Il recente libro di Giorgio Caravale, “Senza intellettuali. Politica e cultura in Italia negli ultimi trent’anni” ( Laterza, pagg. 160), pur proponendosi dichiaratamente di esaminare il rapporto tra cultura e politica nel nostro Paese relativamente ad un arco temporale recente e limitato, non riesce a non far ripensare all’impresa molto simile già tentata nei primi anni cinquanta del secolo scorso dal grande maestro di diritto, di filosofia e di storia Norberto Bobbio col suo “Politica e cultura” (Einaudi 1955). Ci pare questo un elemento che induce a ritenere che il tema affrontato da Caravale assai difficilmente può essere confinato in un periodo ristretto e che, invece, si tratta di qualcosa di permanente, di radicato, di strutturale nella storia vicina e lontana dell’Italia.
Pur riguardando due fasi storiche completamente diverse, entrambe infatti subiscono l’impasto e le conseguenze di elementi storici comuni: di una storia fatta di rotture, di traumi, di lacerazioni a causa del nostro tardo ingresso nella modernità politica, della tarda costruzione della nostra unità territoriale e dello Stato nazionale moderno e laico. Senza la possibilità di riconoscersi protagoniste dell’impresa comune di una necessaria unificazione nazionale con valori comuni, comuni orizzonti e una comunanza di destini storici, politica e cultura hanno da sempre percorso strade diverse e separate. Così, mentre altrove (Francia, Spagna, Inghilterra) entrambe lavoravano di concerto e per tempo per rendere unito(riuscendoci) il loro Paese, da noi invece la politica “uscì dal proscenio europeo involgarendosi nelle competizioni particolaristiche” e la cultura “si salvò solo allontanandosi dalla politica e vivendo in un vuoto politico nazionale” (U. Cerroni). Per secoli, come ha scritto lo storico francese E. Jordan, “generazioni di italiani non hanno inteso l’unità se non come il trionfo universale del proprio partito sotto un protettore scelto da loro”.
Solo nel secondo dopoguerra politica e cultura hanno in qualche modo cercato di mettere tra parentesi questi ‘vizi’ storici e di lavorare di concerto per un Paese che con la Liberazione aveva sconfitto la dittatura fascista, l’elitarismo dello Stato liberale, e che era stato capace di darsi una Costituzione repubblicana e una democrazia moderna, di contribuire alla costruzione di una Europa unita. Si è trattato di traguardi grandiosi che, pur nella persistente difficoltà del rapporto fra politici e intellettuali, hanno consentito a Bobbio di poter parlare, nel libro citato, del dovere politico degli intellettuali e del dovere culturale dei politici.
Questa parentesi virtuosa non è però durata a lungo: si è chiusa con la Seconda Repubblica, con la crisi dei partiti politici e dei corpi intermedi e con il declino dello Stato-nazione, facendoci ripiombare senza protezione alcuna nei ritardi di sempre, vale a dire nella rozzezza della politica e nell’astrattezza e opportunismo degli intellettuali. Ha ragione Caravale quando sostiene che abbiamo “una politica che, alternativamente, disprezza gli intellettuali e consegna loro le chiavi del proprio futuro; un ceto intellettuale che disdegna la politica ma non ha problemi a usarla e persino a guidarla, se solo balena la possibilità di avere un tornaconto personale, o quel surrogato del denaro e del potere che è la visibilità” (p.125). Non c’è corrispondenza piena però con la realtà quando pensa che “questo doppio movimento schizofrenico”, questo cortocircuito tra intellettuali e classe dirigente politica ha segnato la storia italiana degli ultimi trent’anni perché in realtà si tratta della storia d’Italia tout court.
Preciso è il libro nella descrizione dei fenomeni degenerativi di alcune fondamentali istituzioni culturali. L’autore è impietoso nella denuncia della pratica lottizzatrice per l’affidamento delle cattedre universitarie, ma con pudore la confina entro un limitato arco temporale e un particolare settore disciplinare pur sapendo -immaginiamo- come tutti che invece essa è ed è stata purtroppo una consuetudine nella storia dell’istituzione. Insomma, come ha detto efficacemente qualcuno, la nostra università di rado ha tenuto presente che mentre “occhialai come Spinoza possono fare i professori universitari, non tutti i professori universitari possono fare gli occhialai”.
Caravale non ha remore nel mettere in evidenza anche alterazioni nei comportamenti di molti intellettuali, derivanti anch’esse dalla nostra radicata separazione fra cultura e vita, prime fra tutte un certo snobismo ‘estetizzante’ e un opportunismo anticomunitario. Significativo, al riguardo, è l’esempio della professoressa Michela Marzano, docente in una università di Parigi, editorialista de “la Repubblica”, parlamentare del Pd ma del tutto “irrispettosa delle più elementari regole della politica” (p.118), che per una astratta coerenza intellettuale era pronta a determinare il fallimento di una legge di civiltà (p.119). Si tratta di un episodio emblematico dell’immaturità politica e civile, dell’impoliticità, dell’indifferenza di molti intellettuali al destino della comunità e della sostanziale estetizzazione di una professione di grande rilevanza pubblica.
Negli ultimi decenni un’aggravante in questo rapporto malato fra politica e cultura è forse costituito da quello che efficacemente Caravale chiama “L’intellettuale ad personam”: vale a dire dalla pratica dei politici, molto più diffusa che nel passato, di organizzarsi think tank personali “in grado di capitalizzarne il successo elettorale”(p. 31), da un uso personale della cultura e dal ruolo servile degli intellettuali. L’elenco che egli ci fornisce delle fondazioni di cultura dopo il crollo della Prima Repubblica , benchè incompleto, colpisce per la sua lunghezza. Naturalmente, non è possibile pensare che si tratti di una inaspettata valorizzazione della cultura da parte dei politici né di una ritrovata vocazione civile degli intellettuali. Più prosaicamente, come scrive l’autore, queste fondazioni sono state utilizzate: dai politici, “per rafforzare il personale consenso mediatico e favorire la selezione di un gruppo di donne e di uomini destinati a supportare le loro ambizioni di carriera”; da molti intellettuali, per sviluppare il loro impegno nell’ottica tradizionale “della fedeltà al ‘principe’ piuttosto che a una idea o a un insieme di valori culturali e politici”(p.33).
Si può dire che questo libro di Caravale bene si inserisce in quel filone di riflessioni, di cui si sente sempre una grande necessità, tese a meglio definire i caratteri della nostra identità politica e civile e a dare ad essa una più salda profondità storica.
Egidio ZACHEO
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