Cinque vie alla pace nella storia del pensiero politico: il federalismo internazionale

In precedenti articoli ho illustrato diversi modelli di pace nel mondo nella storia del pensiero politico, soffermandomi abbastanza a lungo: sul pacifismo cristiano o gandhiano; sul nazionalismo dalla Germania guglielmina e dal nazifascismo sino a Putin; sull’internazionalismo proletario socialista e comunista, e sul realismo conservatore e pure liberale[1]. Mi resta ancora un’ultima tendenza importante da vagliare: quella ardua, ma al tempo stesso possibile, e comunque nei tempi lunghi per me necessaria, che si compendia nella parola “federalismo”.

Su questa tendenza è molto facile andare incontro a grandi fraintendimenti. Del resto ce ne sono stati tanti pure in riferimento a termini come “liberalismo”, “socialismo” e persino “nazionalismo”. Pure nazionalisti estremi e quantomeno fascistoidi come, dopo il comunismo, in Russia, Zirinovski o Putin, si sono detti liberali. Anche Hitler si diceva “socialista” (nazionalsocialista). E De Gaulle, il grande nemico dei collaborazionisti con Hitler, era un nazionalista democratico (benché l’espressione più cospicua del nazionalismo nel secolo scorso siano stati i fascismi, che in sostanza sono stati nazionalismi autoritari con basi di massa). Ma veniamo al Federalismo.

Faccio solo alcune brevi osservazioni sul Federalismo e, anzi, sui federalismi, in generale.

Potremmo dire che il Federalismo, legato all’etimo latino del phoedus (patto), è la tendenza “pattizia”: è la corrente che vuole realizzare sempre patti d’unione tra regioni o Stati in precedenza divisi, per associarli, salvaguardando però una vasta autonomia tra quelli che si mettono insieme. Sono plurimi in uno, molti nell’unità cui danno vita. Perciò il Federalismo, contro quello che molti credono, è una tendenza molto unitiva e niente affatto divisiva.

Me ne sono pure occupato molto come storico del pensiero politico: vuoi curando nel 2001, per gli Oscar Mondadori, il saggio di Carlo Cattaneo Notizie naturali e civili su la Lombardia (1844); vuoi in un mio saggio del 2007 sulla città di Milano nel pensiero di Cattaneo; vuoi introducendo e curando nel 2001 un’opera collettanea, del Dipartimento Giuridico Politico dell’Università di Milano cui afferivo, su libertà e Stato nel 1848 italiano.[2] Cattaneo (1801-1869) si muoveva in un contesto nell’insieme anteriore all’Unità d’Italia (1861 e poi 1870, con presa di Roma). Il suo Federalismo voleva unire l’Italia divisa in tanti stati e non già dividere quella già unita. Ma di ciò altro non dico qui, non occupandomi di tutte le tendenze a dividere invece l’Italia unita, senza volerlo o volendolo: dal mito e lotta per la Padania di Umberto Bossi al regionalismo “spinto” promosse sotto i governi di Prodi e poi Amato dal 1997 al 2001, in specie dal ministro della funzione pubblica, Franco Bassanini, con leggi tra 1997 e 1999 e con modifica dell’articolo quinto della Costituzione tramite il referendum del 7 ottobre 2001 (cui fui contrario), sino alla recente legge in vigore del 26 giugno 2024 di Roberto Calderoli, detta dell’autonomia differenziata, che rischia, sotto un governo nazionalista, di disfare il Risorgimento.

Qui però io ho solo posto qualche paletto su Italia e Federalismo, più che altro per segnalare che il vero Federalismo vuole l’unione fraterna di coloro che sono divisi, e non già la divisione di coloro che sono uniti, mentre il tema che vorrei svolgere qui concerne questa tendenza nella dimensione sovranazionale e internazionale, specie in vista della pace nel mondo.

Ora le tappe del Federalismo internazionale (o pure continentale) sono soprattutto le seguenti. Nel 1787 circa 35 delegati dei quattro milioni circa di abitanti distribuiti nei tredici Stati, ex colonie americane, liberatisi insieme dal dominio inglese, si riunirono nella Convenzione di Filadelfia (la loro Costituente). Si trattava di gestire la libertà dagli inglesi appena conquistata. La Storia riunì lì una manciata di persone di primissimo livello.

I liberi americani , che già nella Dichiarazione d’indipendenza del 1776 scritta da Thomas Jefferson si erano detti “popolo degli Stati Uniti”, in quel 1787 avrebbero potuto fare uno Stato unitario, allora generalmente monarchico, di tipo europeo. Ma un re non ce l’avevano, e addio indipendenza se ne avessero fatto arrivare uno da qualche casata europea. Avevano però un ottimo condottiero, George Washington (poi primo presidente degli USA). Potevano pure fare tredici Stati nazionali, ma sarebbero stati facilmente inglobati da una od altra potenza europea, e poi giocati l’uno contro l’altro; e poi ogni Stato, a quei tempi lontano dagli altri dato il sistema di comunicazioni del 1787, era pure geloso dell’indipendenza. Allora s’inventarono il Federalismo, sviluppando alcune idee che c’erano già nello Spirito delle leggi (1748) di Montesquieu[3], di cui erano tutti lettori entusiasti. Alla fine decisero, scrivendolo nella Costituzione, che si sarebbero fatte due Camere (nell’insieme dette “Congresso”). In una i cittadini avrebbero mandato i loro delegati (deputati) col classico criterio una testa un voto, allora rivoluzionario (Camera dei rappresentanti), come uno Stato nazionale ma democratico; nell’altra gli Stati, dapprima con delegati dei governi, avrebbero mandato due rappresentanti per Stato (invece di una testa – un voto, uno Stato – un voto (con due senatori), a prescindere da numero di abitanti o estensione territoriale: così anche gli Stati più remoti e poveri sarebbero stati uguagliati agli altri, e tutti si sarebbero sentiti rassicurati. Quindi, Camera dei cittadini uguali da un lato e Camera (Senato) degli Stati uguali tra loro, dall’altro: due Camere che costituiscono il Congresso degli Stati Uniti. Al di sopra posero un Presidente con amplissimi poteri, quasi da re elettivo, votato dal popolo, ma scelto tramite una complessa rappresentanza di grandi elettori nominati dagli Stati membri, su cui qui non mi soffermo: anche se quest’enorme potere del Presidente e Capo del governo dell’Unione, specie in materia di guerra e pace, era ed è bilanciato da un potere legislativo (Congresso), che essendo eletto a sé come il Presidente può essere come non essere di colore politico uguale a quello del Presidente. Per tacere della piccola Corte suprema (di nove giudici), varata nel 1791, garante della costituzionalità di ogni legge, tramite membri nominati a vita dal Presidente, che però poi prescindono da lui, sia perché l’eletto a vita può pure infischiarsene del nominante (perché come si sa in politica la gratitudine non paga mai o quasi), e sia perché essendo la nomina a vita il Presidente può eleggere solo qualcuno.

Poi il testo costituzionale fu sottoposto a referendum, e tra gli Stati allora più importanti c’era quello relativamente popoloso, e molto influente, di New York. Tre tra i principali costituenti – Alexander Hamilton, James Madison e John Jay – fecero allora una campagna di stampa sulla stampa di New York, firmando i loro 85 articoli, come fossero stati una sola voce, con lo pseudonimo “Publius” (allora era molto vivo, tra gli illuministi, il mito della Repubblica romana antica dei liberi cittadini, anche per influsso del libro di Montesquieu del 1734 Considerazioni sulla causa della grandezza dei romani e della loro decadenza: un Montesquieu[4] che ebbe la maggior influenza sui rivoluzionari del XVIII secolo, pure su Robespierre[5], più o meno come Marx tra XIX e XX, ma nel XVIII secolo in senso liberale o democratico nascente). Questi 85 articoli furono subito riuniti in volume, a cura del solo Hamilton, nel 1788, col titolo comune Il federalista, e sono in effetti, a mio parere, l’opera più straordinaria del e sul federalismo, specie per gli apporti di James Madison[6].

Su ciò c’è una discussione complessa tra storici relativa al carattere confederale o federale di quegli “Stati Uniti”. Al proposito va ricordato che nella storia del pensiero politico si chiama “confederazione” un’unione tra Stati sovrani che mantengono per la gran parte il carattere di Stati sovrani, unione da cui infatti ogni Stato però potrà sempre dissociarsi (come ha fatto la Gran Bretagna o Regno Unito nel 2016, dopo referendum interno); si chiama invece Federazione un vero “Stato di Stati”, come sarebbe stato quello della costituzione di Filadelfia del 1787 difesa anche dottrinariamente dal Federalist del 1788. E, per me, non c’è dubbio che quello dicessero Costituzione del 1787 (con integrazioni sino al 1791) e Federalist del 1788. Ma in principio il diritto di dissociazione non era ancora negato, tanto che il vero oggetto del contendere tra Stati del sud (“confederati”) e del nord tra 1861 e il 1865 non era tanto la libertà di avere schiavi quanto quello di potere o meno staccarsi dalla grande Unione degli Stati Uniti. Lo spirito di quel grande conflitto visto dalla parte dei vinti si può cogliere ancora nel grande romanzo di Margareth Mitchell Via col vento (1936), e nel coevo famoso film, fedele, interpretato pure da Clark Gable, del 1939.[7] Vinsero gli unionisti (“nordisti”), ma in una guerra civile con 600.000 morti, su quindici milioni di abitanti.[8]

Ma a questo punto facciamo un passo indietro, tra i contemporanei della Rivoluzione america, ma nella Prussia dell’assolutismo illuminato. Ivi operava, a Könisberg (che oggi è la russa Kaliningrad), il maggior filosofo dell’illuminismo, il razionalista tedesco Immanuel Kant. Egli sapeva tutto su Montesquieu, ma sapeva parecchio anche sull’America del 1787 e sulla Francia rivoluzionaria del 1789 e successiva. Nel 1795 volle affrontare il problema della pace stabile nel mondo, dopo le molte guerre recenti tra cui quella dei sette anni (finita nel 1765), in un piccolo libro, Per la pace perpetua, che io pure ho commentato in un mio saggio.[9] Che cosa avrebbe potuto garantire una pace idealmente permanente (“perpetua”), vero compimento dell’ideale della razionale intersoggettività realizzata nella Storia una volta per tutte? Forse la politica dell’equilibrio? (di cui qui si è detto a proposito del “realismo conservatore”). Kant diceva che la politica dell’equilibrio, che decide di intervenire, per lo più tramite coalizioni, contro chi con la forza muti la tradizionale geografia politica tra Stati, assomigliava a quella bellissima casa fatta con carte da gioco, che sembrava perfetta, ma bastava che un uccellino vi si posasse sopra e tutto crollava (regalandoci sempre nuove guerre). Queste erano destinate a tornare essendo gli Stati, tra loro, nello stato di natura tematizzato da Hobbes nel Leviatano (1651), la “guerra di tutti contro tutti” (“bellum omnium contra omnes”), in quanto nelle relazioni internazionali, diversamente che all’interno degli Stati, mancava un’autorità capace di fare la legge e soprattutto di imporla (la legge vale per la sua autorità costrittiva). Allora si trattava di farla (questa legge costrittiva, e dunque questo Stato) anche per il mondo. L’illuminista Kant non dubitava che una tal legge sarebbe arrivata, per lui soprattutto perché dai piccoli gruppi dei primitivi della Preistoria, o selvaggi, la dimensione degli Stati era diventata sempre più grande; e tutto, persino la rotondità della terra, diceva, pare aver sempre spinto verso una sempre maggiore interdipendenza tra gli uomini. Il solo problema era, e, secondo me, sempre più è, vedere se accadrà in forma di dispotismo universale (non tanto diverso dal sogno di un impero o Reich millenario come telos finale dei nazisti) oppure in forma liberale. Kant era per la seconda strada puntando su un’unione, ancora un poco vaga in quel 1795, tra “libere Repubbliche”, in cui però il termine “Repubblica”, come già la république di Bodin[10], stava non già per non-monarchia, ma per Stato (“res publica”): libero perché “di diritto”, e di diritto non tanto perché elettivo (lì scriveva un prussiano del 1795, per quanto ultrariformista), ma perché la legge non deve stare sotto il governo, ma una volta emanata ha da valere per tutti, anche per il governo (insomma, Stato “libero” stava per Stato di diritto, in cui la legge emanata regna sovrana su tutti i cittadini, governo compreso: altrimenti lo Stato, la res publica, non è libero). Sapeva benissimo che la realtà era diversa (di Stati ben divisi tra loro), ma sosteneva che sino a quando non si fosse fatto così, cioè la federazione o confederazione degli Stati “liberi” del mondo, sarebbero seguitate le guerre. Com’è poi accaduto, sino a quella più grande della storia, del 1939-1945, conclusasi con cinquanta milioni di morti. Anche le diverse Società delle Nazioni o Nazioni Unite o tribunali del diritto internazionale come la Corte dell’Aja, del XX e XXI secolo, non avendo forza di Stato mondiale per imporre i propri deliberati, non sono stati in grado di pacificare il mondo. Pur avendo un loro ruolo importante, sebbene mai decisivo, nell’evoluzione dello spirito umano.

Durante la Seconda guerra mondiale un gruppo di confinati antifascisti provò a tornare a ragionare sulla pace nel mondo. Erano Ernesto Rossi e Altiero Spinelli, autori nel 1941 del Manifesto di Ventotene, poi edito per la prima volta nel 1944 a cura di Eugenio Colorni, e testo fondamentale[11] del Movimento Federalista Europeo. Il solo modo di arrivare alla pace, per loro, è la continentalizzazione di tipo federativo degli Stati (qui lo Stato di Stati europeo, come gli Stati Uniti), che in realtà sarebbe solo una tappa verso lo Stato di Stati del mondo, come sottolinea con forza Lucio Levi.[12]

Questo sarebbe totalmente possibile come proprio la Costituzione del 1787 e il Federalist dimostrano benissimo (e il Manifesto di Ventotene riprendeva in modo definitivo). Anche se su questo si può discutere, perché il Federalismo come “Stato di Stati” nacque davvero in America tra 1787 e 1791, ma si realizzò come Stato di Stati solo nel 1865, non a caso tramite una guerra detta di secessione: guerra che non avvenne affatto, se non secondariamente, per l’abolizione della schiavitù, ma perché gli Stati del Sud (confederati) volevano staccarsi dagli Stati Uniti. La questione fu risolta in senso unionista dai nordisti, ma dopo una guerra civile sanguinosissima.

Io sono favorevolissimo a federalismo europeo, ma piuttosto pessimista, perché per me gli Stati o sono – con buona pace del marxismo (mi spiace) – la struttura della Storia, o sono almeno o una seconda struttura (a lato dell’economia nel divenire collettivo), oppure l’altra faccia di una sola struttura (rispetto all’economia): e le loro prerogative, la loro “sovranità”, non le mollano se non per forza, nei momenti essenziali, in genere tramite un federatore che bon gré mal gré si fa riconoscere, come lo Stato sabaudo fattosi nazionale nel Risorgimento, o la Prussia in Germania dal 1870, eccetera. Ma riconosco che si danno nella storia scenari straordinari, purché non si perda il treno.

Ad esempio dopo la Seconda guerra mondiale, lo sconvolgimento per quella montagna di morti e rovine fu tale, e l’interesse degli Stati Uniti a contenere quella che pareva imminente espansione del comunismo, erano così forti, che si sarebbe potuto fare molto in direzione degli Stati Uniti d’Europa, specie quando parve possibile mettere insieme una Comunità Europea di Difesa tra il 1950 e il 1952 (cioè unificare gli eserciti, punto chiave per fare uno Stato). Ma poi i francesi, ancora molto timorosi dei tedeschi, la fecero fallire nel 1954 nel loro Parlamento come nel maggio 2005 il popolo francese votò contro la pure un po’ macchinosa Costituzione europea.

Comunque tra molte traversie nel novembre 1993 si era giunti all’Unione Europea, che è una costruzione ibrida, un poco come l’assurdo animale chiamato giraffa al quale il sottile leader del PCI, Togliatti, nel 1960, con ironia voltairriana, paragonava il suo PCI, leninista e costituzionale al tempo stesso. Infatti l’Unione Europea è un ibrido tra confederalismo spinto e federalismo, cioè tra Grande Alleanza tra Stati sovrani, e “Stato di Stati”: nel senso che il diritto di veto anche di un solo membro blocca ogni decisione importante; ma ci sono due punti chiave da Stato di Stati, cioè federalisti: l’unione monetaria attorno all’euro per molti Stati membri, e la prevalenza delle norme del diritto europeo sul diritto dei singoli Stati. Tuttavia tutto questo ha fatto sì e fa sì che ogni Paese abbia una sua politica estera e militare. Si è visto che in tutte e due le grandi crisi belliche che negli ultimi anni hanno sconvolto il mondo – guerra russo-ucraina e del Medio Oriente – l’Unione Europea non ha contato quasi niente. Ha sì sostenuto politicamente e militarmente l’Ucraina, ma sempre come forza di complemento dell’alleanza militare occidentale della NATO, cioè degli Stati Uniti, e tutto sommato, pur con tutta la generosità lodevole del mondo, l’ha fatto a proprio economico danno.

Alcuni federalisti, come i miei amici Corrado Malandrino e Stefano Quirico, che su questi temi hanno dato apporti di prim’ordine,[13] sostengono essenzialmente due cose.

La prima è che l’Unione Europea in senso forte, come già la formazione di Stati nazionali come il nostro del XIX secolo, richiede una sorta di rivoluzione culturale: un sentirsi “popolo degli Stati Uniti d’Europa” come gli americani dalla famosa dichiarazione d’indipendenza del 1776 in poi, perché, come disse Rénan in una famosa conferenza del 1882 (Che cos’è una nazione?)[14], ogni nazione sottende l’implicito plebiscito quotidiano del voler “stare insieme”, cioè un dato di coscienza comune, che ad esempio in Germania e in Italia è arrivato da Fichte o Mazzini. Insomma, bisogna lavorare per educare tutti a sentirsi buoni europei. Condivido.

La seconda cosa è la critica al troppo frettoloso allargamento dell’Unione Europea – al tempo della presidenza Prodi, su pressione congiunta dei popoli dell’Est europeo sempre timorosi del ritorno dell’orso russo per ragioni non banali, e degli americani – a tutto l’est europeo, e in specie alla NATO. Ciò ha da un lato reso più complicato fare passi dalla confederazione alla federazione (verso l’Unione Europea come Stato di Stati); dall’altro ha innescato una conflittualità latente, e poi esplosa, con la Russia, che non poteva certo rimanere sempre Stato a pezzi come dopo il crollo dell’URSS del 1991, ma che in area russofona mirava e mira a tornare ad essere la “grande nation” slava che è da secoli (il che è il senso stesso dell’operare di quella sorta di Mussolini russo che è stato, e per ora è, Putin).

Di nuovo condivido la critica all’eccessivo e frettoloso allargamento dell’Unione Europea a tutto l’Est europeo, anche se la Polonia è Europa quanto l’Italia (e solo la geografia, che la pone tra due colossi come Germania e Russia, le aveva impedito di diventare una libera nazione europea come la nostra). Ma l’idea che gli Stati dell’ex impero sovietico siano entrati nella NATO invece di diventare una grande area neutrale tra Unione Europea e Russia, la trovo folle. È veramente incredibile, prova di tragica pochezza politica da Stato che stava morendo, come quella di Romolo Augustolo nel 476, che Gorbaciov abbia garantito che non sarebbe intervenuto a salvare l’impero (o paesi che si scindessero come la Germania Est), senza ottenere una garanzia, con trattato con americani e occidentali, almeno di neutralizzazione militare dell’Europa orientale che stava finalmente abbandonando dopo oltre quarant’anni di occupazione mascherata da fratellanza tra Stati “socialisti” nella speranza che diventasse tale.

L’invasione dell’Ucraina attuale da parte di Putin era certo, ed è, da condannare in modo totale. Erano pure giuste sanzioni in proposito alla Russia. Si potevano persino dare agli ucraini aggrediti le armi leggere che sovietici e cinesi davano ai vietnamiti bombardati dagli americani tutti i giorni col napalm. Ma, a mio parere, e l’ho detto qui sin dall’inizio della guerra russo-ucraina[15], la via scelta dagli americani, e seguita per un misto di ideologismo anche moralmente nobile e di cecità politica da parte dell’Unione Europea militarmente sempre subalterna degli Stati Uniti, è stata basata su una sostanziale sovrapposizione di motivazioni nel sostegno politico economico e militare all’Ucraina proditoriamente aggredita dai russi.

Da un lato c’è stata una motivazione idealistica e morale, che secondo me è stata molto forte anche tra gli americani, e tanto più tra gli europei, indignati per l’invasione cinica di un Paese ai confini della Polonia e che si sente da sempre attratto dall’Occidente – invasione da parte degli ex imperialisti sovietici, diventati imperialisti di tipo grande russo – e questa condanna era da condividere e persino da dilatare quanto possibile. In secondo luogo c’è stata la volontà di resistenza del governo e popolo ucraino, a partire dal capo del governo Zelensky, che forse per molto tempo si è sentito una specie di piccolo Bonaparte, in tal caso liberatore; se questi ucraini se la sentivano di lottare contro i russi invasori, invece di riparare in America come il fu Kerensky dopo il 1917, perché non lasciarglielo fare e sostenerli, pur stando come Stati Unirti e Unione Europea alla larga dalla Russia, che è pur sempre una grande potenza nucleare?

Però c’era una terza motivazione, certo importantissima per l’America, e condivisa o subita, anche per inferiorità militare e modestia politica dei suoi statisti, dall’Unione Europea e dai grandi Stati europei: sconfiggere la Russia; impedirle, per la solita lotta per l’egemonia mondiale delle grandi potenze, di ridiventare una grande potenza: ma senza mandare i propri “ragazzi” a morire per l’Ucraina, bensì sostenendo gli ucraini nella loro giusta, e però anche utile, lotta contro l’imperialismo russo. A quanto pare il disegno è fallito, sia nella parte nobile che in quella strumentale, di lotta tra imperialismo a stelle e strisce contro quello grande russo, del disegno. L’idea che questa lunga guerra con centinaia di migliaia di morti, e che in certi momenti ha rischiato di diventare nucleare, sia stata sostenuta – sino all’autorizzazione finale data da diversi paesi come l’America di Biden di tirare missili dentro la Russia – per puro idealismo democratico, contraddice la storia di tutte le guerre e io non me la bevo, come se uno volesse raccontarmi che la Grande Guerra è scoppiata per la piccola Serbia o la Seconda per Danzica. Al massimo quelle scoppiettanti e pur gravi crisi locali sono state concause (e neppure di primo livello: questo ci dice la storia). Ma allora la faccenda vera era colpire la Grande Russia, e così magari dare una bella lezione anche alla Cina sua alleata.

Quanto al federalismo internazionale, sembrerebbe doversi dire fallito sia come progetto di unificazione europea o mondiale di tal genere che di pacificazione tra i contendenti; e sembrerebbe, quindi, che debba essere data ogni ragione a quello che qui avevo definito realismo conservatore o liberale. Ma è vero solo in parte.

Certo potrebbe arrivare una terza guerra mondiale spaventosa, anche perché chiudere i conflitti in corso (in Ucraina e in tutto il Medio Oriente) non è facile come sembra, e ci sarà presto un inasprimento programmato dello scontro commerciale, con dazi sulle importazioni e chissà che altro, tra Cina e America (e forse persino tra USA e Unione Europea), e la crisi del Medio Oriente può generare ancora guerra. Tutto ciò purtroppo resta e resterà forse per diversi anni del tutto possibile.

Ma se invece talune di tali gravi crisi, come quella russo-ucraina, verranno risolte (e la guerra commerciale che si annuncia con Trump non degenererà in nuovi conflitti), pure l’ipotesi federalista potrà lentamente crescere. Spiace solo che per arrivare a quello che si poteva capire dal principio, e che io ho sostenuto subito qui, cioè che alla fine la Russia si sarebbe annessi Crimea e Donbass, sia stato versato un fiume di sangue di ucraini e russi innocenti. Certo alla conclusione ha concorso da un lato la maggior forza e resistenza della Russia, nonostante l’eroismo degli ucraini e i forti aiuti euro-americani, e dall’altro l’elezione a presidente degli Stati Uniti di Donald Trump, che mira ad una sorta di nuovo isolazionismo da “America agli americani”, e vuole sganciarsi non appena possibile da un conflitto con un Putin che addirittura ammira. L’elezione di Trump è certo stata una mezza catastrofe per la resistenza ucraina. Ma “è la storia, bellezza”.

Oltre a tutto il conflitto con la Russia ha addirittura messo in crisi economica la Germania (per via del costo delle materie prime che venivano dalla Russia), e danneggiato l’economia europea. Sarebbe stato meglio ricercare una soluzione di compromesso tra popoli per secoli legati che han deciso di dividersi, più o meno come nel 1861 volevano fare in America gli Stati del sud rispetto a quelli del Nord (solo che qui, tra ucraini e russi, sono stati gli slavi più europei, più avanzati, ucraini, a volersi, legittimamente, come da tanto tempo, staccare dall’ex casa madre).

Se però non ci fosse o non ci sarà alcuna grande guerra europea, il che per ora non si può sapere, cresceranno pure le chances del federalismo europeo e mondiale. In tal caso, sia pure in modo lentissimo, l’Europa “Stato di Stati” si farà, o quantomeno gli elementi di federalismo nell’Unione Europea cresceranno. Credo, però, che siccome l’Unione Europea non riuscirà mai né a realizzare una potenza militare propria come se fosse gli Stati Uniti e pagando le spese per questo, né a togliere il potere della forza militare, e dunque in politica estera, agli Stati nazionali membri (che non la molleranno mai), sarà giocoforza mettersi d’accordo con i russi invece di averli nemici. Questo naturalmente è impossibile finché dureranno i metodi cui sembra indulgere troppo spesso il regime retto dall’ex agente del KGB. Ma se, com’è possibile, in Russia si svilupperà non dico una democrazia liberale in stile Westminster, impossibile in Stati con tali dislivelli di sviluppo interni e tale varietà di popoli membri, ma quantomeno un regime decente, una democratura del genere dell’Ungheria o magari della Turchia, europei e russi potranno convivere nonostante la varietà dei regimi interni. In tal caso, anche se ci vorranno dieci anni, si realizzerà il disegno, pensato in alternativa all’imperialismo americano come russo, un tempo da De Gaulle, di un’Europa unita (meglio pacifica), “dall’Atlantico agli Urali”. Per De Gaulle, conservatore riformista vero, tanto l’Europa “delle patrie” quanto l’Europa “dall’Atlantico agli Urali” erano fondamentali.

Quanto al fine massimo del federalismo quantomeno “europeo”, spinelliano, ma prima ancora kantiano, di uno “Stato di Stati” europeo in vista di uno Stato di Stati mondiale, anch’esso in tempi molto lunghi, arriverà. Sono convinto che tra un secolo diverrà inevitabile, via via, per una ragione connessa alla globalizzazione dell’economia, che – nonostante il tentativo ora fortissimo di fermarne la globalizzazione restaurando gli Stati nazionali di una volta, che è alla base dell’attuale successo del nazionalismo populista nel mondo – non potrà essere fermata. Tra dieci anni o tra vent’anni nessuno crederà più che in un mondo così tutto interconnesso la pressione di centinaia di milioni di persone ad andare a stare dove almeno si mangia, e non si rischia troppe volte la vita di continuo persino senza guerre, e dove si ha qualche cura medica, possa essere fermata con la forza; e che in quest’era tecnologica possano funzionare le dogane di una volta. In tutta la storia umana ogni Stato ha sempre arbitrato, cioè un poco regolato, la propria economia (per me come la vera “mano invisibile” o ben presto “allungata”, con buona pace dell’Adam Smith della Ricchezza delle nazioni del 1776 [16]e di tutti i liberisti successivi); ora quest’economia è davvero mondializzata, cioè non è più, se non su scala ridotta, nel potere dei singoli Stati. Basta andare al supermercato per capirlo. Siccome uno Stato senza pieno potere indiretto sull’economia (di cui secondo me in ultima istanza è sempre la “mano visibile”), non è uno Stato, l’unico modo per evitare una catastrofe sarà sempre di più uno Stato di Stati del mondo. Ma è ben difficile, essendo troppo precario, che un tale Stato possa farsi con la forza, e soprattutto mantenersi con la forza. Perciò nei tempi lunghi della storia, la mondializzazione politica “pattizia”, confederativa, a me sembra fatale. Salvo una sorta di catastrofe, purtroppo essa pure possibile (quel che Marx e Engels nel 1848 chiamavano “la comune rovina delle classi in lotta”[17], che spesso sembra dietro l’angolo, ma “poi non accade”, grazie al Cielo, sino a prova contraria: per cui sarà il futuro a dirci come andrà a finire, essendo oggi quasi alla pari la relazione tra soluzione catastrofica o progressiva). Ma persino in uno sciagurato contesto, che per fortuna non sarà inevitabile sino all’ultimo momento, si dovrà poi necessariamente arrivare, in un mondo definitivamente globalizzato, e oltre a tutto con l’Intelligenza Artificiale, alla soluzione statale pattizia a livello mondiale. Mentre sui tempi brevi e medi ci sono molte ragioni per temere il peggio, nel periodo più lungo, anche se certo saremo tutti morti noi, da almeno un secolo, l’avvenire sarà sempre più dello Stato di Stati del mondo o almeno di una Confederazione mondiale. Attraverso quali travagli più o meno immani, purtroppo non si può prevedere a tavolino.

di Franco Livorsi

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  1. FRANCO LIVORSI, Cinque vie alla pace mondiale nella storia del pensiero politico: I) Il pacifismo cristiano, “Città Futura on line”, 11 settembre 1924; Cinque vie alla pace nel mondo nella storia del pensiero politico: II) L’internazionalismo rivoluzionario da Karl Marx a Antonio Negri, ivi, 20 settembre 2024; Cinque vie alla pace nel mondo nella storia del pensiero politico: Il realismo nazionalista, ivi, 1° ottobre 2024; Cinque vie alla pace nel mondo nella storia del pensiero politico: IV) Il realismo conservatore e liberale, ivi, 20 ottobre 2024.
  2. C. CATTANEO,Notizie naturali e civili su la Lombardia (1844) – La città considerata come principio ideale delle istorie italiane (1858), Introduzione di M. Talamona, a cura di F. Livorsi (primo saggio) e di R. Ghiringhelli (secondo saggio), presentazione di E. A. Albertoni, Oscar Mondadori, Milano, 2001: F. LIVORSI, La città di Milano nel pensiero di Carlo Cattaneo, in: AA.VV., “Città e pensiero politico italiano dal Risorgimento alla Repubblica”, a cura di R. Ghiringhelli, Vita e Pensiero, Milano, 2007, pp. 71-95; DIPARTIMENTO GIURIDICO-POLITICO DELL’UNIVERSITÀDI MILANO – STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHE, Libertà e Stato nel 1848-49. Idee politiche e costituzionali, Introduzione e cura di Franco Livorsi, Giuffré, Milano, 2001. Rinvio ivi in particolare a: F. LIVORSI, Introduzione, pp. 1-22 e Libertà e Stato nel 1848-49 europeo. Note e riflessioni, pp. 23-56.
  3. MONTESQUIEU (C.-L. de Secondat barone di Montesquieu), Lo spirito delle leggi (1748), Prefazione di G. Macchi, Introduzione cronologia bibliografia e commento di R. Derathé, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1989, due volumi: per il tema della Repubblica federativa è ivi da vedere il libro IX, cap. I, pp. 283-284.
  4. MONTESQUIEU, Considerazioni sulle cause della grandezza dei romani e della loro decadenza (1734), a cura di M. Mori, Einaudi, Torino, 1980.
  5. M. A. CATTANEO, Libertà e virtù nel pensiero di Robespierre, Cisalpino, Milano, 1968. Sosteneva proprio la tesi della derivazione forte del pensiero di Robespierre da Montesquieu. Del resto il robespierriano vedere la virtù come fondamento imprescindibile della forma di governo della Repubblica, veniva certo dal libro di Montesquieu sui Romani antichi. La tesi è rafforzata dalla curatrice di: M. ROBESPIERRE, I principi della democrazia, a cura di A. M. Battista, CEDAM, Padova, 1997. Tuttavia il testo della Costituzione dei giacobini fatto votare alla Convenzione il 24 giugno 1793 mi sembra intriso di idee del Rousseau del Contratto sociale del 1762 (in: “Scritti politici”, a cura di P. Alatri, UTET, Torino, 1870pp. 719-843. Il testo della Costituzione giacobina del 1793 è in: Costituenti e Costituzioni nella Francia moderna, a cura di A. SAITTA, Einaudi, Torino, 1952.
  6. (A. HAMILTON – J. MADISON – J. JAY), Il Federalista (1788), con Introduzione di L. Levi, M. D’Addio, G. Negri, Il Mulino, Bologna, 1997
  7. M. MITCHELL, Via col vento (1936), Rizzoli, 2020. Il film omonimo “classico” è del 1939.
  8. R. LURAGHI, Storia della guerra civile americana, Biblioteca Universale Rizzoli, 2009.
  9. I. KANT, Per la pace perpetua (1795), a cura di N. Merker e con Introduzione di N. Bobbio, Editori Riuniti, Roma, 1992.F. LIVORSI, Pace perpetua e unione mondiale, in: AA.VV., “Stati e Federazioni. Interpretazioni del federalismo”, a cura e con Introduzione di E. A. Albertoni, Eured, Milano, 1998, pp. 3-31,
  10. J. BODIN, Six livres de la République (1576), giustamente tradotto col titolo: I sei libri dello Stato, a cura di M. Isnardi Parente nel I vol. e poi, nel II e III a cura di D. Quaglioni, UTET, 1988/1997, tre voll.
  11. A. SPINELLI – E. ROSSI, Il manifesto di Ventotene (1941 ma 1944 con Prefazione di E. Colorni), presentazione di T. Padoa Schioppa e con un saggio di L. Levi, Oscar Mondadori, 2006.
  12. L. LEVI, Crisi dello Stato e governo del mondo, Giappichelli, Torino, 2005.
  13. C. MALANDRINO, Federalismo. Storia, idee, modelli, Carocci, Roma, 1998; FONDAZIONE EINAUDI, Un popolo per l’Europa unita. Fra dibattito storico e nuove prospettive teoriche e politiche, a cura di C. Malandrino, Olschki, Firenze, 2004; C. MALANDRINO – S. QUIRICO, L’idea di Europa. Storia e prospettive, Carocci, Roma, 2020.
  14. E. RENAN, Che cos’è la nazione? (1882), a cura di S. Lanaro, Donzelli, Roma, 2004.
  15. FRANCO LIVORSI, Umiliati e aggressori: i “Russi” contro l’Ucraina, “Città Futura on line”, 6 marzo 2022; Note sull’Antisessantotto, ivi, 26 luglio 2022; L’anello principale della catena sta in Ucraina, ivi, 25 marzo 2023; Riflessioni minime su problemi internazionali massimi, ivi, 10 novembre 2023, ivi. Ed altri.
  16. A. SMITH, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776), a cura di A. Roncaglia, Isedi, 1995. Smith diceva appunto che l’economia di mercato funziona da sé, come se “una mano invisibile la dirigesse”. Lo pensava pure Marx, vedendo l’economia, col suo gioco continuo tra forze produttive (classi) e rapporti di produzione, come “struttura della storia”. Ma a lato (con una sua dinamica), sta lo Stato, che in modo palese o occulto come minimo la regola, tanto che il vero modo di rovinare economicamente un Paese è sfasciarne lo Stato e il vero modo di salvarne l’economia è farlo funzionare. Molto meglio se democraticamente, senza Stato padrone, perché si può dimostrare che gli Stati relativamente più liberi sono sempre stati i più forti nella storia.
  17. K. MARX – F. ENGELS; Manifesto del Partito comunista (1948), a cura di E. Cantimori Mezzomonti, Einaudi, 1962, a proposito del tema per cui la lotta di classe si conclude sempre o con la vittoria di una classe sull’altra o con la comune rovina delle classi in lotta.

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