Alessandria tra Otto e Novecento

 Premessa

Questo articolo riunisce senza alcuna pretesa di esaustività citazioni da diversi saggi e articoli scritti tra il 1998 e il 2018 su aspetti specifici dell’Alessandria postunitaria e prefascista:  la cultura, la Cittadella e le mura, il primo centenario di Marengo, l’apogeo e il declino della classe dirigente liberale, lo sviluppo economico, la morfologia urbana, la Croce Verde, ecc. Un’Alessandria che non era solo Borsalino e prima amministrazione di sinistra in Italia, o soldati, caserme e ferrovieri. Quei due o tre decenni visti oggi appaiono una sorta di età dell’oro con un’Alessandria in crescita economica e demografica sostenuta, consapevole del ruolo di capitale provinciale e delle proprie potenzialità, sicura di non essere seconda a Novara, Cuneo e forse anche Torino.  Insomma un’Alessandria che mirava ad un primato non meramente alfabetico tra le “cento città d’Italia”.

Nei trenta-quarant’anni a cavallo tra XIX e XX secolo si realizza in Italia il processo che traghetta il paese del decennio spietato dell’industrializzazione e dell’emigrazione di massa, della crisi finanziaria e della stretta reazionaria umbertina a quell’età “aurea” di Giolitti che ricompone il quadro politico e sociale nazionale passando attraverso il suffragio universale maschile, il riconoscimento del ruolo delle opposizioni socialiste e dei sindacati ed il ritorno, dopo mezzo secolo d’assenza e dopo la Rerum novarum, dei cattolici alla politica attiva.

In questi anni muta profondamente anche il volto di Alessandria per effetto tanto di riforme che allargano ruolo e competenze dei poteri locali, quanto dell’impegno profuso dallo Stato della Sinistra storica prima e di Giolitti poi giolittiano nella modernizzazione della periferia e nella realizzazione delle infrastrutture. Sul piano locale è  senz’altro determinante la presenza d’una società cittadina motivata e dinamica in tutte le sue componenti sociali, politiche, economiche e culturali, determinata nel rinnovamento del volto urbano, nello smantellamento della città fortezza chiusa per costruire la nuova città novecentesca, aperta al mondo e alle esperienze nuove: la prima città italiana governata da un’amministrazione di sinistra nel ’99.

La cultura motrice di progresso politico e sociale: la Rivista di Storia Arte e Archeologia.

Il dibattito politico e culturale in Consiglio municipale e sulla stampa cittadina che aveva accompagnato la preparazione dello stand alessandrino all’esposizione nazionale del Risorgimento di Torino del 1884 aveva spinto Alessandria a dotarsi di istituzioni culturali degne del rango di quella grande provincia da cui aveva preso le mosse, fin dal 1821, il Risorgimento nazionale. Dopo l’Esposizione i reperti prelevati da tutta la Provincia dalla Commissione municipale di storia, arte e archeologia restarono in Alessandria come dotazione per l’istituendo museo civico: dalla Commissione intanto era nata la Società di Storia Arte e Archeologia (1885) immediatamente attiva non solo per rivitalizzare la Biblioteca civica, ma per avviare Museo e Pinacoteca civici e per dar vita nel 1892 ad un periodico che oggi, con 130 anni di storia alle spalle, è la più antica delle riviste storiche piemontesi ed una delle più longeve d’Italia. Animata da Francesco Gasparolo la “Rivista di Storia Arte e Archeologia” fin dalla prima uscita si pose come modello e scuola di storiografia scientifica, basata sulla ricerca delle fonti e sulla filologia documentaria. E dimostrò subito un carattere marcatamente provinciale: sulle sue pagine Acquese, Alessandrino, Astigiano, Casalese, Novese, Tortonese avevano pari diritti e pari dignità storica e araldica, non c’erano “campanili” più importanti di altri. L’identificazione di Alessandria con la dimensione della sua Provincia ripeteva in certa misura quanto stava accadendo a livello nazionale: era cioè indispensabile che i territori aggregati da un confine amministrativo recente e artificiale, anziché restare divisi da storie, culture, dialetti, campanili diversi, riuscissero a trovare proprio a partire dalla storia un minimo comune denominatore, un’identità solida e unica per prospettare un futuro di crescita. Il progetto di Gasparolo per la Rivista era di individuare una linea di continuità – da Aleramo a San Guido d’Acqui o San Marziano di Tortona o Sant’Evasio di Casale ad Alessandro III, a San Pio V, a Vittorio Amedeo II e ai Savoia suoi successori –, una linea di continuità, si diceva, e una comune identità culturale che potesse traghettare solidali e forti nell’incombente XX secolo Acqui, Alessandria, Asti, Casale, Novi, Tortona; una linea che riportasse alla luce le radici e i legami profondi che spingevano tutte queste componenti più verso l’oriente padano o il mezzogiorno ligure che non verso l’occidente pedemontano. Non è un’immagine retorica cogliere la perfetta identità di vedute tra il cosmopolitismo di Giuseppe Borsalino e dei suoi cappelli (e non ci sono al tempo, e non solo in Italia, altri esempi di industria globale: neppure Ford era sul mercato mondiale come lo era Borsalino) e la storiografia “scientifica” di don Gasparolo: ambedue esprimevano – come poco più avanti avrebbe fatto, a Casale, coi cementi Riccardo Gualino o, per l’innovazione agraria, la dinastia corso-monferrina degli Ottavi – l’aspirazione profonda a riprendere come nel Medio Evo le vie del mondo, a superare i soffocanti più che soltanto angusti confini fisici, amministrativi e culturali pedemontani e sabaudi. E rivelatrice di questo spirito è la presenza della Cassa di Risparmio di Alessandria tra i fondatori della Società di Storia. Da modesto istituto locale di solidarietà sociale per la tutela del risparmio dei ceti meno abbienti, la Cassa di Risparmio era divenuta a fine ‘800 una moderna struttura bancaria di deposito e credito atta a sostenere il processo evolutivo dell’economia provinciale: la sua presenza nella Società di Storia indicava la fiducia nel rapporto tra economia e conoscenza che avrebbe poi caratterizzato la storia della banca alessandrina nel ‘900.

L’espressione culturale più compiuta di questo clima e di queste aspirazioni cosmopolite culturale sarà il progetto predisposto dalla Società di Storia (con il sostegno economico del Comune) per il centenario della battaglia di Marengo. Un progetto importante, partito fin dal 1897 chiamando a raccolta i migliori storici europei, che tuttavia abortì per il brusco dietrofront del Comune passato nell’estate ’99 dai liberali alla sinistra. La cancellazione del centenario di Marengo fu un errore perché, pur se focalizzata sulla visione agiografica del primo impero e pur riflettendo la situazione politica italiana del momento in un’ottica conservatrice (evidente il parallelismo tra la vittoria di Buonaparte e le ambizioni imperialiste e militariste dell’Italia umbertina), la celebrazione avrebbe dato ad Alessandria e al suo territorio un’autorevolezza culturale di livello europeo e comunque non avrebbe potuto influire sull’inglorioso epilogo della svolta reazionaria di fine secolo: e il denaro risparmiato non risolse certo annosi problemi sociali. Per molti aspetti questa vicenda avviò il processo di sostituzione di Alessandro III con l’immaginario Gagliaudo o di Napoleone – noto devastatore del Duomo e delle chiese della città – con Maìno della Spinetta, brigante di strada: cioè la rimozione degli eroi eponimi che, non solo storiograficamente, è un’operazione non priva di conseguenze.

 La cultura come “fabbrica” della nuova Italia: la scuola

Uno degli obiettivi che tutti i Ministri della Pubblica Istruzione postunitari si sono posti è la lotta contro l’analfabetismo, l’handicap strutturale che rendeva il nostro paese molto meno competitivo della Francia e della Germania in quasi tutti i campi. Come quasi tutte le altre città su questo terreno Alessandria presenta un grande divario tra popolazione urbana (dove a fine secolo l’alfabetizzazione maschile non superava ancora il 40% della popolazione) e quella rurale con tassi di analfabetismo globali persino superiori al 90%. Fu questo il settore in cui lo Stato si impegna da un lato affiancando le iniziative municipali e poi assorbendole, dall’altro volgendosi alla formazione degli insegnanti elementari (in precedenza quasi sempre provenienti dal clero) tramite l’istituzione degli Istituti Magistrali. Alessandria, a partire da un vecchio educandato femminile municipale risalente addirittura agli anni ’20 dell’800, da vita nel 1888 all’Istituto “Diodata Roero Saluzzo” che deve servire tutta la provincia e la cui frequenza è stimolata dall’Amministrazione provinciale con borse di studio per gli studenti meno abbienti provenienti dal mondo rurale e dai paesi più isolati. Ma c’è anche il grosso problema della pressoché totale mancanza di scuole tecniche e scuole professionali che lo Stato, impegnato principalmente a costruire il sistema della scuola primaria, non è in grado di sostenere: ed è proprio in questo settore che il Comune, tra gli anni ’50 e ’70, promuove una scuola tecnica di secondo grado che col sostegno della Provincia si sarebbe sviluppata richiamando allievi da tutto il territorio e che dal 1882 diventerà l’Istituto “Leonardo da Vinci”.

Se le Magistrali sono la scuola in cui si formano i formatori dei nuovi italiani – obiettivo perseguito con il programma d’insegnamento unico a livello nazionale e coll’adozione obbligatoria del libro di testo – e all’Istituto tecnico spetta il compito di formare i quadri tecnici, al Liceo classico – il “Plana” nato nel 1859 da una plurisecolare scuola classica addirittura precedente il Collegio gesuitico – in quanto unica via d’accesso agli studi universitari, tocca il compito della formazione dei ceti dirigenti dell’Italia unita.

A fianco di queste strutture funziona a partire dagli anni ’80 una rete di istruzione  sostanzialmente privata (forse sarebbe meglio dire cooperativa), soprattutto serale e festiva che opera nei paesi per promuovere il progresso tecnico e colturale in agricoltura: qui docenti ed esperti itineranti tengono lezioni ai contadini non solo di tecniche agronomiche, ma anche di gestione economica dell’azienda agricola. Si tratta dei Comizi agrari attivi in genere a livello circondariale che gestiscono l’organizzazione delle lezioni e che sono animati dai due più importanti centri di ricerca, formazione, informazione e aggiornamento attivi in Provincia: cioè il gruppo (azienda agraria, laboratori, fattoria e casa editrice) Ottavi di Casale attivo fin dagli anni ’40 e divenuto leader nazionale del settore dopo l’Unità; e la più specializzata Regia Stazione Enologica di Asti fondata nel 1872.

La città delle industrie, e dei cantieri per il rinnovamento del volto urbano e del secondo scalo ferroviario

Nei tre lustri del ‘900 che precedono la guerra mondiale Alessandria si riempie di cantieri e di lavoro perché finalmente può spianare i terrapieni degli sforacchiati bastioni napoleonici – quantomeno su Porta Genova (l’attuale piazza Matteotti) e all’altezza della stazione e dei depositi ferroviari – per rimpiazzarli con viali alberati (gli attuali Spalti che ricalcano quasi perfettamente la cinta muraria quattrocentesca) oltre i quali disegnare spazi industriali e residenziali nuovi da urbanizzare per far così crescere prima i popolari rioni del Cristo e degli Orti e poi, con una grande operazione urbanistica e edilizia in cui era coinvolta la grande borghesia alessandrina, il rione residenziale della “prima“ Pista; e infine per chiudere il cerchio – già quasi in epoca fascista e oltre – con le “case dei ferrovieri” tra Pista e Cristo, al di là del cavalcavia ferroviario.

Altro effetto non marginale anche per la salubrità dell’ambiente urbano, è che con la caduta delle mura viene deviato e in parte interrato il canale Carlo Alberto noto ormai solo più per qualche vecchia foto della passerella che lo attraversava per unire via Cavour alla Pista; Porta Savona scomparirà per far posto ad un capannone parte in ghisa parte in legno, la “Ghiacciaia”, che avrebbe fabbricato pani di ghiaccio fin dopo la fine della seconda guerra mondiale mandando in pensione la vecchia “giasèra” in fondo all’attuale corso 100 Cannoni, nelle cui cantine si stivavano d’inverno neve e ghiaccio per utilizzarli in estate e dove, nei mesi caldi, si affittavano “box” per la conservazione dei generi alimentari deperibili. In Borgoglio sull’attuale corso virginia Marini, il sedime semi-abbandonato delle vecchie segherie Bonardi viene progressivamente ricuperato per usi abitativi. Su tutti però domina sempre la Borsalino che occupa una fetta importante del quartiere di Gamondio e che nel primo dopoguerra raddoppierà le sue dimensioni espandendosi “oltre canale” con centrali idrauliche e termiche per la produzione dell’acqua bollente necessaria in ogni fase della lavorazione del cappello, con magazzini, officine e taglieria del pelo, fino a diventare un “mostro” capace di oltre 4000 operai unito sopra il viale (poi intitolato a Teresio Borsalino) da una “passerella” che conteneva le condotte d’andata dell’acqua bollente, mentre quelle di ritorno alla centrale, a bassa temperatura, erano interrate sotto il viale. Oltre Bormida, quasi a Marengo e probabilmente co-finanziato dalla Casa reale, sorgerà il (per il tempo) grandissimo zuccherificio della Società Italo-Belga Zuccheri, forse ultimo documento di archeologia industriale sopravvissuto in Alessandria.

Grande impegno viene posto anche sul fronte del “decoro urbano” secondo le linee di indirizzo dettate dall’ing. Straneo (e in seguito proseguite sul piano privato con grande equilibrio dall’ing. Guerci) di cui fa certamente parte il disegno del quartiere della Pista (così denominato perché nell’area tra via Napoli e piazza d’Azeglio era stato costruito un velodromo in terra battuta) ma che trova la sua espressione più compiuta nel disegno di piazza Garibaldi, dei suoi portici e dei giardini pubblici che uniscono la piazza alla Stazione: un ingresso studiato per colpire il viaggiatore e che poche città italiane potevano vantare (e che poi verrà ripreso anche per piazza Genova). Ma anche l’ingresso stradale a occidente viene modificato con l’abbattimento – triste e stupidissima consuetudine alessandrina – di ciò che restava del plurisecolare ponte in pietra sul Tanaro (la copertura ad arcate era già stata eliminata per imperscrutabili necessità militari) per sostituirlo con uno nuovo forse più adatto alle esigenze della Cittadella declassata a magazzino.

Ma i lavori non riguardano solo edilizia residenziale e industriale: un quota rilevante è costituita dall’edilizia militare. Il Comune per risanare il centro cittadino riesce ad ottenere diverse caserme urbane e in cambio costruisce per l’esercito la moderna caserma Valfrè: in questo modo è garantita la presenza di qualche migliaio di soldati (utile presidio per l’ordine pubblico in caso di disordini) che sono soprattutto un investimento sul lungo periodo perché garantiscono un forte introito diretto nelle casse comunali tramite i dazi sui beni di consumo e sulle merci che arrivano nelle caserme e nei depositi e una non indifferente fonte di reddito per l’indotto, cioè quei piccoli e men piccoli esercizi  – dalle lavanderie ai bordelli e alle caffetterie, dagli ortolani ai lattonieri e ai muratori – che ruotano intorno alla macchina da guerra. Sempre nell’ambito dell’edilizia militare la riorganizzazione dei servizi e delle pertinenze dell’esercito in Alessandria comporta le ristrutturazioni dell’edifico degli uffici del Genio sul fondo di via Piacenza e, fuori città agli Orti, il demanio mantiene i terreni verso il ponte Tanaro dove cresceranno officine, falegnamerie e magazzini dell’artiglieria.

L’altro settore che con la caduta delle mura si espande enormemente è quello che, dopo Bologna, è il maggior snodo del sistema ferroviario settentrionale che andrà espandendosi fino agli anni ’70 del ‘900: un sistema che già a fine ‘800 garantisce un efficiente collegamento con i maggiori centri del triangolo industriale con cui stimola un interscambio viepiù rilevante. Parlando di interscambio non bisogna dimenticare che la Borsalino, attraverso la ferrovia cui era collegata da binari propri che attraversavano la città, è motrice di un via vai internazionale di merci intensissimo e vantaggioso per Alessandria da cui – sfruttando la tratta ferroviaria da Alessandria a Genova – il cappellificio raggiunge tutti i continenti tanto per distribuire il prodotto finito, quanto per approvvigionarsi della materia prima. Un aspetto poco noto ma non meno importante dello snodo e dello scalo ferroviario di Alessandria nei quarant’anni a cavallo del 1900 è la sua funzione strategica che ne fa il perno (trasferimento di uomini e materiali) delle difese alpine contro una eventuale aggressione francese (dopo lo “schiaffo di Tunisi” e fino al 1914 l’Italia è alleata con Austria e Germania e vede nemici solo ad occidente).

Tornando alle funzioni civili ed economiche della ferrovia, già a fine ‘800 oltre alle linee nazionali, Alessandria e l’Alessandrino sono serviti da una capillare rete di vie ferrate locali – come le Astesi-Monferrine – e di omnibus su rotaia a trazione animale o a vapore che collegano tutti i centri zona al loro hinterland e con la capitale provinciale. Questa rete locale di trasporti è quella che garantisce non solo l’approvvigionamento del mercato cittadino con le produzioni del territorio, ma anche l’arrivo dai paesi della mano d’opera per l’edilizia, la ferrovia, l’industria e l’esercito.

La conseguenza diretta della crescita economica in parte insieme all’industria del cappello in parte come suo indotto – cioè la meccanica fine, la calzoleria, i mobilifici e la falegnameria, l’agroalimentare, l’argenteria, la chimica, e gli innumerevoli piccoli laboratori artigiani – ha determinato un significativo e sensibile allargamento del panorama urbano che dal Cristo ormai va agli Orti senza soluzione di continuità; con lo scalo, i depositi e le officine delle Ferrovie si estende dal Tanaro fino a Casalbagliano; e con lo zuccherificio e la chimica arriva a Spinetta.

La struttura dell’economia cittadina è tuttavia assai particolare rispetto alle altre realtà circostanti e del triangolo industriale perché pur presentando un notevole tessuto imprenditoriale, resta comunque decisamente condizionata dalle “rimesse dal centro”: cioè una fetta rilevante e prossima se non superiore al 50% del reddito cittadino proviene dallo Stato, attraverso le Ferrovie e in forme diverse (impieghi civili, commesse, dazi, ecc.) attraverso l’Esercito dai quali, inoltre, dipende come indotto buona parte del terziario. Una struttura che se fornirà un ottimo “ombrello” dopo la crisi del ’29, sul lungo periodo creerà invece più problemi che vantaggi.

 Il riordino del sistema assistenziale, sanitario e ospedaliero alessandrino.

[NdA – questo paragrafo è liberamente tratto dall’articolo di Paola Lanzavecchia, La storia dell’assistenza a Alessandria tra ‘800 e ‘900, nel volume curato dallo scrivente Un secolo di solidarietà. Per i 100 anni della Croce Verde di Alessandria, 2011]

Se le trasformazioni esterne e urbanistiche sono immediatamente percepibili e apprezzabili, il processo interno alle strutture assistenziali è meno visibile ma non per questo meno importante. All’inizio del XX sec. le condizioni igienico-sanitarie del Comune sono molto carenti all’interno della cinta urbana e fuori, nel contado e nei Corpi Santi la situazione è ancor peggiore: le più comuni malattie infettive sono difterite, tifo, colera, tubercolosi diffuse attraverso le acque che gli alessandrini, privi di acquedotto e fognature, prelevano per gli usi domestici dal canale Carlo Alberto o da pozzi scavati nei cortili fra fosse perdenti e canali di scolo. Ma non si tratta soltanto di igiene pubblica, di assistenza ospedaliera e di personale medico: ci sono anche illegittimi ed abbandonati (gli esposti), infermi cronici e mentali, inabili e portatori di handicap, marginali come anziani o dementi non aggressivi. E’ un fronte quantitativamente rilevante se si pensa che l’Ospedale SS. Antonio e Biagio accoglie 1300 infermi nel 1913, il San Giacomo 446 nel 1896 e gli esposti in carico alla Provincia sono circa 1300 nel 1910. La situazione urbana è aggravata dalla presenza della “città militare” che pur disponendo di infermerie e d’un ospedale (per la sola routine le prime, per la leva e occasionalmente come cronicario il secondo mentre l’ospedale della Cittadella non sarà mai attivato), tende a gravare sulla pubblica assistenza: unica eccezione è l’istituzione da parte dell’Esercito nel 1896 di un Dispensario celtico – di cui i militari sono comunque i principali utenti – dislocato nell’Ospedale civile.

La riorganizzazione del settore, partita dal 1890 dal Ministero dell’Interno attribuisce alle Province e ai Comuni tutta una serie di competenze territoriali sull’esercizio delle professioni sanitarie. Di fatto, sotto il controllo dei Prefetti si sviluppa in una importante azione di rinnovamento strutturale che, nel caso di Alessandria, risulta essere fra le punte più avanzate in Italia, legato com’è alla grande scuola medica positivista di Torino. Nel 1908 si allargano e migliorano le strutture dell’Ospedale Civile ove Teresio Borsalino finanzierà la creazione del reparto per tubercolosi (fra i quali venivano “mimetizzati” gli operai del cappellificio affetti da malattie polmonari professionali): più o meno negli stessi anni un’altra Borsalino, Rosa, finanzierà l’allargamento dell’ospedale infantile fondato da Cesare Arrigo nel 1890 (e che nel linguaggio e nell’immaginario alessandrino manterrà comunque la vecchia denominazione di Uspitalèt / Ospedaletto). Meno facile – anche perché sostanzialmente affidata soltanto alle risorse delle Province – è la modernizzazione dell’Ospedale dei Pazzerelli considerata in genere come struttura prevalentemente di detenzione e non sentita come urgenza né sul piano sociale, né su quello politico: un’azione tuttavia ostinatamente portata avanti da un allievo di Lombroso, Luigi Frigerio, che riesce ad introdurre nel manicomio l’idea di cura per la follia, che forma il personale in grado di seguire i degenti non con reclusione o camice di forza ma con la ludoterapia, la musica, il teatro e una colonia agricola. Insomma un moderno ospedale psichiatrico che dal 1913 inizierà a dimettere ricoverati realmente ricuperati alla società.

Imponente è in questi decenni (ma lo sarà ancora fino al primo dopoguerra) il fenomeno dell’abbandono dei neonati affidati ad istituti di carità generalmente legati alle gerarchie ecclesiastiche e sostenuti da donazioni di privati: istituti in cui il più spesso preghiera, dottrina morale, digiuno e punizione corporale erano gli unici strumenti di educazione adottati. Il contrasto a questa vera e propria piaga – che fra le concause contava anche la fortissima presenza di militari nel tessuto sociale urbano – inizia negli anni ‘80 con un’azione congiunta di Provincia e Comuni regolamentando le modalità di accettazione dei neonati. Se dapprima viene abolita la “ruota” dei conventi di clausura cui per tradizione i neonati erano affidati, successivamente si passa a regolamentare e limitare le modalità di accoglimento degli esposti da parte dei parroci ed infine si procederà colle prime tutele non solo sanitarie per le madri nubili e indigenti. Per ultimo ci saranno i controlli soprattutto sanitari sui beneficiari del “baliatico” (il sussidio che la Provincia dava per un certo numero d’anni alle famiglie che si accollavano un bambino abbandonato) che contribuiranno a ridurre l’alto tasso di morbilità e mortalità degli adottati e a migliorare le condizioni di vita delle famiglie ospitanti per le quali – ad esempio nelle campagne della Fraschetta – il baliatico era l’unica o la più importante entrata del nucleo famigliare. Anima di questo importante lavoro è il medico socialista Luigi Fadda, sardo d’origine ma alessandrino d’adozione che riuscirà a ridurre il fenomeno in misura decisamente consistente: dagli oltre 3000 esposti all’anno del 1884 si scenderà infatti a poco più di mille alla vigilia della Grande guerra.

Un’iniziativa del tutto inedita nel panorama alessandrino è nel 1911 la fondazione della Croce Verde, cioè un’associazione volontaria finalizzata ad interventi accelerati di soccorso e di trasporto in particolare nei casi di infortuni sul lavoro. Patrocinata dal notabilato della città – il sindaco liberale Franzini insieme ai suoi predecessori e oppositori socialisti Sacco e Pistoia, con diversi medici dell’Ospedale civile che metterà a disposizione la sede, il Partito socialista che procurerà soprattutto i militi mentre la comunità israelitica e le Logge massoniche faranno convergere associazioni e donazioni –, patrocinata dalla città, si diceva, la Croce Verde alessandrina nasce dal rifiuto di un gruppo di medici, di volontari e di dirigenti della Croce Rossa di accettare la militarizzazione dell’Ente e il suo passaggio sotto l’alto patrocinio della Real Casa. La collaborazione tra liberali, socialisti e massoni e l’appoggio dell’Ospedale farà crescere rapidamente la Croce Verde fino agli anni ’20: il fascismo la cancellerà inglobandone il patrimonio nella sezione alessandrina della Croce Rossa, ma rinascerà nel 1947 col sostegno delle stesse forze che l’avevano fondata nell’11.

  Igiene e profilassi zootecnica e allevamento

  L’azione della provincia nel settore della salute si esplica anche – in parallelo e non di rado congiuntamente con le cattedre ambulanti di agricoltura, i comizi agrari e le scuole agrarie attive sul territorio – attraverso la creazione delle condotte veterinarie col compito primario di prevenzione e di cura contro le epizoozie che avevano falcidiato il bestiame per tutto l’800; altra importante iniziativa delle province è l’istituzione delle stazioni di monta taurina ed equina utili non solo per garantire un controllo ottimale delle condizioni del bestiame ma anche per migliorare la selezione delle razze a seconda dell’utilizzazione. E’ grazie anche a questi istituti che la Provincia di Alessandria diventa nel primo ‘900 non solo il primo produttore nazionale di grano e uva e ai vertici della produzione di foraggi e bachi da seta, ma anche il primo mercato di bestiame dell’Italia settentrionale. Certamente la quantità di capi bovini ed equini è cresciuta rispetto al passato ma questo primato si deve anche al fatto che su Alessandria (anche per la facilità di smistamento attraverso il nodo ferroviario) e sui suoi mercati gravitano per gli approvvigionamenti gran parte delle strutture militari tra Cuneo, Alessandria, Pinerolo e la Val Susa cui non servono solo generi alimentari per la truppa ma anche avena e foraggio per gli cavalli, asini e muli: e Esercito e Ferrovie favoriscono anche la crescita del mercato alessandrino dei combustibili.

L’accenno alla bachicoltura – un lavoro “complementare” rispetto ai lavori dei campi, svolto soprattutto da vecchi e bambini e poi da donne e bambini nella fase della trattura della seta  e tuttavia voce molto importante dell’economia agraria alessandrina – merita una breve digressione perché a questo settore è legata in particolar modo alla figura di Pietro Savio, rampollo d’una famiglia di mobilieri alessandrini, che fu il primo a visitare il Giappone “proibito” pubblicando nel 1870 un pregevole manuale per i “cacciatori di semenza bachi” che ogni anno andavano a Yokohama a ricercare la preziosa “semenza”. Verso la metà degli anni ’80, quando decise di abbandonare questo commercio molto redditizio ma anche molto rischioso continuò comunque a viaggiare in Estremo Oriente dedicandosi al più sicuro commercio delle “cineserie” (genere commerciale che comprendeva tutti i prodotti orientali, dal piatto ai tappeti, alle zanne d’avorio, ecc.) per sfruttare la moda che dalla Francia s’era allargata a tutta l’Europa. Se non primo fu certamente fra i primi e fra i più importanti mercanti di cineserie italiani e come fornitore della Real Casa, pare che abbia persino procurato una tigre bengalese richiesta da Umberto I.

Il quadro politico del nuovo secolo: la crescita del movimento operaio, l’Idea nuova e Paolo Sacco Sindaco di Alessandria

La provincia di Alessandria che prima e dopo l’Unità aveva esercitato un’influenza importante nel Parlamento italiano – con i Presidenti del Consiglio Rattazzi e Lanza (ma anche coll’altro casalese, Mellana, e col salese Sineo) – in neppure un decennio, dal 1873 al 1882, vede rapidamente sparire i suoi grandi “padrini”: della vecchia guardia non resta che l’anziano acquese Saracco, erede della sinistra depretisiana e crispina e dei suoi pregiudizi antisocialisti e anticattolici, ultimo Primo Ministro alessandrino, chiamato a riportare l’Italia nella legalità parlamentare dopo il regicidio: concluso il compito,  Saracco dovrà lasciare il campo ad una nuova sinistra liberale aperta agli stimoli dei ceti emergenti e disposta al confronto con tutte le forze politiche organizzate e rappresentative: a Giolitti, cioè.

Come nel resto d’Italia, anche nell’Alessandrino nell’ultimo decennio  dell‘800 si sono registrate tensioni anche sensibili, ma se la crisi del prezzo del pane – che a Milano è il pretesto per le cannonate di Bava Beccaris – in una zona agricola non presenta i risvolti drammatici delle grandi metropoli industriali, occorre anche dire che qui la repressione aveva seguito percorsi meno rigidi che altrove (si pensi ad es. all’assoluzione dei dirigenti del disciolto partito socialista alessandrino nel ’94). Comunque segnali del cambiamento in atto si manifestano un po’ dovunque: persino l’aristocratica Casale viene turbata – come fosse un’Alessandria qualunque –  da scioperi, da cortei operai, dallo scandaloso sventolio di bandiere rosse mentre sulle colline del Monferrato – cosa ancor più scandalosa – sono addirittura i cattolici a contendere ai socialisti il ruolo di agitatori del mondo contadino. Ad Alessandria si registra – determinata dalla presenza di forti nuclei di cappellai, falegnami, ferrovieri e tessili – una vigorosa crescita del movimento operaio che nel’92 confluisce nel Partito Socialista Italiano. Un percorso avviato negli anni ‘80 con l’avvicinamento degli ultimi epigoni del mazzinianesimo repubblicano coi socialisti alla De Amicis come Ambrogio Belloni che battono la provincia per sviluppare la coscienza di classe nei lavoratori delle città e delle campagne; di poco più tarde saranno le esperienze americane sulle rotte degli emigrati, del valenzano Giusto Calvi; e infine nel ’97, appena un anno dopo l’ “Avanti”, nasce il settimanale socialista alessandrino “Idea nuova”, la cui vicenda verrà chiusa d’imperio dal fascismo. Il dibattito politico è animato da una stampa d’ogni tendenza politica, perlopiù effimera ma estremamente variegata, prolifica e vivace – oggetto di frequenti sequestri da parte della polizia – che appoggiava o combatteva le scelte municipali. Le contestazioni da sinistra colpivano soprattutto la politica del decoro urbano che, dietro la splendida facciata dei giardini della Stazione, di piazza Garibaldi  e di piazza Genova (ora Matteotti) ignorava diversi problemi urbanistici reali: il problema del  risanamento dei quartieri più poveri, della mancanza di fognature e di un acquedotto municipale, della soffocante cinta muraria e delle servitù militari, nonché l’attitudine a favorire specialmente proprietà del centro urbano e speculazione edilizia (le stesse cioè che promuoveranno l’espansione nella prima Pista). Intorno al 1910 Teresio Borsalino fornirà alla città il primo esempio di edilizia popolare (fortunatamente rimasto unico) sui terreni già militari antistanti lo stabilimento: il pregevole fronte novecentesco su corso 100 Cannoni accoglie impiegati, dirigenti e il medico della fabbrica: i cortili interni – che dal corso conducevano per passaggi tortuosi in via Tripoli cioè il passaggio dei “sette cortili” – erano in realtà stalle e magazzini non scantinati e rabberciati in qualche modo per accogliere una quarantina di famiglie operaie. Per avere le prime serie proposte di edilizia popolare occorrerà attendere l’urbanizzazione delle aree extra moenia gestita dalle amministrazioni socialiste dal 1906 al 1922.

 Benché l’azione amministrativa non si fosse limitata ad operazioni di mero lifting urbano è indubbio che la città per avere acquedotto e fognatura (cioè per uscire dal rischio colera e tifo) dovrà attendere ancora finchè quelle infrastrutture saranno indispensabili non per i cittadini ma per la più grande industria alessandrina, la Borsalino. E’ in questo quadro che ad Alessandria prima che nel resto d’Italia (e nonostante la presenza di Saracco ancora a lungo “dominus” della Provincia) si registra il segnale più forte e netto del cambiamento dei tempi e delle coordinate della lotta politica: nell’estate del ’99 una coalizione di radicali, democratici e socialisti guidati da Paolo Sacco (l’uomo che aveva condotto il movimento operaio cittadino dal POI al PSI) si impone alle elezioni municipali. Un’esperienza che con brevi interruzioni rappresenta l’inizio di una nuova storia non solo per la terra “mandrogna”.

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