Il centenario di Guido Aristarco: il “mestiere del critico” nel dissolvimento della ragione…

La scorsa estate, proprio attorno a Ferragosto, il settimanale «FilmTV» -fortunata e meritoria testata che riesca ancora a resistere in edicola- ha lanciato un referendum per individuare i migliori film della storia del cinema italiano. Invitati 159 votanti: cinquanta cineasti e 109 tra critici, storici e docenti universitari di cinema, oltre ovviamente ai lettori del settimanale milanese diretto da Giulio Sangiorgio (che dovrebbe, a occhio e croce, essere stato il centosessantesimo). Ne sono usciti, com’è forse inevitabile in simili occasioni, risultati piuttosto sorprendenti. Miglior film italiano di tutti i tempi sarebbe La dolce vita (52 voti, neppure un terzo del totale: già segno, a dir poco, di una forte “dispersione”) prevalendo sul podio rispetto a Io la conoscevo bene (Antonio Pietrangeli 1965, per chi non lo rammentasse… con 41) e al Sorpasso (37). Rossellini si è aggiudicato il quarto, tredicesimo, quattordicesimo e sedicesimo posto, rispettivamente con Viaggio in Italia, Paisà, Roma città aperta e Germania anno zero, spaziando dai 36 ai 21 voti (anche se Michelangelo Frammartino mette clamorosamente in fila, in via esclusiva, solo dieci dei suoi film: ecco perché il suo Le quattro volte, l’ultimo film che “Ring!” presentò agli alessandrini prima di dover chiudere bottega, è uscito così stupendo!). Fellini  quinto (8 ½, 35) e diciottesimo (Amarcord, 19). De Sica sesto (Ladri di biciclette, 33) e ventiduesimo (Umberto D., 18!). Bellocchio settimo coi Pugni in tasca (29), Pasolini ottavo con Accattone (28) e Antonioni solo nono con L’avventura (27). Visconti viene fatto venir fuori finalmente solo al ventesimo posto, con i 18 voti di Rocco (11% circa dei votanti…) e  autotallonandosi con i 15 di Ossessione (meno del 10%!) al venticinquesimo. Bisognava poi scendere al 38° per trovare Il Gattopardo (10), al 45° per Bellissima (9). Nei primi 55 posti (e siamo già ai soli 8 voti per Suspiria) non ci sono né La terra trema Senso. Dal momento che i restanti voti complessivi al regista, che pure si piazza quinto nella graduatoria cumulativa per autori, risultano 78, bisogna andare alla caccia dei ventisei complessivi riportati dalla sua restante filmografia. Per chi scrive non è un problema da poco: fin dalla tesi di laurea e prima ancora, per non dire del dopo, ha sempre considerato i due film la prova provata dell’esistenza non solo del cinema, ma… della sua propria. A questo punto, per riprendersi dallo stupore, è diventato un puntiglio andare a ricercare quanti li hanno votati, per citarli. Si sono espressi inserendo nella propria decina La terra trema i De Serio, Minervini, Bruno Torri, Vicari (e vedremo perché…) con Chatrian (che lo mette addirittura secondo, il cielo gli renda merito…); a favore di Senso si sono pronunciati niente meno che Gianni Amelio e Franco Piavoli, con Marianna Cappi (che lo piazza al primo posto, vivaddio…), Alice Cucchetti della rivista promotrice (al secondo), Chiesi , De Bernardinis e Fornara (al terzo).

Assegnati questi piccoli onori al merito decisamente controcorrente, è il caso di spiegare la ragione di questa lunga premessa. Aprendo sulla stessa rivista promotrice dell’iniziativa, a consuntivo, un dibattito che poi purtroppo nessuno ha proseguito, Alberto Pezzotta ha  osservato: «Sono meno ricordati i titoli di Visconti –Senso e La terra trema, con 7 e 6 voti- branditi negli anni 50 dalla critica ideologica: è la fine definitiva dell’aristarchismo, di un certo grigiore da cineforum punitivo».

Si dà appunto il caso che l’anno appena conclusosi, tra le tante altre cose,  abbia portato via con sé anche il centenario della nascita di Guido Aristarco (Fossacesia 1918-1996 Roma). Qualcosa per ricordarsene è accaduto, in misura che potrebbe magari apparire insufficiente, ma dall’altro destare anche stupore per il fatto stesso di essersi verificato, stante la concomitante “fine” registrata nella peraltro obiettivamente inconfutabile analisi dell’amico Alberto, ove si prenda com’è naturale il primo Visconti (fino a Rocco: dal Gattopardo il pollice divenne verso…) come insuperato parametro e modello di quanto il fondatore e direttore assoluto di “Cinema Nuovo” chedeva –programaticamente, per metodo dichiarato- al cinema.

Tra i non frequentissimi articoli cartacei fatti scaturire dall’occasione, ho trovato particolarmente a fuoco quello di Giovanni Maria Rossi (Il valore del cinema, «Vivilcinema», 5). L’Università romana, che fu la sua ultima sede di insegnamento, ha organizzato lo scorso 21 novembre una giornata dedicatagli (“«Cinema Nuovo» e la cultura dei media negli anni ’50”) a cura di Morreale e Noto: vi sono intervenuti, con la figlia Tiziana e Cecilia Mangini, Ugo Finetti (tra gli ormai pochissimi collaboratori significativi del cessato periodico ancora vivi e operanti), e quali relatori Guerra, Parigi, Wehrli, Cervini, Pompei, Zegna, Fiaccarini, Pitassio, Desole, Re, Mandelli,  Garofalo, Masciullo, Cantore, coi contributi di Fanara, Gazzano, Prono e Vicari, e il coordinamento via via di De Gaetano, Minuz e Di Donato, oltre che dei curatori.

Daniele Vicari, che di Aristarco fu allievo proprio alla Sapienza e con lui discusse la tesi, è stato attivissimo anche in Sardegna, nel giorno stesso esatto del centenario (7 ottobre), dando luogo prima a Cagliari poi ad Oristano (con Biblioteca Gramsciana, Nur, Film Commission isolana, Umanitaria, FICC e l’UNLA oristanese) con Antonio Medici a incontri con gli studenti e il pubblico (“Nel segno di Guido Aristarco”).

La Cineteca di Bologna, che dello scomparso critico e docente ha in custodia parte dell’Archivio, ne ha iniziata la schedatura offrendone online una selezione di brani riguardanti Ingmar Bergman, che di Aristarco era coetaneo… Un’altra cospicua sezione dei documenti aristarchiani è in possesso della Biblioteca “Chiarini” del Centro Sperimentale.

Aristarco e Chiarini: una diade per certi versi imprescindibile: accomunata emblematicamente dalla prima vittoria congiunta nell’assegnazione delle protocattedre universitarie di storia e critica del cinema (1969), ma già altrettanto irrimediabilmente scissa dall’anno precedente, con l’opposta posizione assunta nei confronti del ’68 e in particolare della Mostra di Venezia, che il primo contestava e il secondo dirigeva. Di Chiarini, però, si tornerà a parlare in altra occasione, perché l’argomento merita eccome un ritorno di attenzione, sebbene oggi “il Professore” sia, come tanti altri, indecorosamente dimenticato. D’altra parte la visione del cinema dell’uno e dell’altro cattedratico pionieristico di una nuova disciplina che l’Università italiana malsopportava (non che si siano nel mezzo secolo successivo fatti grandi passi avanti nell’atteggiamento di fondo: è un’eccezione assoluta l’elezione a Rettore di Gianni Canova alla IULM, e c’è voluta Yale per riconoscere gli studi italiani di cinema con la chiamata di Francesco Casetti) divergeva fin dalla scelte di fondo. Il marxismo e il nesso dichiarato De Sanctis-Gramsci anzi che De Sanctis-Croce, sotto gli invocati auspici di Gyorgy Lukàcs per Aristarco; il campo idealistico, con osservanza gentiliana piuttosto che non crociana –il che è assai interessante- per Chiarini.

Quando nel 2007, dando una mano a Lorenzo Pellizzari appena colpito da un terribile imprevisto di salute, ebbi modo di cooperare alla raccolta di tutte le sue recensioni (in occasione proprio del sesto festival della critica alessandrino) nel volume Il mestiere del critico 1952-1958 lì edito da Falsopiano, ci fu l’occasione per leggere o rileggere sistematicamente tutti i contributi più significativi da lui stesi in sede recensoria per la sua rivista nella prima serie quindicinale. Trovarne i limiti oggi è facile, rispetto a una visione del cinema che fu sostanzialmente messa in mora dall’affermazione del lascito dell’amico-avversario Bazin (del quale finalmente proprio in questi giorni esce in Francia l’opera omnia) presso i giovani dei “Cahiers” e dalla rivalutazione sistematica, inizialmente vissuta come provocatoria, del cinem hollywoodiano classico. Si potrebbe volendo anche infierire, come fece Luciano Bianciardi raffigurandolo nel suo capolavoro La vita agra col personaggio del “dottor Fernaspe”, o riportando addirittura –ma non lo farò qui- i parecchi aneddoti, non tutti scherzosi, che mi confidò negli anni -1965-70- in cui ebbi il privilegio sorprendente di frequentarlo presso che quotidianamente a Rapallo, con riferimento alla sua remota e breve esperienza di redattore contemporaneo della Feltrinelli e di “Cinema Nuovo”, con Corrado Terzi, Tullio Kezich e la figura tragica della compianta Marina d’Arsago. Ma anche –come ebbe a scrivere Luigi Russo parlando proprio di De Sanctis- se ci mettessimo a correggere e a respingere ad uno ad uno i suoi giudizi, la coerenza della visione d’insieme ci opporrebbe una resistenza praticamente insormontabile.

Il più grosso limite di Aristarco fu ovviamente la sua assoluta refrattarietà agli anche più vistosi e immediati risvolti stilistico-visivi di quanto appariva sullo schermo: gli interessava solo quanto il film “diceva”, la posizione complessiva che con la sua realizzazione l’autore mostrava di detenere rispetto alla lettura politica complessiva della realtà storico-sociale. Oggi l’epico dibattito su neorealismo e realismo che coinvolse anche i critici letterari (e lo stesso Chiarini) a proposito di Metello di Pratolini e Senso può apparire a un giovane persino di ardua lettura letterale, ove non ci si identifichi in quel contesto e ci si rifaccia a quei riferimenti. Possiamo sorridere nel rileggere la “prefazione” di Lukàcs alla sua monumentale silloge, mai più ristampata, Il dissolvimento della ragione (Feltrinelli 1965), dove in realtà il maestro ungherese –oggi damnato memoriae da Orbàn!- confessava elegantemente di non sapere poi bene chi fosse e cosa facesse il suo corrispondente italiano. O il suo lunghissimo saggio introduttivo (Del senno di poi son piene le fosse…) premesso negli anni Settanta all’Antologia di “Cinema Nuovo” edita da Guaraldi. Ma dai racconti di molti suoi allievi (una per tutti: Rosy Prudente) traspaiono ammirazione, riconoscenza e affetto, e questo per chi ha praticato il mestiere scritto sull’acqua del docente è il massimo riconoscimento vero cui si possa aspirare. E la battaglia –sua e di Chiarini, con altri- perché al cinema e alla relativa critica fossero riconosciute pari dignità con –come si diceva allora- “le altre arti” resta un contributo fondamentale del quale è impossibile non essergli riconoscenti (si pensi solo al suo contributo alla collana “La Cultura” del primo epico Saggiatore di Alberto Mondadori, e all’introduzione dei testi di cinema nei “Saggi” einaudiani).

Noi alessandrini, in particolare, non possiamo dimenticare che Aristarco fu per lunghi anni (precisamente dal 1956 al 1970: dalla sua vittoria al concorso per esordienti di Sesto Fiorentino alla rottura) il maestro di Adelio Ferrero, che divenne nel decennio Sessanta e fino al ’68 il suo più stretto collaboratore. Nonostante la rottura, Aristarco presenziò in incognito, mescolato alla folla inaugurale, alla prima assegnazione del Premio dedicato alla memoria di Adelio, che coincise il 24 settembre 1978 con l’inaugurazione del Teatro Comunale e l’intitolazione alla sua memoria della relativa sala. Certo, bisognerebbe indagare sulla sorta di complesso di Crono, che portò via via il fondatore di “Cinema Nuovo” a… divorare uno dopo l’altro i suoi “figli”, a cominciare dalla magistrale triade Ferrero-Fink-Pellizzari, tutta formatasi alla sua ombra e poi emigrata verso ben altri, più ricchi e autonomi lidi, per molti anni coincisi con la nuova rivista bolognese da loro fondata, “Cinema e Cinema”.

Almeno una cosa, della lezione di Aristarco, dovrebbe tuttavia sopravvivere comunque  ed essere più che mai attuale oggi, mettendo tutti d’accordo in quanto non “ideologica”: che il cinema dovrebbe essere un a cosa seria, e presa e vissuta seriamente. Sembra l’uovo di Colombo, ma allo stato attuale delle cose appare una prospettiva piuttosto distante. In quegli anni “noi credevamo” all’impegno politico come chiave di decrittazione da sinistra del cinema, anche se le conseguenze valutative potevano apparire deboli e inappropriate alla possanza dei sommovimenti cui cui il cinema si rinnovava.

Perché in fondo, senza neppure il bisogno di starci a pensare troppo, al momento di concludere debbo riconoscere con me stesso che al detto intitolante l’acquaforte di Goya, «il sonno della ragione genera mostri», ci credo ancora eccome: e nei tempi che stiamo attraversando non c’è neppure più il bisogno di invocare al riguardo il beneficio d’inventario o la facoltà di prova.

                 (in parzialmente diversa versione: “Diari di Cineclub”, 68, gennaio 2019)

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