Bernardo Bertolucci: mezzo secolo e venti film di una magnificenza continua

I piccoli aeroplani di carta che tu

fai volano nel crepuscolo, si perdono

come farfalle notturne nell’aria

che s’oscura, non torneranno più.

 

Così i nostri giorni, ma un abisso

meno dolce li accoglie

di questa valle silente di foglie

morte e d’acqua autunnali

 

dove posano le loro stanche ali

i tuoi fragili alianti.

   Attilio Bertolucci, Per B… (da Lettera da casa, 1951)

Dev’essere proprio vero che nonostante tutto –modello Netflix e desertificazione delle sale in testa- il cinema sia immortale. Il giorno stesso dello sfilare mesto di esponenti di un passato tanto grandioso quanto invecchiato melanconicamente nella non affollatissima camera ardente per Bernardo Bertolucci alla Protomoteca, ecco l’affacciarsi clamoroso e per più versi stupefacente, nella prima serata di RaiUno, dei due ultramagistrali primi episodi de L’amica geniale che Saverio Costanzo ha tratto da par suo dal primo dei quattro volumi della Ferrante (e a marzo riprenderà a girare…). “Con nitore formale, come solo Rossellini sapeva fare, caricando di pensieri imperscrutabili, metafisici, le figure neorealiste che entravano nel suo obiettivo” come ha scritto, centrando il bersaglio al solito in due righe, Aldo Grasso sul “Corriere”. Ma su quest’Amica bisognerà, con calma, tornare e ri-tornare; resta la sommessa speranza che, almeno i due episodi in questione e anticipati in sala, Le bambole e I soldi, Bernardo abbia potuto, nella sua insaziabile fame generosa di cinema innovativo, vederli.

Ma è altrettanto incontestabilmente vero, purtroppo, che il livello medio della nostra stampa quotidiana, carta e rete, stia diventando davvero di una banalità infima, e non per le ragioni demenzialmente pretestuose e strumentali inventate dal folleggiare irresponsabile dei pentastellini. “L’ultimo maestro”, “l’ultimo imperatore del nostro cinema”: questi i massimi sforzi che i titolisti tutti hanno saputo distillare per la sua scomparsa. Il secondo titolo è un trito luogo comune che non significa nulla: il primo è quanto meno irriverente, se non altro, nei confronti del suo conterraneo e quasi coetaneo Marco Bellocchio, tuttora tra noi e anzi incontenibilmente al lavoro. Il suo nuovo Il traditore, sulla figura di Tommaso Buscetta, è imminente. Anche perché si potrebbe obiettare che, da un lato, il nostro cinema stia irreversibilmente scomparendo, quanto meno ove lo si intendenda come (passata) articolazione di un circuito organizzato di sale a copertura dell’intero territorio nazionale; dall’altro che di “maestri” il cinema italiano potrebbe vantarne altri, oltre ai sacrosantamente riconosciutissimi Sorrentino e Garrone (qualche nome? Paolo Benvenuti, Tonino De Bernardi, Michelangelo Frammartino, ad esempio: ma il grande pubblico non ha avuto opportunità o voglia di riconoscerli…). Ma certo se n’è andato, e aveva purtroppo già da anni dovuto lasciare l’attività realmente produttiva (col pensiero forse sempre rivolto all’impossibilità di dare vita al grande progetto di film su Gesualdo da Venosa) quello che fino all’altro giorno era unanimemente considerato, con il suo omologo/conterraneo Bellocchio, il maggior cineasta italiano vivente.

Un collega parmigiano di tantissimi anni fa, che era stato suo compagno di giochi d’infanzia al Parco Ducale, mi raccontava in proposito (audita refero: non ne porto responsabilità, ma trovo amabile a prescindere l’aneddoto) che quando giocavano al salto della corda, come allora usava –sembra quasi la sequenza anticipata di un suo futuro film- partecipava con entusiasmo. Ma per quelle cose stupide e incoscienti che a quell’età si fanno facilmente, forse perché lo sentivano proveniente da un mondo così “diverso” dal loro e che li escludeva, con tacito accordo, quando era il suo turno a saltare, intenzionalmente si ‘dimenticavano’ di far ruotare la corda, mantenendola invece tesa. Lui finiva inevitabilmente quanto invariabilmente a terra, ma senza che questo lo scoraggiasse: ci riprovava deciso come se niente fosse. Se non è vera è ben trovata, perché inquadra non male l’indole, insieme tanto dolce quanto assai decisa, del futuro autore.

La partenza di Bernardo è clamorosa ma non felice. Ha solo da pochi mesi (nato sotto il segno creativo dei Pesci…) superata la maggiore età di allora, quando gli viene assegnato il Viareggio Opera Prima per la raccolta poetica –davvero niente male, riletta oggi senza pregiudizi!- In cerca del mistero, che Longanesi gli ha appena pubblicata in quello stesso 1962. Le chiacchiere, anche di stampa, si sprecano: Bernardo è il primogenito di uno dei maggiori poeti italiani, assai attivo anche sul fronte editoriale e direttore della rivista aziendale dell’ENI. E’ la stessa estate delle ancora più roventi polemiche che la stampa di destra solleva sulla vittoria di un’altra opera prima, L’età del malessere della debuttante narratrice Dacia Maraini, al Premio internazionale Formentor, accusando esplicitamente Moravia, allora suo compagno di vita e membro della giuria, di averla vistosamente “trainata”. E sono ancora gli anni in cui Pasolini, tra il successo pieno ed estremamente discusso del debutto sullo schermo, Accattone, e quello meno convinto del successivo Mamma Roma (gli unici due film, con l’immediatamente successivo mediometraggio-capolavoro La ricotta, ancora memori del mondo narrativo di Ragazzi di vita e Una vita violenta) è quotidianamente nell’occhio del ciclone di processi assurdi e inventati, persino con l’accusa di aver rapinato un benzinaio. Questo il clima creato dalla stampa conservatrice attorno all’allora presunta… élite romana.

Di Attilio e Ninetta Bertolucci, coi figli Bernardo e Giuseppe, romani dal 1953, Pasolini sarebbe poi addirittura diventato vicino di casa, nello stesso condominio, al n. 45 della via di Monteverde dedicata al colonnello Giacinto Carini, lo stretto collaboratore di Garibaldi.  Lo scrittore, che di riprese cinematografiche non sapeva -per sua fortuna?- assolutamente nulla, sceglierà il giovane figlio dell’amico-mentore come aiuto per il suo debutto, considerando che aveva invece già portato a termine due corti a passo ridotto, La teleferica (da cui la stupenda poesia paterna di pari titolo in Viaggio d’inverno, 1971) e La morte del maiale (che Jefferson Kline, nella sua monografia in chiave psicanalitica sull’autore, associa più all’uccisione della prostituta della Commare secca che al richiamo alla grande della situazione nel primo “atto” di Novecento…).

Così, l’aiuto Bertolucci jr scriverà pagine meravigliose sull’apprendistato filmico del neoregista, che sui set del Pigneto riscrive da analfabeta geniale l’abc del cinema sotto lo sguardo allibito del romanissimo quanto scafato, sebbene suo coetaneo, direttore della fotografia Tonino Delli Colli, ricavando dall’impossibile il capolavoro di Accattone. E il compenso pasoliniano sarà generoso: un soggetto, alla cui sceneggiatura lo stesso poeta lavora col destinatario e Sergio Citti, per l’esordio registico dell’aspirante collega nel versificare e nel filmare. La commare secca (il titolo, allusivo alla morte, viene dall’ultimo verso del sonetto belliano Er tisico:  e ggià la Commaraccia secca / de Strada-Ggiulia arza er rampino…). Così, alla mostra veneziana del ’62, memorabile anche per altri titoli (Tarkovskij, Zurlini, Kubrick, Polanski, Godard: tutti in un colpo!) e mancate presenze (Welles, Losey…), si presentano insieme il maestro e l’allievo: farà discutere anche il primo, nonostante o anche in ragione della presenza della Magnani nel suo Mamma Roma, ma ad essere trattato con indebita e supponente sufficienza sarà il secondo (memorabile la stroncatura del neo-titolare Grazzini sul “Corriere”).

Ma Bertolucci non se ne dà per inteso e gli basta un biennio per rovesciare il tavolo capovolgendo le carte: Prima della rivoluzione, lo stendhaliano film ambientato nella sua Parma, e che s’impernia sul formidabile personaggio della zia Gina, incarnato da Adriana Asti allora sua compagna di vita, affiancata dall’amico critico Morando Morandini nei panni indimenticabili del maestro progressista, e dalla bellissima Cristina Pariset, il viso della cui Clelia viene giustamente assimilato nel film all’opera ritrattistica del Parmigianino, soggiogherà la maggior parte della critica, piacendo persino alla piccola parte smagata del pubblico dell’epoca.

Dopo il suggestivo documentario La via del petrolio, coprodotto da RAI ed ENI e che passa in tv (1967) Bertolucci si riconosce pienamente negli umori del ’68, che fanno dei coevi Partner (dal Sosia di Dostoevskij) e Agonia, l’episodio di Amore e rabbia ispirato alla parabola del fico in Luca, e interpretato in blocco dal Living Theatre forse le sue due prove più aureamente datate: con affetto per il disperato e disperante protagonista del primo, icona emblematica di quegli anni romani, grande attore maledetto e regista sperimentale egli stesso (Visa de censure n. X) il padre Attilio comporrà la dolente Clementi in carcere (poi raccolta in Verso le sorgenti del Cinghio, 1993).

L’arresto per droga di Clementi e la sua condanna interverranno solo nel 1971, quando Bertolucci figlio avrà già ingranato un’altra marcia: tra il ’70 e il ’72 la trilogia di fatto Il conformista – Strategia del ragno – Ultimo tango a Parigi lo impone persino troppo al mondo. E persino troppo davvero, dell’ultimo, si è scritto anche a sproposito, sebbene pure a sommesso parere di chi scrive questo momento sia stato forse il più alto e risolto nella sua filmografia (e dovendo optare, mi porterei proprio Il conformista da Moravia piuttosto che la Strategia dal Tema del traditore e dell’eroe di Borges come suo film emblematico-rivelatore).

Con tutte le persecuzioni e i dispiaceri, Ultimo tango avrà comunque il merito di consentire all’autore forse l’operazione più incredibile e spericolata dell’intera storia del cinema almeno occidentale: raccontare coi dollari della Fox una sorta di autobiografia sentimentale del socialismo e del comunismo italiani, perché Novecento è anche e forse soprattutto questo.

Premesso che non vedo l’ora di congedare questo ricordo per rimettere nel lettore proprio i due dvd del film, magniloquente e diseguale, ma che contiene tra le pagine più alte mai scritte sullo schermo, da quel momento la carriera di Bernardo si biforca in due rami solo all’apparenza opposti. Da un lato le megaproduzioni internazionali (1987-93) che lo porteranno al trionfo degli Oscar col discusso ma a mio avviso magistrale e personalissimo L’ultimo imperatore, seguito dall’altrettanto grande per quanto scabro Il tè nel deserto e dal conseguente, ma più “esteriore” e impersonale Piccolo Buddha. Dall’altro un filone di film volutamente “minori”, quasi da camera, a pochi personaggi, che con diverse aperture, tonalità ed accenti lo porteranno dal suggestivo e intrigante La luna (1979) alla Tragedia di un uomo ridicolo (1981) sottovalutato secondo l’amico Mereghetti, dal più anodino e manierato Io ballo da sola (1996) al claustrofobico ma azzeccatissimo L’assedio (1998), dal nostalgico ma un po’ troppo abbellito The Dreamers (2003) all’estremo Io e te (2012) dal suggestionante romanzo di Ammaniti: prova vittoriosa in ogni caso rispetto alla sua volontà di infrangere i condizionamenti nel frattempo impostigli dalla malattia e dalla sempre più forzata immobilità.

Ma tutto questo, detto così, è corrivo e opinabile. Ciascuno di noi, come accade con tutti i grandi autori, avrà tempo e modo, volendolo, di ricostruirsi il proprio Bertolucci scegliendone e combinandone i titoli a seconda del suo deposito mnemonico, delle suggestioni individuali e degli eventuali vuoti da colmare. Le reti generaliste del digitale terrestre, la sera della scomparsa, a botta calda hanno appunto tenuto botta proponendo quanto il magazzino loro consentiva sul momento (l’Uomo ridicolo RaiDue, il Piccolo Buddha la7). Il mercato homevideo ne offre in pratica l’opera omnia (un po’ inferiore l’attenzione rivolta a quella del fratello Giuseppe, che solo in età gli era minore). Ma senza spendere un euro né uscire di casa, mi permetto di consigliare il rintraccio, ad esempio, su RaiPlay di Strategia del ragno e di Bertolucci secondo il cinema, il documentario realizzato da Gianni Amelio durante le riprese di Novecento (autore dell’altro, ABCinema, ne fu proprio il fratello Giuseppe), oltre che di infiniti spezzoni di incontri e interviste. Segnalabili in particolare le dichiarazioni contenute nel pur convenzionale documentario di Giancarlo Soldi Cinque mondi, in cui lui, Benigni, Salvatores, Sorrentino e Tornatore (gli altrettanti “nostri Oscar” ancora raggiungibili al momento della realizzazione) raccontano la propria formazione di spettatori: in particolare laddove richiama il proprio gusto-amore per le contaminazioni. Ma è un piacevole riepilogo il montaggio di RaiStoria Bernardo Bertolucci. Il suo Novecento, che comincia dal Viareggio Opera Prima del ’62 e si conclude col Leone alla carriera del 2007. Anche Youtube, tra troppi infiniti materiali d’attualità accumulatisi in poche ore sulla scomparsa, offre comunque integralmente l’episodio ’68 col Living, La luna e L’ultimo imperatore: ma a ricercare con pazienza c’è certamente sotto sotto dell’altro…

Alla fine, un po’ per narcisismo un po’ soprattutto per nostalgia, non ce la faccio a non rammentare i purtroppo assai rari momenti del Maestro visto dal vivo. Una discussione accesa sull’opportunità di presentare alla tv ancora in bianco e nero (ma che l’aveva prodotto…) i colori smaglianti alla Ligabue di Strategia del ragno, nello stesso dibattito in cui il grande Enzo Ungari, suo futuro monografista e collaboratore, ebbe il coraggio di definirgli in faccia il precedente Partner “un geniale errore” (CUC Genova, fine 1970); il letterale rischio della pelle nella ressa travolgente per entrare in sala grande a vedere Novecento (Mostra di Venezia del ’76); la sua partecipazione, con Giordana presente e Reitz annunciato ma assente, alla tavola rotonda sul tema della narrazione filmica seriale (Cinema Ritrovato di Bologna, luglio 2006: Cineteca organizzatrice presieduta dal fratello Giuseppe; lui già con le stampelle post chirurgia alla schiena, ma ancora autonomo nel movimento) e la successiva presentazione serale ancora di Novecento in una strabocchevole Piazza Maggiore. La consegna, da parte sua, del Leone d’Oro alla carriera a Marco Bellocchio (di nuovo Venezia, ma 2011). E infine l’indimenticabile giornata parmigiana della laurea honoris causa decretatagli dall’Ateneo della sua città e attribuitagli molto solennemente al Regio (16 dicembre 2014).

La realtà conclusiva, per quanto riguarda la generazione di cui faccio parte, quella cioè affacciatasi nell’immediato secondo dopoguerra, è che Bertolucci, come Bellocchio, è stato vissuto –e la sua opera è tuttora così ripercorsa e ripercorribile…- come una cosa nostra, inseparabile dalle vicende collettive e personali di coloro i quali oggi viaggiano, a un dipresso, dai 65 agli 80.

Quando abbiamo cominciato a interessarci di cinema capendone un minimo da semplici spettatori, la generazione mitica dei grandi (non solo i De Sica, Rossellini e Visconti, che avevano visto la luce poco dopo il secolo, ma anche gli Antonioni e i Fellini, che erano un po’ più giovani e avevano fatto in tempo a collaborare con qualcuno dei primi) era ancora clamorosamente sulla breccia, ma insieme già collocata nella storia del mezzo. Siamo stati in tempo per cogliere gli esordi e gli sviluppi della successiva ondata, quella che Bruno Torri avrebbe incasellato nella felice formula del passaggio “dalla realtà alle metafore”. Ma i suoi esponenti di punta o sono scomparsi troppo presto (Ferreri, lo stesso Pasolini) pur avendoci sommersi di capi d’opera, o non sono, pur con altissimi meriti, riusciti a mantenere sempre il livello cui ci avevano abituati (i fratelli Taviani: ma il cinema è pieno di grandi maestri di una stagione, dallo stesso Godard, in fojdo, a Jancsò ad Anghelopoulos).

Con Bertolucci è andata diversamente: l’abbiamo ritrovato a fianco anche nei momenti più intrinsecamente dissimili della sua intensissima e sterminata carriera: l’identica cosa che sta, per fortuna, tuttora succedendo con Marco Bellocchio.

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