cerco di offrire un’opinione sulla prima delle più che legittime preoccupazioni di Franco.
    Per vedere se e come uscire da situazioni di guerra occorre pure individuarne le cause. Tra le cause di fondo di ambo le guerre, Gaza e Ucraina, segnalerei i nazionalismi territoriali conditi da nostalgiche ideologie (Putin: ricostruire il Russkiy mir riportandovi almeno le popolazioni russofone/russofile rimaste isolate in altri Stati, dopo la dissoluzione dell’URSS; Netanyahu e la destra israeliana: sogno di un Israele dal Mediterraneo al Giordano, come nella Bibbia, sterminando/espellendo i palestinesi o riducendoli a “riserva indiana”). Date queste premesse, tanto meno v’è di fattibile in ordine alla pacificazione, quanto più quelle ideologie sono radicate nelle popolazioni e nei rispettivi miti (oggi si dice anche “narrazioni”) che ciascuna popolazione crea su di sé. E certo la guerra tra nazioni/nazionalismi è suscettibile di innescare, quale “scintilla”, la guerra tra imperi (come furono i nazionalismi balcanici per la I Guerra mondiale).
    Il resto del mondo, Occidente in testa, ha la corresponsabilità da un lato di aver lasciato marcire una questione endemica come quella israelo-palestinese e in particolare aver chiuso occhi e orecchie sull’illegale colonizzazione della Cisgiordania, sullo stato dei profughi ecc. a Gaza; dall’altra parte, di non aver colto i rischi di un’affrettata dissoluzione dell’impero sovietico con la questione, tra le tante altre, delle forti minoranze russofone/ russofile discriminate negli Stati ex-sovietici, Ucraina inclusa – e tutto ciò nonostante le avvisaglie che venivano già ai primi anni Novanta dalla tragica dissoluzione della Jugoslavia. (Quanto al neo-nazionalismo di Stati ex-sovietici, eclatante il caso dell’Estonia, che ci ha regalato la Kaja Kallas quale alto rappresentante dell’UE per gli Affari esteri ma acerrima nemica della Russia – un pessimo viatico per i rapporti UE-Russia – : in Estonia la consistente minoranza russofona perde cittadinanza e i diritti se non mostra di parlare fluentemente l’estone, una lingua per altro affatto minoritaria in Europa, essendo il russo ufficialmente bandito – tocchiamo così suscettibilità profonde, foriere di odi reciproci, comprensibili ma affatto miopi, dopo le repressioni dell’epoca zarista e poi sovietica subita dagli Estoni).
    Ma la domanda di Franco riguarda principalmente il futuro: che fare per una pacificazione? Arrivare almeno a un cessate il fuoco a Gaza sembra più facile rispetto al conflitto ucraino: si porterebbe Netanyahu a più miti consigli (trattative per lo scambio prigionieri prima, e poi per il futuro di Gaza e della Cisgiordania) chiudendogli il rubinetto della fornitura di armi e di altre sovvenzioni. La chiave della soluzione al momento è interamente nelle mani degli USA e fortunatamente gli altri paesi arabi importanti (Egitto ed Arabia Saudita) in questa crisi hanno mostrato fin troppa pazienza e moderazione verso Israele (certo anche per differenziarsi dall’Iran, il loro avversario regionale). L’avvio di una soluzione per Gaza e la Palestina darebbe meno pretesti all’Iran e ai suoi alleati.
    Nel caso dell’Ucraina il cessate il fuoco già in linea di principio è più complesso, perché può avvenire solo nel quadro di più ampie trattative bilaterali – a partire dalla diplomazia sotto traccia – tra Russia e Nato ovvero Russia e USA, per stabilire i termini di garanzie di sicurezza reciproca in Europa, come fu ai “bei tempi” (si fa per dire) della guerra fredda. Ovvio che nelle trattative ciascuno guadagna qualcosa e deve rinunciare a qualcos’altro: verosimilmente a questo punto dei rapporti di forza non si possono non lasciare alla Russia i territori occupati, per altro ampiamente russofoni, in cambio di qualche forma di associazione dell’Ucraina alla Nato e di garanzie per le popolazioni russofone rimaste in Ucraina e ucrainofone passate sotto la Federazione russa. Purtroppo tra i candidati alla presidenza USA è solo Trump che sembra abbracciare una simile soluzione; ma la Realpolitik dovrebbe far pensare anche ai Democratici USA che è pericoloso avere due fronti aperti quando l’avversario del prossimo futuro è la Cina.

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