Barbano senza visione

La prima impressione che si ha dopo la lettura del recente libro di Alessandro Barbano, La visione (Mondadori, pp.112), è che il titolo sia sicuramente ‘esagerato’ rispetto alle poche promesse che il lavoro riesce effettivamente a mantenere. Certamente, come tanti altri libri dello stesso genere, è possibile trovare qualcosa di utile, ma non ci consegna per nulla una “visione”, vale a dire un mutamento radicale di paradigmi per il futuro. E’ difficile anche considerarlo una adeguata <<proposta politica per cambiare l’Italia>>, come azzarda il sottotitolo. A voler essere espliciti fino in fondo, non mancano nemmeno disarmanti ovvietà, come quella, per esempio, secondo la quale il riformismo è <<l’idea che per cambiare un sistema non è necessario fare la rivoluzione>>; o affermazioni lapalissiane, come quella, per esempio, che tra riformismo e marxismo vi sia <<un’incompatibilità organica>>. Barbano ha ragione quando invoca più politica, quando segnala il bisogno di <<una grande politica>>; quando sostiene che in Italia c’è ormai una marcata omologazione politica, l’assenza di qualsiasi differenza nelle scelte concrete fra centrodestra e centrosinistra, la mancanza di opzioni ideali forti capaci di contrastare l’eclisse drammatica della politica. Una prova recente di tutto questo la vede nella gestione del Coronavirus ,da parte del governo in carica, considerata una vera “Caporetto”. Ritiene che, specialmente nella lunga fase del lockdown, <<la politica ha consegnato la gestione della crisi agli esperti, che sono venuti via via assumendo, senza filtro, decisioni politiche>>. Ma anche qui, pur essendoci un solido nucleo di verità, vi è una certa esagerazione perché, per quanto profondo sia stato il coinvolgimento degli esperti, si deve dire che mai si è giunti ad un governo “epistocratico” della cosa pubblica. In ogni caso, sottovaluta molto il fatto che nelle fasi più acute di una crisi sanitaria nazionale diventa un obbligo di chi governa tenere in gran conto le indicazioni di quelli che hanno “una conoscenza certa e fondata”. Non farlo è sempre indice di irresponsabilità e causa di drammatiche conseguenze, proprio come l’esperienza ha dimostrato, per esempio, col comportamento del Brasile di Bolsonaro e dell’America di Trump. Anche in questo libro, come nel precedente (Troppi diritti. L’Italia tradita dalla libertà) Barbano non nasconde la sua fobia ideologica per i diritti e per la maggiore uguaglianza conquistati nel nostro Paese. Ritiene che si tratti di una vera e propria “malattia” –la malattia del “dirittismo”, la definisce- che gli italiani hanno “contratto” senza merito, <<svincolati dalle responsabilità>>, e non a seguito di un impegno collettivo. Partendo da questa convinzione, fa poi suoi non pochi dei luoghi comuni che una certa cultura ha veicolato nell’ultimo trentennio: che siamo vissuti tutti al di sopra delle nostre possibilità; che una generazione di padri <<ha preso più di quanto poteva prendere e si è mangiata il futuro di chi viene dopo>>, per cui alla nuova generazione <<tocca portare sulle spalle il fardello consegnato dai padri e lavorare di più>>; che è lo statalismo e non l’ordoliberismo che ha omologato centrodestra e centrosinistra; che tra destra e sinistra non c’è alcuna differenza proprio perché entrambe hanno dato alla scelta keynesiana di sostegno della domanda una torsione vistosamente assistenzialistica; che i molti privilegi – di cui goderemmo un po’ tutti- hanno fatto della nostra una <<società signorile di massa>>. Si tratta , appunto, di luoghi comuni basati su evidenti errori analitici, su vere e proprie bugie spacciate per verità storiche da sempre confutate dai dati oggettivi. Basterebbe infatti, al riguardo , ridare un’occhiata , tra i tanti, al ben documentato libro di Vladimiro Giacchè,La fabbrica del falso, che già un decennio fa mostrava la verità dei fatti. Appunto a proposito dei presunti privilegi acquisiti dai lavoratori, Giacchè scrive che mentre trent’anni prima era l’85 per cento della popolazione attiva ad avere un lavoro stabile, nel 2010 un impiego sicuro e protetto toccava ad appena il 25 per cento. Che le retribuzioni del lavoro non superavano spesso la soglia di povertà. Che, sempre nel 2010, esisteva una povertà strutturale che nasceva non dal mondo dei derelitti ma proprio dal lavoro. Che la precarietà era il sentimento più diffuso nel mondo del lavoro in quanto ogni lavoratore poteva essere “acquistato” senza alcuna tutela, con decine e decine di modalità contrattuali. C’è da aggiungere che anche nell’ultimo decennio le cose non sono per niente migliorate. Né tantomeno sono migliorate nei nostri giorni. C’è un allarme recente della Caritas per l’aumento continuo dei nuovi poveri, non pochi dei quali sono proprio lavoratori attivi. Qualcuno ha scritto che è aumentata l’insicurezza , che non c’è più una assunzione stabile e che <<nessuno si identifica più con un posto di lavoro, un mestiere>>. Vi è nei ragionamenti di Barbano un retroterra teorico e culturale che lo porta a considerare riformismo convincente – e non un populismo appena mascherato- anche quello di Matteo Renzi: con i suoi tentativi (riusciti) di riduzione dei diritti sociali; di gerarchizzazione dei rapporti nella scuola; di indebolimento dei corpi intermedi nell’architettura istituzionale. Barbano può prendere questi abbagli perché il riformismo che ci propone non è di questo mondo: è una costruzione astratta, un lavoro di cesello che vuole mettere insieme tutto e il contrario di tutto: liberalismo, popolarismo, socialismo, D’Alema con Renzi e Renzi con D’Alema e Berlusconi. Un pasticcio, insomma. Non privo di competenza, e qua e là di buon senso, appare invece l’insieme delle proposte di riforma della giustizia. Tuttavia ,anche qui, l’autore inclina più ad una astratta modellistica che alla formulazione di soluzioni adatte ad un organismo storico concreto. Ha sicuramente ragione nel censurare severamente l’imprescrittibilità, tenacemente voluta dai 5Stelle. Essa è senz’altro indice di inciviltà giuridica. Ma molte proposte non tengono conto della realtà del nostro Paese e delle sue molte fragilità: di un Paese in cui quattro-cinque regioni sono condizionate dalla criminalità organizzata e che sempre più estende le sue diramazioni sull’intero territorio nazionale; che ha conosciuto un terrorismo capace di mettere a repentaglio l’assetto democratico; che ha avuto al governo un partito secessionista e un presidente del Consiglio dei ministri monopolista di fondamentali mezzi di informazione; che ha un tasso medio di illegalità diffusa molto alto; che ha nell’unicità delle funzioni tra pubblico ministero e giudice il simbolo del lungo travaglio storico per la conquista della indipendenza del pubblico ministero dal potere esecutivo. Ci troviamo, dunque, di fronte ad un libro del tutto privo di una “visione” plausibile e di proposte politiche concretamente utili per il Paese.

Egidio Zacheo

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