Carla Stroppa e la psicologia analitica delle donne alla ricerca di un “amore impossibile”

Ho più volte discusso le riflessioni di Carla Stroppa, che sempre legano le idee psicologico-analitiche al vissuto concreto delle persone[1]. Proprio su tale base mi sento di affermare che l’ultimo suo libro, L’amore impossibile e le donne. Slanci, cadute e trasformazioni del desiderio[2], rappresenti un apporto particolarmente rilevante nel suo percorso. Mi pare il suo libro più espressivo di una vision, ma anche il più “clinico” in senso psicoanalitico, ossia il più strettamente legato alla pratica di psicoanalista junghiana operante a Bergamo, ma con forti legami con Torino e Milano. L’autrice fa parte dell’Associazione Ricerche di Psicologia Analitica e dell’International Association of Analytical Psychology. È pure stata docente della scuola di specializzazione in Psicologia della salute dell’Università di Torino.

Il filo rosso di quest’ultimo suo lavoro (ultimo prima del prossimo), è la tematizzazione dei casi di ricerca di un amore totalmente coinvolgente, segnato da un immaginario fusionale. Che cosa comporta tale genere di relazione? Quali delusioni suscita più o meno sempre? Quali drammi sottende e scatena, e come possono essere o non essere superati a livello di pratica psicologico-analitica? E che cosa ci dicono tali cose in termini di visione delle profondità della psiche?

Intanto l’amore detto “impossibile”, cioè vissuto come un che di assoluto, per il suo stesso sogno ad occhi aperti di gioia ininterrotta, che per lo più o non arriva o non dura (non può durare), risulta impregnato di quella che i romantici, tra la fine del XVIII e i primi decenni del XIX secolo chiamavano sehnsucht: ’”anelito”, o “struggente nostalgia” di una vita infinita, o di un’infinitizzazione della vita, o di una vita piena di senso (nella gioia e spesso nel dolore, spesso in tal genere di esperienza profondamente connessi).[3] Ogni tensione ad una vita veramente piena, sensata, tale che in essa ci possiamo specchiare non in astratto, ma nella percezione viva e piena, gira attorno a tale istanza d’infinitizzazione della nostra sempre contingente esperienza (in tal caso di “eros”, fisico come spirituale); un’istanza d’eros “infinito” per gli junghiani presente in noi come istanza a priori (archetipica, cioè già latente alle radici dell’inconscio, in cui ci sarebbe sempre un bisogno di tal genere, in attesa di venire svelato).

Tale istanza di una vita infinita, anche al di là dell’amore, non è affatto solo “intellettuale”, o “da intellettuali”, ma concerne l’ànthropos. Ogni stato estatico sottende quest’apertura all’infinito. Pirandello la descrisse in un “caruso” analfabeta di quelli che ancora un secolo fa, o poco più, vivevano seminudi e abbrutiti nei cunicoli delle miniere di zolfo della Sicilia, nella novella: Ciaula scopre la luna.[4] Il “caruso” in una certa notte provava una sorta di estasi di fronte al cielo stellato. L’amata (o amato) si sente talora così con la persona che ama, anche se l’istanza è assai spesso precaria a livello relazionale, risolvibile, con – o al di là – della persona amata, tramite una sorta di “supplemento d’anima” – come lo direbbe Hillman – che va al di là della mera relazione interpersonale per attingere alla propria interiorità più profonda[5].

Naturalmente ciascuno di noi è coinvolto in questo bisogno antropologico di una vita infinita, e tanto più di un amore illimitato, a prescindere non solo da cultura o soldi, ma dal sesso. Ma secondo la Stroppa questa problematica, che cerca l’infinità nell’esperienza d’amore, e segnatamente in una vita sentimentale realizzata, è più “scoperta” nelle donne: forse perché per tanti secoli sono state discriminate e misconosciute (e quindi sono state e sono più portate, per spontanea compensazione, a sognare la liberazione totale); ma a suo parere anche perché l’eros, che vuole percepire l’infinità nella stessa vita sentimentale interpersonale, è più manifesto nelle donne (o meglio in molte donne), mentre le relazioni di potere e anche il raziocinio astratto, a livello di coscienza, sono più presenti tra i maschi.

Naturalmente si tratta di distinzioni oggi da prendere – e pure da lei più volte prese – cum grano salis perché nel nostro tempo il discorso di Jung sull’uomo che è più Logos a livello cosciente, e più Eros (Anima, femminile) nell’inconscio, e della donna che per contro sarebbe Eros a livello di coscienza e Logos nell’inconscio (Animus, maschile)[6], generalmente non è accettato neppure tra gli junghiani, né tento meno tra le junghiane, che oggi parlano di Anima come archetipo dell’inconscio personalizzato sia per l’uomo che per la donna: un’Anima, archetipica, in certo modo androgina, sia maschile che femminile, e perciò spiritualmente bisessuale.

Tuttavia, sembra dirci la Stroppa, una certa sensibilità “Eros”, almeno solitamente, si manifesta in modo più evidente nella donna, portata in modo più scoperto a non separare sfera emozionale e sfera pratico-calcolante. Sottolinearlo può pure avere una certa allure femminista, che certo all’autrice non dispiace. A ragione.

La prima forma di amore “impossibile” è naturalmente l’amore di sé distorto, come in Narciso, il cui vero amore è l’immagine di sé riflessa nello stagno, sino ad affogarvi dentro per abbracciarla (come nel mito raccontato dall’antico Ovidio)[7]. Ma pure quell’infantilismo, totalmente autocentrato, cela non solo l’amor di sé distorto, ma un sogno fusionale con un nostro sé più profondo, che ove superasse l’infantilismo andrebbe al di là del narcisismo: un narcisismo che in fondo è confusione, come avrebbe detto Rousseau, tra il sano amor di sé, che in sé stesso cerca l’universalmente umano (e “quindi” l’infinito nel finito), e il distorto amor di sé, o ”amor proprio”[8], il quale ultimo si perde appunto in un amore per la propria immagine, che si potrebbe dire onanistico. Spesso la grande letteratura ci racconta il cammino dal falso egocentrismo narcisistico all’umanizzazione (p. 166), o magari ci racconta tale cammino mancato di umanizzazione. In specie nell’amore.

Mi sembra che la Stroppa colga due modalità di “amore impossibile”, ossia di sogno di un amore infinito in vita: una concerne la storia di ciascuno legata all’infanzia ed anche alla prima fanciullezza; ed una ha a che fare con la costellazione archetipica di ciascuno, che concerne tutte le nostre disposizioni ancestrali comprese tra l’Ombra e il Sé, ossia tra le disposizioni psichiche più “animali”, istintuali, amorali, e quelle per contro più spirituali, da “homo sapiens” (animale, ma non solo tale, o quantomeno animale aperto al Logos) .

In fondo l’amore impossibile legato ad una mancata o cattiva relazione empatico-unitiva tra i genitori e tra uno o due genitori e i figli, è quanto nella Stroppa resta del retroterra pure classicamente freudiano della psicoanalisi: un freudismo che nel considerare il male di vivere “attuale” che chiamiamo psiconevrosi partiva sempre dal criterio dello chercher l’enfant. Qui però il focus non è, in modo prevalente, il non voler o poter superare “l’Edipo” – ossia l’amore-odio per papà, e l’amore assoluto “fusionale” per la mamma proprio del bambino piccolo fattosi adolescente o adulto o magari vecchio senza riuscirci (come sarebbe proprio dello psiconevrotico secondo Freud); è, piuttosto, il non aver conosciuto lo stato fusionale positivo, o meglio unitivo, con e tra i genitori (quando ce n’era infantilmente bisogno o in seguito), molto spesso per relazioni sballate tra i genitori stessi, che finivano, e sempre finiscono, per proiettare i fallimenti dell’unione tra loro sui bambini (così “non amati”, o “non abbastanza amati”, o “malamente amati”). Nella visione freudiana prevaleva un’istanza di normalizzazione, per cui la persona disadattata detta nevrotica avrebbe dovuto essere aiutata a superare un infantilismo che l’avrebbe bloccata, tenendola sempre invischiata nei drammi dell’amore genitoriale fallito o insuperato: sicché laddove c’era l’inconscio potessi esservi l’Io[9]. Per contro nella visione junghiana – e della Stroppa, e mia – la ricerca “infantile” dello stato fusionale, o quantomeno empaticamente unitivo, è considerata naturale, antropologica; ma tale ricerca va spostata non solo al di là della coppia genitoriale di partenza, ma pure oltre la relazione empatica tra singole persone l’un l’altra empaticamente unite, che si amino o si vogliano “un bene dell’anima”.

Infatti le persone che hanno, o cercano, o sognano un rapporto erotico “assoluto”, spezzano l’isolamento reciproco, che a un certo punto emerge pure nell’amore, e quindi possono superare lo scacco, più o meno perenne, dell’amore fusionale “a due” solo cercando l’infinito amore non tanto in un altro o altra quanto nella propria interiorità più profonda: tramite l’immersione nel Sé, o almeno tramite “il bagno” nel Sé, che è pure l’imago dei – quel che per ciascuno sia almeno un che di divino; un sintomo o simbolo d’esso, di tipo interiore. L’archetipo del Sé – primus inter pares tra gli archetipi, minimo comun denominatore infinitizzante di ogni psiche – attesta – e, quel che più conta – “fa vivere” – il senso di un infinito a priori in noi, che ci consente di rinascere a noi stessi: non già per guarire, ma per essere noi stessi, nella misura in cui si possa, si sappia o si voglia “esserlo” (insomma, ci fa crescere e ci migliora nel profondo).

Tutto ciò, detto da me in modo un poco dottrinario, è calato nell’assolutamente concreto da Carla Stroppa, che ritrova tale “succo”, o tali “succhi di spirito”, nei casi delle persone – probabilmente soprattutto donne – andate in analisi da lei.

A mio parere, anche se non credo che l’autrice ce lo dirà mai, tra i “casi” esemplari raccontati con dovizia di particolari e in modo vivo, e interpretati con riferimenti alla vita onirica e concreta, c’è pure quello della stessa Stroppa. La mia sarà un’illazione, ma in più punti ho avuto l’impressione che parlando del caso più intrigante, quello di “Bianca”, parlasse parecchio pure di sé stessa. Ma la mia impressione forte potrebbe anche essere effetto della dinamica “transferale” dell’autrice, cioè del suo “transfert positivo” nei confronti di questa “paziente”.

Con questo sono a un punto chiave dell’impostazione: il transfert tra persone, che proiettano la personalità profonda, in specie l’affettività, sull’altro. Anche e soprattutto in analisi. Questo è un punto chiave della psicoanalisi perché naturalmente il contatto intimo tra l’anima del cosiddetto paziente e quella dello psicoterapeuta genera varie forme di proiezione, d’ogni segno o intensità; e non plagiare il nevrotico, ma neppure estraniarsi da lui, è fondamentale. E infatti la Stroppa nota: “Diamo per scontato che l’analista conosca le regole del gioco transferale e la natura delle proiezioni. In effetti, il metodo si basa essenzialmente sulla gestione del transfert e controtransfert nel rapporto tra coscienza e inconscio (p. 141).”

Anche lì si nota una differenza tra freudismo e junghismo, Nel freudismo un certo distacco è programmato, nel senso che il “paziente” sta in un lettino e lo psicanalista alle sue spalle, attento e partecipe, ma senza farsi coinvolgere, e soprattutto senza darlo a vedere al “paziente”. Nello junghismo la relazione tra psicologo dell’anima e “paziente” diventa invece relazione tra due persone “faccia a faccia”, che debbono volersi bene “con giudizio”, trattenendo l’empatia o antipatia nei limiti di un dialogo serrato, ma di “eros-logos”, affettivo e razionale insieme (anche se a parlare a ruota libera è, e ha da essere, più che altro il paziente): un rapporto “transferale” che comunque coinvolge radicalmente anche lo psicoterapeuta. E infatti la Stroppa cita con favore La ricerca simbolica di E. C. Whitmont[10], laddove ricordava che “L’idea di un terapeuta non direttamente coinvolto, che studia il suo paziente come un caso clinico o un animale da laboratorio era qualcosa che Jung considerava impossibile e, qualora fosse possibile, indesiderabile. Riteneva che un incontro diretto e personale fosse assolutamente inevitabile ed essenziale (p. 153).”

Nella visione di Freud – forse persino nella versione di Lacan, che “mentalizzava” anche tutto quello che in Freud era stato o era parso biologico, o psico-biologico – c’è un fondo biologizzante insopprimibile. C’è, per il freudismo, una natura umana con dinamismi in tutti reiterati, da inverare nel modo in cui si sono manifestati nei singoli. In essi c’è qualcosa che talora si blocca all’infanzia (nel psiconevrotico), per lo più legato alla sfera della sessualità molto frustrata nella “normale” evoluzione (rimasta, nella personalità disturbata, troppo intrafamiliare rispetto alla famiglia d’origine, cioè troppo legata al triangolo padre-madre-figlio, e affini); si tratta di riattivare lo sviluppo di quel bambino in cui sempre incombono le gonne della mamma e i pantaloni del papà, inducendolo a uscire finalmente da un’infanzia in lui mai finita: in modo che il singolo possa mantenersi al lavoro e farsi una famiglia.[11] Naturalmente semplifico il tutto, ma non di molto. Lì, nel freudismo, perciò non c’è niente nell’esperienza che prima non sia stato nella sensibilità, come diceva il vecchio empirismo. Per tale ragione un certo male di vivere è sempre nel conto, anche nei “sani”; e l’ideale è (o sarebbe) il riadattamento alla realtà. Ma riadattamento a cosa, dato il bel mondo che ci ritroviamo, e che già cent’anni fa non profumava di violette?

Nella visione freudiana lo stato fusionale, ad esempio quell’amore infinito che tutti cercano, per cui da due gli amanti o quelli che molto si amano diventano uno, pure nella necessaria differenziazione tra loro (uno-due), è in fondo una forma di infantilismo. La stessa religione sarebbe infantilismo, che sposta in vuoti cieli il desiderio di essere tutt’uno con la mamma del bambino piccolo, e sotto la protezione, e minaccia di un padre assolutizzato (ecco “l’Edipo”). Solo per non chiudere al grande Romain Rolland, Freud ammetteva come caso limite il “sentimento oceanico”, in cui l’Io è come coinvolto nell’infinito, ma subito minimizzandone il senso.[12]

Invece nella visione junghiana la fusionalità tra i due, amante-amato (o amata), o comunque “l’unificazione” tra loro, ma pure l’autorealizzazione che compone nell’interiorità il loro essere “opposti” che si attraggono, è possibile. Ma per essere possibile bisogna che l’interiorità, il “paese dell’anima”, non sia una “tabula rasa”, bensì il luogo di pulsioni a priori diverse, tra cui la più forte – oltre a sesso e potere – è proprio quella d’infinitizzazione pura e semplice, o pulsione religiosa, propria di un punto alfa-omega, in noi, che calamita l’Io (e pure l’Es animale) verso di sé (o Sé), cioè verso un quid che in sostanza è, per quanto difficile da trovare, la forza sintetizzatrice interiore: un che di “mana”, o sacro, o anche magico, che c’è da sempre in noi quale punto alfa-omega della psiche (quale sia la natura ultima di questa realtà psicoide).

Questo si vedrebbe bene nella vera preistoria della psicoterapia analitica, junghiana: l’alchimia riletta in chiave psicologica, in Jung specialmente in Psicologia del transfert[13], testo qui ampiamente citato e chiarito. Il Re e la Regina, come opposti – in noi – della vasca alchemica, debbono fondersi tramite il “mercurio” dei filosofi o pietra filosofale nell’Uno, e dell’Uno (pp. 124-125 e seguenti), che è poi il Sé (“aurum philosophorum”, da piombo che era prima della coniunctio oppositorum in noi). Ma vale pure in analisi, su un piano simbolico. L’analista è una specie di psicopompo, guida dell’anima negli abissi, che porta al dio “immanente”: all’Iside-Osiride interiore; o è un maieuta, levatrice dell’anima del singolo, nel senso del Socrate platonico del Teeteto[14], se intendo bene. Il tema è quello della sintesi degli opposti interiore, che si chiama autorealizzazione del Sé nell’Io e dell’Io nel Sé, a misura di ciascuno o ciascuna idealmente rinascenti.

Per stabilire un tale essere nell’essere, amore vissuto – sempre problematico, ma in certo modo intimamente svelato – un punto chiave, che la Stroppa giustamente enfatizza molto, è la non-separazione, ma unione, tra sentimento e pensiero. In quel tener sempre insieme queste due dimensioni si coglie la chiave di volta. Su ciò è molto efficace: “Non sarà mai denunciata abbastanza la violenza occulta di uno sguardo giudicante, ostile, uno sguardo che separa scindendo la mente dal cuore; non saranno mai prese abbastanza le distanze dalla parola che pretende di essere conclusiva, di essere l’ultima, mettendo un punto a capo dove sarebbe opportuno mettere virgole, due punti, puntini e puntini e soprattutto punti di domanda, per edificare un al dialogo, un invito a riprendere il discorso proprio lì dove la parola si arresta dubbiosa di sé (p. 101).”

Tutta l’impostazione è strettamente legata sia alla dimensione letteraria che mistico-religiosa in senso quantomeno esperienziale. Infatti l’espressione narrativa, e poetica, di ogni forma di “amore impossibile”, talora anche con aperture all’”oltre”, nella grande letteratura spesso è assolutamente convincente; e se n’era già accorto, in psicoanalisi, non solo Jung, ma Freud. E infatti la Stroppa nota che “Sterminata è la lista di autori, ivi compresi Freud e Jung, i quali hanno compreso che l’arte offre un dono sublime: consente di ‘estetizzare il dolore, cioè – scriveva Edgar Morin[15] – di farlo avvertire nella sua intensità, pur facendo gioire della sua espressione.” E ciò senza alcuna fuga dalla realtà, ma con piena immersione in essa (p. 96).

Ma è soprattutto l’Oriente a dimostrare la possibilità della coniunctio oppositorum, e anzi della loro fusione, come Jung aveva chiarissimo, pur essendo fermissimo nel sostenere che l’Occidente non avrebbe potuto né dovuto scimmiottare le vie, pur ritenute profondissime e superiori, dell’Oriente, in specie dello yoga brahmanico e ancor più buddhista, ma arrivarvi per una strada meditativa propria (tanto che a me sembra che la pratica analitica di tipo auto-trasformativo, junghiana, sia già lo Yoga dell’Occidente). Ma in ogni caso il superamento degli opposti che lacerano la psiche implica un punto focale interiore superiore, talora detto da Jung “principio trascendente” (ma per dire “trascendentale”) dal 1928-29 detto Sé[16]. Su ciò la Stroppa, in un importante capitolo di fatto conclusivo intitolato significativamente Oriente e Occidente, cosmici amanti (pp. 203-260), scrive: “Comunque la si voglia intendere, occorre aprire il ‘terzo occhio’. Anche questo è un concetto denominato in vari modi, a seconda dell’angolatura teorica in cui è stato inserito, ma nella sua sostanza è l’occhio dell’anima: la percezione di quell’area di intersezione tra la soggettività e lo sfondo archetipico della psiche; è il corpo sottile dei filosofi dell’immaginazione, la terza area della psiche, il terzo anelito. È una funzione psichica sostanzialmente indicibile, ma che senza dubbio influisce fortemente sulle relazioni, soprattutto se esse hanno un carattere intimo e amoroso, ossia quel carattere irriverente nei confronti del piano di realtà che, nel bene e nel male, apre all’oltre (p. 237)”.

Proprio questo – fatto tutto il lavoro di autodialogo possibile e immaginabile in analisi – sembra dare l’ultima spinta alla mente per liberarsi: addirittura in quelle vicende sentimentali che per anni e anni, e spesso decenni, prendono alla gola. Vengono a un certo punto trascese, quasi d’un balzo, che arriva dopo lungo lavorio interiore, tramite un “supplemento d’anima”. Così “può” arrivare la “trasformazione”, che porta a compimento un processo di rinascita interiore (come qui è detto anche in riferimento a casi molto concreti, come quello qui chiamato di “Isotta terza”, specie a p. 183). Quando si giunge quasi alla radice, o al limite, anche nell’autodialogo, proprio lo svelamento del bello-buono al di là di noi stessi, salva.

di Franco Livorsi

  1. F. LIVORSI, Recensione a: C. STROPPA, Il doppio sguardo di Sophia. L’eterno femminino e il diavolo nella vita e nella letteratura, Moretti & Vitali, Bergamo, 2016, in “l’Ombra. Tracce e percorsi a partire da Jung”, n. 7, 2016, pp. 121-126; La casa dell’anima secondo Carla Stroppa, ”l’Ombra”, n. 12, 2019, pp. 205-215 (in riferimento a: c. STROPPA, “Sulla soglia di casa. Abitare tra sogno e realtà”, Moretti & Vitali, 2019); “Gli spostati” loro malgrado, “Il Ponte”, a. LXXVIII, marzo-aprile 2021, pp. 153-157 (in riferimento a: C. STROPPA, “Gli spostati. Vivere senza amore”, Moretti & Vitali, 2021).
  2. C. STROPPA, L’amore impossibile e le donne. Slanci, cadute e trasformazioni del desiderio, Moretti & Vitali, Bergamo, 2022, pagg. 265.
  3. Per un inquadramento storico-filosofico di questa problematica si veda: R. SAFRANSKI, Il Romanticismo, Longanesi, Milano, 2011.
  4. La novella fu scritta da L. Pirandello nel 1907 e pubblicata sul “Corriere della sera” nel 1912. Fa parte di: Novelle per un anno, Mondadori, Milano, 1934-1937.
  5. J. HILLMAN, Anima. Anatomia di una nozione personificata (1985), Adelphi, 1989.
  6. C. G. JUNG, La donna in Europa (1927), in “Opere”, Bollati Boringhieri, 1984, vol. 10, I, pp. 51-72. Ma ivi si veda pure: Il problema amoroso dello studente (1928), pp. 73-92.
  7. P. OVIDIO MARONE, Metamorfosi (tra 2 e 8 d.C.), con testo latino a fronte, a cura di P. Bernardini Marzolla, Con uno scritto di I. Calvino, Mondadori (“I Millenni”), 1979, Libro III, v, 339-510, pp. 108-117.
  8. J.-J. ROUSSEAU, Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli uomini (1754), in: “Scritti politici”, a cura di P. Alatri, UTET, Torino, 1970, pp. 267-370. Ma si vedano soprattutto pp. 366/367 (punto VII dell’Appendice).
  9. S. FREUD, L’interpretazione dei sogni (1899, ma 1900), in “Opere”, a cura di C. Musatti, Bollati Boringhieri, Torino, 1966, vol. 3; Introduzione alla psicoanalisi (1915/1917), ivi, 1978, vol. 8, pp. 205-207 per il porre l’Io dove c’era l’Es.
  10. Astrolabio-Ubaldini. Roma, 1982.
  11. Oltre alle op. cit. di Freud, si veda: J. LACAN, Scritti (1966), Einaudi, Torino, 1995.
  12. Per il confronto di Freud con Romain Rolland sul “sentimento oceanico”, opposto dallo scrittore alla tesi totalmente atea espressa da Freud in: L’avvenire di un’illusione (1927), in “Opere”, cit., vol. decimo. 192-1929, ivi, 1978, pp, 431-485, si veda il primo par. di Il disagio della civiltà (1929) di Freud, ivi, pp. 533-630, alle pp. 557-559.
  13. JUNG, Psicologia del transfert (1946), Il Saggiatore, Milano, 1961.
  14. PLATONE, Teeteto, in “Opere”, a cura di G. Giannantoni, Laterza, Bari, 1966, pp, 259-357. Al cap. VI-ViI, pp. 275-279, compare il famoso confronto tra l’arte del filosofo e quella della levatrice.
  15. E. MORIN, Sull’estetica, Cortina, Milano, 2016.
  16. C. G. JUNG – R. Wilhelm, Il segreto del fiore d’oro. Un libro di vita cinese (1929 e poi 1938), Sagio introduttivo di A. romano, Bollati Boringhieri, Torino, 2001. L’antico testo taoista porta Jung, che su invito dell’amico sinologo Wilhelm aveva accettato di commentarlo, a porre al centro della sua psicologia analitica il Sé.

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