Il capitalista che vuole il socialismo

E’ certo che la congiuntura storica che stiamo attraversando non ci risparmia momenti davvero paradossali. Succede infatti che, da un lato, un intellettuale di sinistra di vecchia data come Aldo Schiavone, ex ingraiano, ex presidente della “Fondazione Gramsci”,già dirigente nazionale del Pci, scrive un libro (Sinistra!, Einaudi 2023) per sostenere e dimostrare che il socialismo è ormai inservibile, una parola addirittura da evitare, una prospettiva fallimentare che non ha niente da dire alla modernità, un “movimento” che deve arrendersi alla vittoria straripante del capitalismo. Dall’altro, poi, che un “capitano d’industria”, un potente imprenditore, un plurimiliardario, un capitalista d’alto rango come l’ingegnere Carlo De Benedetti scrive anch’egli un libro, “Radicalità. Il cambiamento che serve all’Italia” (Solferino, Milano 2023, pagine 144), per dire che il capitalismo non funziona, che “ha tradito le sue promesse”, e che per cercare di risolvere i problemi dell’umanità creati proprio dal capitalismo (insopportabili disuguaglianze, disastro ambientale) serve invece il rilancio del socialismo, di un socialismo non all’acqua di rose ma radicale. E’ inutile nascondere che a un radicalismo del genere sostenuto da un ‘potente’ capitalista non può non fare specie e nello stesso tempo non far riflettere sul fatto che queste scorribande corsare di chi più di altri, per il potere economico e mediatico avuto, non è estraneo alla crisi che il nostro Paese sta vivendo e che siano anche la conseguenza della lunga assenza di una bussola politica e culturale della sinistra.

Il libro di De Benedetti si apre con una ecumenica riflessione di ‘filosofia della storia’ sulla inevitabilità di una prossima guerra tra Usa e Cina. Assente risulta un qualsiasi sforzo per cercare di individuare un qualche possibile rimedio per scongiurarla e si affida ad un teleologismo per il quale “quando una potenza dominante vede emergere uno sfidante, la contrapposizione prima o poi sfocia in aperto conflitto. E’successo con Atene e Sparta, succederà con Stati Uniti e Cina”. L’autore subito dopo ritorna però con i piedi per terra e offre un quadro impietoso del Paese. Secondo lui l’Italia “si trova in una stagnazione che preclude alla decadenza” per responsabilità precipua della politica. E qui, tranne che per lui, ne ha per tutti, in particolare per la sinistra e il Pd ritenuto “una compagine che dopo decenni di politica conservatrice è difficile considerare ancora come progressista”. Scommettere su una sua possibilità di ripresa diventa un azzardo perché lo considera un partito “irriformabile, dilaniato e avvitato nei propri psicodrammi interni anziché proiettato nella soluzione di problemi reali”.

E’evidente però che De Benedetti gioca con carte un po’ truccate perché mentre evidenzia tutte le responsabilità della politica e dei partiti (di sinistra) sulla crisi e sulla decadenza del paese non fa poi riferimento alcuno alle specifiche responsabilità avute anche dalla ‘categoria’ dei capitalisti nostrani, degli imprenditori e dei plurimiliardari domestici dei quali egli a tutti gli effetti fa parte. Già amministratore delegato della Olivetti e della Fiat, fondatore del gruppo C.I.R. (Compagnie Industriali Riunite) una holding di non trascurabile peso, presidente del gruppo editoriale “L’Espresso”, padrone del quotidiano “Domani” ecc. ecc., dall’alto di questo suo osservatorio privilegiato, del suo frenetico attivismo ‘capitalistico’ possibile che non si sia accorto delle responsabilità della ‘categoria’ ed egli stesso sia rimasto del tutto ‘illibato’?

Dunque, una qualche responsabilità diretta non può non averla avuta. E infatti: aiutato da Prodi, ha smantellato il nostro sistema di economia mista privatizzando quasi tutta l’industria di Stato (soprattutto quella legata all’innovazione e all’informatica -settori in cui eccelleva proprio la Olivetti e che in questo modo condannò alla marginalità) senza riuscire poi a mettere in piedi un modello di sviluppo alternativo di sistema in grado di reggere nella competizione globale. Solo quando per così dire “esce dall’Italia” vi è nel libro l’accusa esplicita alla crudeltà e disumanità del capitalismo. Con accenti che ricordano quelli usati dalla radicale americana Nancy Fraser nel libro “Capitalismo cannibale” (probabilmente conosciuto da De Benedetti), ne denuncia i danni causati, con la complicità di una politica imbelle, all’ambiente, all’equilibrio ecologico del pianeta, e anche le insopportabili disuguaglianze sociali, facendo parlare alcuni dati agghiaccianti. Scrive: “Le disuguaglianze aumentano esponenzialmente nel mondo, aggravate dalle crisi politiche, economiche e, non da ultimo, sanitarie. Tra il 2020 e il 2022, i dieci uomini più ricchi del pianeta hanno più che raddoppiato il loro patrimonio, che ora ammonta a sei volte quello del 40% più povero (3,1 miliardi di persone)”. Per quanto riguarda poi il nostro Paese, esso ha livelli di disuguaglianza sociale di gran lunga più alti della media europea: “2 milioni di famiglie -5,6 milioni di individui- vivono in povertà assoluta ed è a rischio di scivolarci il 25% dei cittadini: un italiano su quattro” e il lavoro non è né “stabile né dignitoso, se consideriamo che l’11,8% dei lavoratori si classifica come working poor”.

C’è in De Benedetti una effettiva attenzione alla questione del lavoro e la condanna netta della sua svalorizzazione. Ridare valore al lavoro, dichiara, è “una priorità”. Ma anche su questo tema l’attribuzione delle colpe è a senso unico perché dimentica del tutto proprio le sue. Secondo lui, il massimo responsabile della svalutazione del lavoro e della stagnazione produttiva sarebbe il sindacato. Questo, infatti, non solo “non si è adeguato alle nuove forme contrattuali, lasciando senza tutele intere categorie di lavoratori perlopiù giovani, a tempo indeterminato, a chiamata, a progetto e altro”. Ma non dice che proprio lui è stato parte attiva nell’assecondare la rivincita del nostrano “capitalismo della precarietà”. Al riguardo, qualcuno, proprio di recente, ha ricordato una sua dichiarazione alla stampa (“il Sole 24 ore” dell’11 gennaio 2018) con la quale conferma di essere del tutto d’accordo con le misure anti-lavoro di Renzi:“A Renzi -ammette- io dicevo che lui doveva toccare, per primo, il problema del lavoro e il Jobs Act – qui lo dico senza vanto, anche perché non mi date una medaglia- gliel’ho suggerito io”.

Convince e va condivisa, invece, la sua considerazione finale che comunque l’Europa e l’Italia ce la possono fare e possono essere protagonisti globali in virtù del loro straordinario e unico patrimonio storico-artistico, culturale, ambientale. Troviamo infatti ben detto che noi europei “siamo ricchi, simo vecchi, siamo belli. Dalla Valle della Loira alla Valle dei Templi e dalla Valle del Reno alla Valle di Jerte, dai fiordi allo stretto di Messina, l’Europa è stupenda. Questa bellezza, che significa anche stili di vita e valori, possiamo coltivarla, valorizzarla e anche esportarla”.

Egidio Zacheo

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