L’internazionalismo rivoluzionario, socialista comunista e marxista, ha a che fare con il tema della pace e della guerra nel pensiero politico, specialmente contemporaneo, perché mira a un mondo unito senza confini. L’idea della comunione umana, propria del pacifismo cristiano, è perciò presente, forse persino come segreta e inconscia matrice, anche nell’internazionalismo proletario e marxista, ma qui come risultato finale, preteso necessario, di un mondo in cui siano sparite, o meglio “abolite” tramite il potere proletario, le differenze di classe, cioè le classi, e per ciò stesso lo Stato, nel mondo perché l’economia è da tanto tempo interdipendente; ma questo “scopo finale” in tale approccio è ritenuto – almeno morfologicamente, se non proprio cronologicamente – prevedibile, necessario e già in marcia nella storia, come l’embrione che si sviluppa, dando gioia e speranza, ma anche sofferenza e travaglio, nel ventre della madre. L’obiettivo è ben evidente già nell’inno L’Internazionale, composto da un poeta operaio della Comune di Parigi, Eugène Pottier, nel 1871, e diventato poi famoso nel mondo, e adottato da Lenin come inno della Russia rivoluzionaria nel 1917 e mantenuto come tale sino al 1944 come Inno dell’URSS, per rimanere poi comunque sempre l’inno del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, e che diceva tra l’altro: “È la lotta finale, uniamoci e domani l’Internazionale sarà la futura umanità”: il che sarebbe accaduto attraverso l’abolizione del capitalismo in quanto economia privatistica e di mercato, ritenuta la vera fonte dei conflitti, come prevedeva e auspicava il marxismo più “classico”, specie da Marx e Rosa Luxemburg a Lenin e Trockij, ma con taluni sviluppi, a quanto pare oramai senza consistenza politica di massa minimamente rilevante, sino ai giorni nostri, come nel “sovversivo” Antonio Negri (col suo amico americano Michael Hardt).
Ridotto a schema – spero però congruo – il ragionamento del marxismo “classico” era più o meno il seguente.
L’economia è “la struttura”, o comunque la chiave di volta della storia. Il resto è “sovrastruttura”, almeno “in ultima istanza”.[1] Lo Stato stesso, con tutti i suoi apparati burocratico repressivi, sarebbe sovrastruttura della classe economicamente dominante: una specie di corazza o spada di fuoco del padronato di turno nella Storia pregressa (che però avrebbe da finire, con una sorta di “salto di qualità” in essa inscritto).
Quindi le guerre sarebbero sempre fatte per ragioni economiche, per il dominio economico su vicini o lontani; o, se si vuole – come diceva Lenin dal 1914 con particolare enfasi, e in specie nel 1916[2] – sarebbero guerre tra “ladri di bottino”, per il controllo delle materie prime e dei mercati.
Se il mondo in cui tutti competono per avere più materie prime, più mercati da dominare e più merci da consumare fosse liquidato; se cioè fosse liquidata la politica di predazione delle materie prime e dei mercati, e in primis la compra-vendita della forza lavorativa sul mercato delle merci – chiunque ci campi – la rivoluzione proletaria mondiale ci darebbe pure la pace mondiale permanente (almeno secondo tale approccio).
Siccome il marxismo rivoluzionario sapeva, sia pure con diverse accentuazioni, che sin dall’inizio del secolo XX il capitalismo si era mondializzato (o si andava mondializzando irreversibilmente e rapidamente), la rivoluzione proletaria avrebbe dovuto essere mondiale. Altrimenti il contesto capitalistico mondiale, per ovvie ragioni economiche in un mondo sempre più economicamente interdipendente, si sarebbe presto mangiato l’economia socializzata, che solo dal 1928 in poi prese ad essere confusa col capitalismo burocratico di stato.
La guerra franco-prussiana aveva portato alla Comune di Parigi del 1871, cioè alla rivoluzione operaia al cuore della Francia: rivoluzione proletaria pure spaventosamente repressa nel 1871, ma dopo aver mostrato al mondo che cosa sia il potere politico e sociale del proletariato, che fa estinguere il potere dei corpi separati burocratico repressivi, rendendo tutto elettivo e pagando tutti “come operai” al più specializzati, realizzando passo passo l’estinzione dello Stato, ossia la fine dello Stato, in quanto macchina burocratico-repressiva del potere, che dura pure al di là dei cambi della forma di governo[3] (finché dura, ma per il marxismo da Marx a Trockij “dura minga, non può durare”). La guerra mondiale del 1914/1918 avrebbe dovuto provocare una Comune mondiale: la rivoluzione internazionale.
L’idea maturata nei rivoluzionari marxisti era che la rivoluzione dei soviet (consigli elettivi dei lavoratori), scoppiata nell’area più debole, o arretrata – come insieme territoriale – del capitalismo mondiale (Russia del 1917), sarebbe ben presto dilagata al cuore del capitalismo, in Europa Occidentale e in America. Del resto non era forse subito dilagata pure la Rivoluzione Francese, con l’ex giacobino Bonaparte che aveva cercato di portare il suo Codice Civile, il Codice della borghesia vittoriosa dal 1789/1794, da Parigi a Mosca? Poteva non accadere alla Rivoluzione proletaria, in un mondo ben più globalizzato come quello svelato dalla Grande Guerra “mondiale” del 1914-1918?
Su ciò tutto quello che Lenin scrisse e disse soprattutto dal 1916 al 1920, ivi compresi i grandi discorsi nell’Internazionale Comunista, dal 1914/1916 al 1921, è del più grande interesse anche politico dottrinario, in riferimento a un modello di socialismo, marxiano, lì proseguito e approfondito (ripreso nel 1917-1918 in Stato e rivoluzione, ma pure in straordinari discorsi nell’Internazionale Comunista tra 1919 e 1921): modello comunardo, totalmente basato sull’autogoverno dei lavoratori anche al di là del “governo” comunista: modello “comunardo”, o sovietistico, o di potere dei “liberi” consigli dei lavoratori, di cui lo stalinismo – dal 1928 in poi nella prassi, e dal 1944 anche nel pensiero – fece poi perdere persino la traccia (a parte il mito del potere operaio), tanto che se oggi, e anzi dal 1945 in poi, uno parla (o avesse parlato) anche con un intellettuale di sinistra dottrinariamente e storicamente attrezzato, si accorge (o si sarebbe accorto) che “per lo più” l’interlocutore neanche sospetta più (o sospettava più) che sia mai esistito (o fosse mai esistito), a parte forse il libro Stato e rivoluzione, visto come “utopia” o propaganda, un tentativo su vastissima scala di fondare uno Stato e un’economia basati sul potere diretto dei lavoratori stessi in perfetto spregio delle “leggi” del valore plusvalore e profitto (e anzi fatto proprio per poterle violentare in senso “comunionistico”). La cosa paradossale è che sino al 1928 almeno, tutti quelli minimamente preparati nel mondo socialista o comunista invece lo sapevano.
I riformisti democratici e socialisti lo ritenevano già utopistico, e lo consideravano un salto nel buio: un “fine” che per loro era “nulla”, mentre il movimento operaio, con le conquiste sindacali e riforme sociali che si potevano ottenere tramite la democrazia parlamentare, era “tutto” (come Bernstein diceva in un suo famoso, e antelucano, libro sin dal 1899[4]). Ma pure il riformismo, come il marxismo rivoluzionario, condivideva l’idea di Marx che il capitalismo si basi sul meccanismo del plusvalore, che genera il profitto. Il Capitale, infatti, è un sistema in cui si vendono e comperano merci, la più importante delle quali è l’energia – o forza – lavoro umana, il cui prezzo, come il cartellino su una cassetta di pomodori, è il salario, che fluttua in base alla domanda e offerta della merce sul mercato, come ogni merce. Il lavoro dipendente fa tutto (quasi tutto), ma il suo valore è minimo, anche perché ce n’è sempre di più, “nel mondo”. Ma la merce forza-lavoro è umanità angariata, e non mero oggetto di consumo, e perciò non lo può accettare, almeno durevolmente e nel profondo. A ciò essa è sempre latentemente o manifestamente ostile (lotta di classe).
La conseguenza era che il solo modo di liberarsi da parte della forza lavoro, salariata, che produce la gran parte delle merci per un salario minimo, fosse quello di superare il meccanismo del plusvalore e del profitto. Per Marx in sostanza finché le merci avranno un valore (un prezzo, a partire dal prezzo della forza lavoro, il salario), il lavoro non avrà valore, sarà un oggetto di consumo venduto e comprato come un altro. Parlare di “valore del lavoro”, mentre dura il capitalismo, per Marx sarebbe stato insensato, come parlare del valore dello schiavo che resti schiavo. Si sarebbe dovuto passare da un’economia monetaria, di mercato, a un’economia di distribuzione sociale delle merci, con criteri non più basati sul maggior guadagno, ma sul bene comune, in certo modo violentando la legge del valore (che sarebbe solo il modo di funzionare dei regimi in cui c’è una classe che sfrutta il lavoro e una classe sfruttata, pure presenti in forme differenti dal tempo degli schiavi antichi a quello dei lavoratori moderni). Anzi, la dittatura del proletariato aveva senso solo per alterare l’economia di mercato tramite il potere operaio, che bada al bene comune senza curarsi del profitto: non però perché non riesce a produrne abbastanza (come tanto spesso nei regimi cosiddetti comunisti di stato, in realtà capitalisti di stato), ma perché si realizza un’economia basata sulla distribuzione dei beni nell’associazione comune dei cittadini-lavoratori invece che sul mercato. Questo era reso possibile – sarebbe stato reso possibile – passando dallo Stato degli apparati burocratico repressivi allo Stato autogovernato dai lavoratori stessi, che sin dall’inizio per Marx e Engels era un “semistato”, anarchia comunitaria in cammino, meglio se a poco a poco; sarebbe inoltre stato possibile tramite l’internazionalizzazione della rivoluzione proletaria.
Ma entrambe le possibilità ben presto fallirono: non resistette l’autogoverno proletario da parte dei consigli dei lavoratori e la rivoluzione proletaria non si realizzò mai in Occidente.
Così, comunque, parlò e operò Lenin dal 1914 in poi, con particolare riferimento a tutto quello che scrisse e disse in L’imperialismo, fase suprema del capitalismo (1916), Stato e rivoluzione (1917, ma 1918), e tutto quello che scrisse o disse dal 1917 al 1921, compresi i discorsi nell’Internazionale Comunista dal 1919 in poi, che a mio parere sono del più grande interesse anche nella storia del pensiero politico socialista e comunista. Diversamente da Gramsci, io non dico che Lenin sta a Marx come San Paolo sta a Cristo[5], ma che Lenin un giorno sarà riscoperto come il Machiavelli del XX secolo[6], anche lui con quella doppia identità su cui ancora si accanisce la storiografia per vedere se il vero Machiavelli sia quello assolutamente democratico repubblicano dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (1512/1517, ma postumo 1531) oppure, quello più noto da sempre, maestro di realismo politico brutale e di “dittatura” (allora principato) del Principe.(1513, ma postumo 1532).[7]
Pensare che la rivoluzione dei soviet sarebbe dilagata non era difficile, perché i comunisti avevano sempre presente il precedente della Rivoluzione detta “della borghesia” del 1789/1793, che poi aveva portato la sua legge e sistema, il Codice civile e un nuovo ceto politico borghese, nel mondo, tramite l’ex giacobino Napoleone Bonaparte, che alla fine era stato sconfitto, ma era pur giunto sino a Mosca. Bordiga ne parlò nel bellissimo articolo, forse il suo articolo più “bello”, Fiorite primavere del Capitale, ma pure quando nel 1951 diceva al suo compagno Onorato Damen che nei giudizi liquidatori sul mondo sovietico, che pure lui (Bordiga) dava tragicamente dal 1926 e tanto più dal 1929 in poi, bisognava andare cauti perché quello era stato il primo esempio di una grande rivoluzione della storia “che si rincartoccia”. [8]
Stalin dapprima – quando si vide che ormai in Occidente la rivoluzione proletaria non arrivava – provò a tirarne le conseguenze sostenendo che, dati anche gli immensi spazi e materie prime dell’URSS, si poteva “fare il socialismo” là (“socialismo in un solo paese”) anche senza dipendere dalla pur desiderata e immancabile rivoluzione a Occidente, per la quale però non si poteva mettere a rischio l’esistenza dell’URSS. (Ma così l’URSS diventava sempre di più, e non solo in uno stato d’eccezione, Stato burocratico autoritario ben più che proletario, o invece che proletario; e non solo per i tempi d’eccezione insurrezionali, in stato di assoluta emergenza, ma proprio come sistema politico-sociale).
Chi invece era, per la verità sin dal principio (con Parvus, e da solo, dal 1905), persuaso del carattere necessariamente mondiale della rivoluzione proletaria (per cui bisognava operare sempre e innanzitutto ad ogni costo), era il grande creatore e capo vittorioso dell’Armata rossa, Lev Trockij. Egli pensava che la Rivoluzione del 1917 avrebbe dovuto essere vista in funzione della Rivoluzione mondiale, come un primo Paese conquistato dalla rivoluzione mondiale e direttamente legato ad essa in un processo storico ininterrotto (“rivoluzione permanente”). Ma i più tra russi e sovietici, dopo il fiume di sangue versato tra Grande Guerra, rivoluzione e successiva guerra civile efferata tra “rossi” e “bianchi”, appena finita, sin dal 1921-1922 anelavano ad una stabilizzazione interna. Perciò, ancora a livello tutto politico – anche se sbilanciato a favore di chi manovrava ormai un apparato sempre più forte (il segretario, Stalin) – Trockij fu sconfitto ed esiliato nel 1927, e nel 1939 fu fatto assassinare in Messico da un sicario di Stalin, dopo molti tentativi del genere per farlo fuori.
Trockij comunque enunciò due teorie dall’esito paradossale. Nel 1936 pubblicò La rivoluzione tradita, in cui sosteneva che la “degenerazione burocratica” del potere sovietico era gravissima, ma non intaccava la sostanza socialista del sistema, il fatto che mezzi di produzione fossero sostanzialmente nazionalizzati: tanto più che la burocrazia non sarebbe una classe, ma semmai una casta di privilegiati, che a tempo debito il corpo collettivista “sano” potrà scrollarsi di dosso, come un bubbone estirpabile. Questa teoria fu, suo malgrado, la più grande difesa del potere burocratico comunista stalinista e post-stalinista, visto come la malattia di un corpo sano. Specie dopo la destalinizzazione del 1956, l’idea era sempre quella per cui “ha da venì’ la sburocratizzazione”, il ritorno al potere dei liberi consigli dei lavoratori, almeno dal 1927 diventati longa manus della burocrazia autoritaria detta comunista. Dato che non c’erano più “i padroni” nell’economia sovietica, e che i burocrati marxisticamente non potevano essere classe dominante, ma solo “la casta”, il bubbone burocratico avrebbe potuto essere estirpato. Lo strapotere burocratico-repressivo non era nella “struttura”, ma “solo” nella sovrastruttura. Ci si attendeva sempre che l’URSS e i paesi “fratelli” (tali loro malgrado: “liberati” nel 1945 dall’Armata Rossa e, sull’onda, convertiti loro malgrado al modello sovietico comunista burocratico autoritario), si sarebbero liberati dal “bubbone” burocratico autoritario (essendo lo strapotere burocratico un dato non dell’economia, ma dell’amministrazione): tanto che quando con un ritardo di quarant’anni sotto Gorbaciov l’URSS provò un poco a liberalizzare le opinioni e i diritti d’impresa, molti, tra cui chi scrive[9], s’illusero che stesse accadendo fuori tempo massimo l’attesa sburocratizzazione del socialismo burocratico autoritario di stato (“Il Manifesto” scrisse addirittura che l’URSS stava tornando a dare “Tutto il potere ai soviet”), mentre l’idea era così falsa che bastò quel limitato riformismo gorbacioviano intrasistemico per far crollare tutto il sistema.
Ciò per me “dimostra” che lo Stato non è “sovrastruttura”, ma la “struttura” della vita collettiva o “almeno” uno dei due volti insopprimibili della struttura. Se crolla lo Stato (allora quello burocratico “comunista”, e negli auspici dei suoi nemici domani quello cinese), crolla tutto. In attesa che lo Stato rinasca dalle ceneri, “più forte che pria”, ma con un intervallo di anni o decenni di frantumazione dello Stato e di rovina economica, sperimentati due volte dalla Russia: una tra disfatta nella Grande Guerra e rinascita dello Stato autoritario all’ombra della bandiera rossa (dal 1917 al 1921) e l’altra al crollo dell’URSS del 1991 sino all’avvento dello Stato “forte” e poi semidittatoriale di Putin (2000, ma soprattutto dal 2012 ad oggi).
Trockij comunque, al suo tempo, aveva sostenuto, come capo rivoluzionario vittorioso, che ogni sforzo dovesse essere fatto per fare in modo “ininterrotto” (Lenin) o “permanente” (lui stesso) la rivoluzione anticapitalista nel mondo, perché il mondo sarebbe stato ormai economicamente tutto interdipendente, per cui anche in prospettiva l’alternativa sarebbe stata sempre tra guerra mondiale e rivoluzione mondiale. Parvus e soprattutto Trockij furono i due primi pensatori, marxisti, a comprendere che era ormai in atto quel che noi oggi chiamiamo “globalizzazione”. O il capitalismo è fatto morire in tutto il mondo o tutto resta come prima o peggio (sino all’esplosione del sistema-mondo).
Tuttavia nel 1939 Trockij prese a sospettare che la rivoluzione mondiale, nonostante la Seconda guerra mondiale alle porte, avrebbe potuto non arrivare affatto, ripetendo lo scenario della “rivoluzione mancata” in Occidente dopo la Grande Guerra e la Rivoluzione d’ottobre. In un articolo del novembre 1939, In difesa del marxismo, disse che se ciò fosse accaduto il discorso del marxismo sul proletariato come classe almeno latentemente rivoluzionaria – nel senso che in Veneto dicono “bronsa cuerta” (“brace sotto la cenere”) – sarebbe risultato falso, e in tal caso si sarebbe dovuto ripiegare su un programma minimo per difendere gli sfruttati.[10]
In sostanza l’idea che una rivoluzione mondiale possa creare un socialismo internazionale e “quindi” la pace mondiale, per quel che qui interessa, è risultata falsa. La rivoluzione mondiale non è mai arrivata a Occidente. Semmai il modello sovietico stabilizzatosi via via tra 1921 e 1927 fruttò in “Oriente”, e “per l’Oriente”, dove in grandi paesi, dalla Cina al Vietnam, si realizzò una rivoluzione attraverso cui élites burocratico statali “comuniste” fecero quello che in Occidente aveva fatto la borghesia privatistica, qui a Occidente cresciuta via via dai mercanti-produttori del 1300 in poi. In Occidente se ne è fatto a meno, perché qui il lavoro era stato fatto ed è fatto, meglio, dal Capitale privatistico che non dallo Stato. Ma “a Oriente” l’élite comunista rivoluzionaria ha supplito alla carenza estrema di borghesia privatistica, che invece a Occidente era cresciuta via via dal Basso Medioevo in poi.
Tutte queste idee marxiste sono state riprese nel “Sessantotto”, a mio parere in modo tanto vasto e interessante quanto sterile. Venivano originalmente ribadite le stesse idee che negli anni Venti o erano fallite, e non certo perché fossero giuste, oppure avevano generato, a “oriente”, il totalitarismo burocratico (o come lo vogliamo dire). Perciò nell’insieme si può dire che tanto la via al potere proletario dall’alto, tanto la via della burocrazia autoritaria comunista oramai, tanto più dopo il crollo dell’URSS del 1991, da Berlino a Vladivostock e tanto più ancora più a Occidente, abbiano fallito. E non per caso.
A mio parere c’è stata una sola corrente che, pure dopo il 1927, abbia seriamente provato a riprendere e aggiornare profondamente il discorso del socialismo come antagonismo proletario per il potere diretto dei lavoratori stessi: l’operaismo marxista, in Italia da Foa e Panzieri a Mario Tronti e, anche dopo il ritorno di Tronti al PCI (ma nel contesto pure Pierre Carniti e Bruno Trentin avevano dato un apporto di prim’ordine), il filosofo politico Antonio Negri. La vicenda politica ed umana di questo filosofo della politica preteso “rivoluzionario” è stata gravemente contigua, e in parte certo connivente, con il terrorismo di sinistra, ed è stata segnata da tanti anni di prigione scontati dal personaggio, e da me è sempre stata totalmente respinta; ma è stata pure accompagnata via via da un’elaborazione dottrinaria sempre da prendere con le molle, però a mio parere da studiare e meditare profondamente, come tutto l’operaismo e post-operaismo marxista, sino a testi recentissimi. L’operaismo marxista, infatti, è stato la sola corrente socialista-comunista che sin dalla sua “rinascita” in Italia intorno al 1958[11], e poi sempre in seguito, abbia rifiutato l’aut-aut tra comunismo burocratico, stalinista e post-stalinista (autoritario o anche socialdemocratizzato) e socialdemocrazia riformista. Ma anche per quella via la rivoluzione operaia in Occidente non è venuta fuori, né tantomeno la rivoluzione mondiale. Nelle sue fluviali, sebbene interessantissime, memorie, Toni Negri, nell’ultimo volume, aveva un bel lamentarsi quasi con stupore della scomparsa quasi completa dei “comunisti” marxisti nel nostro tempo, ma si dovrebbe essere stupiti perché qualcuno “vero” di loro, che non sia semplicemente un nostalgico da strapazzo delle dittature della burocrazia sovietica, ci sia ancora.
Siamo in uno scenario in cui non solo non c’è più il preteso comunismo burocratico di stato crollato nel 1989/1991 da Berlino a Vladivostock, ma il proletariato come classe operaia è addirittura diventato una piccola minoranza sociale di lavoratori più o meno specializzati, nell’era tecnologica dell’automazione e dell’Intelligenza Artificiale.
A ciò l’operaismo marxista (e il post-operaismo), ha reagito in un triplice modo. Ai primi due modi accenno soltanto perché esulano dal nostro tema.
Nella società capitalistica avanzata, il Capitale ormai sarebbe dovunque, non più incentrato nelle fabbriche (come se tutta la società fosse diventata fabbrica capitalistica, e la contestazione proletaria, perciò, fosse dappertutto e in nessun luogo specifico, connotata dal cosiddetto “operaio sociale”, in rivolta manifesta o latente ovunque, con atti che stravolgono le “leggi” pretese dell’economia ben prima che si attui la cosiddetta rivoluzione proletaria, e connesso venir meno non solo della defferenza marxiana tra proletariato e sottoproletariato, ma pure tra l’atto eversivo del libertario e quello del rivoluzionario, in sostanza tra comunismo e anarchia ). Questo dall’operaismo marxista di sinistra era già stato colto verso il 1978, dimostrand per assurdo lo scacco dello stesso operaismo marxista.
Di conseguenza il vero antagonismo sarebbe dappertutto, in una sorta di insubordinazione, violenta e non violenta, a tutti i livelli, in cui i proletari, che ormai sono un tutt’uno con i sottoproletari, compiono atti eversivi continui che stravolgono di proposito, o comunque “di fatto”, il funzionamento del sistema dominante. Fanno di fatto la rivoluzione (atti rivoluzionari), rendendo anomica l’economia capitalistica: quasi a conferma del bel paradosso “orientaleggiante” di Mao: “Grande è la confusione sotto il cielo: la situazione rivoluzionaria è eccellente”. I proletari prendono le cose, le merci, le case, e spezzano la disciplina sociale. Le “leggi” dell’economia sono stravolte. Sarebbe tutto dentro un processo rivoluzionario, attuale e di lunga durata, e mondiale. Also sprach Toni Negri.
Mentre una parte del terrorismo era marxismo-leninismo in pillole, imitazione casereccia e però orrendamente sanguinosa dei modelli cinese o cubano o persino sovietico, “l’autonomia operaia” ragionava (o sragionava) come ho detto.
Alla fine, tardivamente, dopo tanti fallimenti e inutili e prolungati imprigionamenti, Negri, con il suo alter ego americano Michael Hardt, ha anche provato a volgere in chiave più costruttiva il discorso del primato della lotta nel sociale, valorizzando pure il cooperativismo ugualitario e il mettersi insieme dal basso, come in Assemblea.[12]
Ma qui m’interessava il dato internazionale. Ora va ricordato che un punto chiave dell’operaismo marxista, in ciò persino suo malgrado contiguo al Marcuse di L’uomo a una dimensione (1964)[13], era costituito – nel quadro delle illusioni e ripulse verso il neocapitalismo negli anni Sessanta del Novecento – dall’idea che ormai il capitalismo col suo riformismo potesse dominare tutto, fuorché l’antagonismo operaio (che infatti era quello che si voleva scatenare contro il sistema). Ma a un certo punto si vide che di lì la “rivoluzione” non arrivava (come per altro si era già visto nel primo dopoguerra, e sarebbe bastato a capirlo, con più onestà intellettuale sulle ragioni “più vere” della “rivoluzione mancata”); e non sarebbe arrivata, nonostante i miglioramenti sociali che si ottenevano e furono ottenuti, ad esempio in Italia dal 1968 al 1978.
Allora invece di abbandonare la teoria smentita dalla realtà – con un modo di fare che Popper aveva già stigmatizzato negli storicismi come il marxismo e ahinoi nella psicoanalisi – si riadattò la teoria per renderla riproponibile.[14]
Lo si fece in primo luogo dilatando sino all’inverosimile una tendenza che c’era già in Marx, ma che tramite l’antropologismo “scientifico” di Lévi-Strauss e pure di Foucault, è stata quasi assolutizzata: lo strutturalismo. Esso ci dice che ogni sistema è condizionato in modo nullo o irrilevante dai decisori, perché opera più o meno come il nostro corpo, o universo. Tu puoi non sapere come funziona l’intestino o il cervello o il tuo occhio, ma quelli hanno i loro dinamismi, la loro ratio inerente (quel che i metafisici chiamavano “principio di ragion sufficiente”). Così la rivoluzione proletaria può non sembrare operante affatto, ma sotto sotto sta lavorando “con metodo”, “come una vecchia talpa”, diceva Marx nella famosa pagina di Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte (1852). Così Althusser, attribuendo l’idea a Lenin stesso (in Lenin e la filosofia, del 1969), diceva che la storia, come già nel Capitale di Marx, è “senza soggetto”: accade e si fa, in specie tramite gli automatismi economici; ma non è “fatta” da questo o quello, se non superficialmente. Accade quel che deve e può accadere. E perciò si può dire che il rivoluzionario ha ragione perché nel fondo del fondo la rivoluzione continua (continuerebbe) sempre.
Inoltre si ritenne che se il proletariato – inteso marxianamente come tutta la gente che ha venduto o vorrebbe vendere la propria merce – l’energia lavorativa, la forza lavoro – sul mercato, per campare, cioè la classe dei lavoratori salariati o salariabili – non faceva la rivoluzione o qualcosa di simile, si poteva mutare la nozione di proletariato, identificandolo con le masse diseredate del mondo, cioè con quelli che Fanon aveva chiamato “i dannati della terra”[15], ossia con la “moltitudine” dei diseredati, dei poveri, dei miseri: spiandone i continui movimenti tellurici, di rivolta, in questo o quel punto del globo. L’idea era sempre quella che il capitalismo si autoregola sempre più, come una sorta di organismo unitario di miliardi di cellule interconnesse, salvo che nella massa omogenea proletaria che “di fatto”, sapendolo o meno, non sta al gioco: massa ora costituita da innumerevoli persone analogamente spremute che, sapendolo o meno, rovinano sempre la festa del Capitale, in attesa che i “fochi” della rivolta diventino il grande incendio rivoluzionario del mondo.[16]
In tutto il ragionamento, forse dall’inizio della tendenza, c’è persino un fondo liberista, oltre che libertario, che tende a vedere all’opera qualcosa di molto simile alla mano invisibile che per Adam Smith sembra dirigere il mercato privatistico (nel senso che evidentemente per lui si autodirigeva)[17]. Ci sarebbe la “mano invisibile” del Capitale, ma pure quella del proletariato che lo deve dissolvere per campare.
Così in un saggio best seller che all’uscita io recensii sulla rivista degli studiosi della storia del pensiero politico (“Il pensiero politico”), Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione (2000), Negri e Hardt sostennero che ormai il mondo capitalistico è globale e si autoregola. Presupporrebbe una sorta di poliedro, però unitario, di poteri sovranazionali, di cui fanno parte banche, Grandi Stati, agenzie dell’ONU, eccetera. Le vere guerre in tale quadro sarebbero impossibili (sarebbero ormai operazioni di polizia internazionale contro chi spezza l’ordine omeostatico del Capitale mondiale), che però urta (urterebbe) sempre di più con la resistenza delle moltitudini oppresse. Queste, però, a quanto a me pare palmare possono solo fare delle jacqueries, episodi o atti di rivolta come quelli delle banlieux parigine, che poco incidono sul sistema, tanto che alla fine, nei pochi casi riusciti di rivolta delle moltitudini, ad esempio in Sud America, arriva il solito dittatore populista (in genere economicamente, oltre che in termini di libertà, del tutto perdente, se non economicamente disastroso). Inoltre è necessario perdere tempo a dimostrare che il mondo è di nuovo precipitato nell’era delle guerre vere e proprie anche tra Stati?
Il lettore si chiederà, a questo punto, che c’entri tutto questo con le guerre che tolgono ora il sonno al mondo, in Medio Oriente o tra Russia e Ucraina, per tacere delle altre.
A dire la verità non c’entra niente, ma lo spiegarlo serve a sgombrare il campo dall’illusionismo sull’autonomia della sfera economica rispetto allo Stato; sull’abbattimento dello Stato (che invece risulta sempre o struttura primaria, o “comprimaria”, nella Storia: Stato che non si può affatto abbattere senza provocare immani disastri). E, così, possiamo ora passare oltre, mettendo però nel nostro “pagliaio” questi due tesoretti: che l’economia non determina la vita dello Stato, il quale o la domina o comunque è pure per essa decisivo, sicché o è esso la struttura, o è esso pure struttura, come se la storia avesse un motore nella società civile e uno sovraordinato, lo Stato; e che abbattere lo Stato non conviene affatto, perché i guai che si provocano sono colossali, e poi quello rinasce sulle “proprie” ceneri “più forte che pria”. Non mi pare poco. L’ulteriore analisi su guerra e pace nel mondo, di ciò dovrà ora fare tesoro.
Infine anticipo che tale conclusione non liquida affatto l’istanza post-capitalista e persino anticapitalistica, dato il mondaccio che ci ritroviamo; ma questa “Grande Riforma” o Rivoluzione a mio parere non dovrà più passare attraverso l’abbattimento dello Stato-macchina (anche se la sua forma di governo liberaldemocratica è la meno peggiore e la più produttiva in esso); piuttosto ha a che fare con il buon funzionamento, o governabilità, dello Stato che si abbia, e però anche sulla nascita di forme di vita nuova, libera e autogestita, nella società civile. Quest’ultima annotazione la propongo a mo’ di “post scriptum”, per ora come mera dichiarazione d’intenti, perché richiederebbe una trattazione a parte.
di Franco Livorsi
(Segue)
- Per una breve classica esposizione della teoria su struttura e sovrastruttura è sempre decisiva la Prefazione di Karl MARX al suo Per la critica dell’economia politica (1859), Editori Riuniti, 1959. L’idea era molto enfatizzata da Friedrich Engels nell’Introduzione alla terza edizione del libro di Marx Le lotte di classe in Francia (1850), del 1895, come emerge chiaramente in: K. MARX, Le lotte di classe in Franca dal 1848 al 1850 (1850), a cura di G. Giorgetti, Editori Riuniti, Roma, 1962. La precisazione di Engels, forse più fuorviante che chiarificatrice, sulla dipendenza della sovrastruttura dalla struttura (economica) “solo in ultima istanza”, era in una lettera sul materialismo storico di Engels a J. Bloch del 21 settembre 1890, che si può leggere in: MARX-ENGELS, “Opere scelte”, a cura di L. Gruppi, ivi, 1966, pp. 1242-1244. Ho discusso questo punto decisivo in: F. LIVORSI, Note su struttura e sovrastrutture, “Il pensiero politico”, a. XIX, n. 3, 1987, pp. 395-400, da me ripreso col titolo: Tesi su struttura e sovrastrutture nel mio: Stato e libertà. Questioni di storia del pensiero politico, Tirrenia Stampatori, Torino, 1992, pp. 303-308. Sono molto tornato su questi temi anche in: Il Rosso e il Verde, L’idea della liberazione sociale, ecologica e spirituale dal XIX al XXI secolo, Golem Edizioni, Torino, 2021, con molte parti anticipate su “Città Futura on line”. ↑
- LENIN, L’imperialismo fase suprema del capitalismo (1916), cit. ↑
- K. MARX, La guerra civile in Francia (1871): con questo scritto, e Prefazione, F. Engels raccoglie gli indirizzi di Marx, come presidente dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori (Prima Intenazionale), rivolti a caldo alla Comune di Parigi e che contengono questa teoria dello Stato “operaio”, ritenuta desunta dagli eventi della Comune stessa. Questi testi sono pure, con altri scritti intitolati “L’Internazionale e la Comune di Parigi” (1864/1874), in: K. MARX – F. ENGELS, Il partito e l’Internazionale, tr. di P. Togliatti, Edizioni Rinascita, Roma, 1953, pp. 99-218. Il libro di LENIN Stato e rivoluzione. La dottrina marxista dello Stato e i compiti del proletariato nella rivoluzione (1917, ma 1918), è in “Opere complete”, Editori Riuniti, ivi, 1967, vol. XXV, pp. 361-477, è in gran parte un commento attualizzante, rispetto alla Rivoluzione bolscevica prossima, dei testi marx-engelsiani citati. ↑
- E. BERNSTEIN, I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia (1899), a cura di L. Colletti, Laterza, Bari, 1968. ↑
- Si vedano tutte le pagine su Lenin (“Ilic”) nei Quaderni del carcere (1929/1935, ma postumo, in edizione tematica dal 1948 al 1955) e critica, dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana, Einaudi, 1975, quattro volumi (in specie sulle “Note su Machiavelli”). ↑
- Sono da vedere le “Opere complete” di Lenin in 35 volumi edite dagli Editori Riuniti a Roma, ma pure “Opere scelte”, ivi, in due volumi, con tutte le opere fondamentali. Ma si vedano pure con attenzione: J. DEGRAS, Storia dell’Internazionale Comunista attraverso i documenti ufficiali (1971), Feltrinelli, 1975; A. AGOSTI, La Terza Internazionale. Storia documentaria, Editori Riuniti, Roma, 1974, I. ↑
- N. MACHIAVELLI, “Tutte le opere”, secondo l’ed. di M. Martelli (1971), Introduzione di M. Ciliberto e coordinamento editoriale di P. D. Accendere, Bompiani, Milano, 2018. Per secoli Machiavelli è stato letto tutto assumendo come punto focale “Il Principe”, come ancora in L. RUSSO, Machiavelli, Laterza, 1945. Oggi si enfatizza come chiave il Machiavelli dei “Discorsi” (vedendolo come il primo grande rappresentante moderno del repubblicanesimo democratico), come in: M. VIROLI, Il sorriso di Niccolò, Storia di Machiavelli, Laterza, 1998. Verso il 1995 Viroli venne a Torino a illustrare le sue tesi al Dipartimento di Studi Politici. Siccome è nato, come Mussolini, a Forlì (e credo anzi persino a Forlimpopoli, vicino a Predappio), interloquendo scherzosamente nei “pour parler”, al Bar, io gli dissi che era originario della “terra in cui è facilissimo confondere la repubblica con il principato”. ↑
- Fiorite primavere del capitale, “il programma comunista”, 19 febbraio – 4 marzo 1953, ma lo si veda pure in: A. BORDIGA, Scritti scelti, a cura di Franco Livorsi, Feltrinelli, Milano, 1975, pp. 244-256. L’espressione sulla rivoluzione d’Ottobre come primo caso di grande rivoluzione “che si rincartoccia” è in un epistolario del 1951 tra Bordiga e Onorato Damen, in: O. DAMEN, Amadeo Bordiga, Validità e limiti di una esperienza, Milano, Epi, 1971. Naturalmente rinvio pure al mio libro: Bordiga. Il pensiero e l’azione politica, Editori Riuniti, 1976, che però sarebbe da integrare con altri miei saggi in proposito, e soprattutto col mio saggio: Scienza e politica in Amadeo Bordiga. La critica dell’opportunismo, il settarismo e il determinismo, “Il Risorgimento” (rivista dell’Istituto per la storia del Risorgimento di Milano), a. LVII, n. 2-3, 2005, pp. 263-302, appendice ideale al mio libro del 1976 perché contiene la mia valutazione più meditata su Bordiga. ↑
- F. LIVORSI, Socialismo e libertà nel mondo di Gorbaciov, “Il Ponte”, a. XLVI, n. 6, giugno 1990, pp. 19-49. ↑
- L. TROCKIJ (L. Bronstein), La rivoluzione tradita (1936), Schwarz, Milano, 1956; La rivoluzione permanente (1928), Oscar Mondadori, 1971. Su Trockij si veda ancora la grande biografia: I. DEUTSCHER, Il profeta armato. Trotsky: 1879-1921 (1949), I; Il profeta disarmato. Trotsky. 1921-1949 (1961), II; Il profeta esiliato: Trotsky, 1929-1940, III (1963), Longanesi, Milano, 1956/1969. E soprattutto: P. BROUÉ, Trotsky (1988), e col titolo: La rivoluzione perduta. Vita di Tockij (1879-1940), Bollati Boringhieri, Torino, 1991. ↑
- Il primo testo importante furono le Tesi sul controllo operaio di Raniero Panzieri e Lucio Libertini comparse sul mensile del P.S.I. “Mondo operaio” nel 1958, subito criticate sull’”Unità” e “Rinascita” da Paolo Spriamo ed altri comunisti.Qui parlo di “rinascita” dell’operaismo marxista perché già il sindacalismo rivoluzionario dei primi quindici anni del ‘900 anticipa la tendenza. ↑
- V. FOA, Per una storia del movimento operaio, Einaudi, 1980; Il cavallo e la torre. Riflessioni di una vita, ivi, 1991; “Quaderni rossi”, rivista di Panzieri e poi dei suoi continuatori edita a Torino dal 1961 al 1966, con ritmo semestrale; “Classe operaia”, mensile diretto da Mario Tronti nel 1964/1966; R. PANZIERI, Dopo Stalin. Una stagione della sinistra. 1956-1959, a cura di S. Merli e L. Dotti, Marsilio, Venezia, 1986; R. PANZIERI, Lettere. 1940-1964, a cura di S. Merli e L. Dotti, ivi, 1987; M. TRONTI, Operai e capitale, Einaudi, 1966; Il politico. Antologia di testi, Feltrinelli, 1979; Dello spirito libero. Frammenti di vita e di pensiero, Il Saggiatore, Milano, 2015. Si vedano pure, su “Città Futura on line”, i miei articoli: Operai e capitale nell’Italia in cammino: il punto di vista di Mario Tronti (3 dicembre 2023), Operai e capitale nell’Italia in cammino: il punto di vista di Mario Tronti (3 dicembre 2023), Comunismo italiano, “autonomia del politico” e spirito libero nel pensiero di Mario Tronti (3 dicembre 2023). Ma si vedano: A. NEGRI, Dall’operaio massa all’operaio sociale. Intervista sull’operaismo, a cura di P. Pozzi e R. Tomassini, Multhipla, Milano, 1975, che chiarisce in modo esemplare idee e storia della corrente; con M. HARDT, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, 2000; Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale, ivi, 2004; Assemblea (2017), Ponte alle Grazie, Milano, 2018. Si legga pure la fluviale autobiografia, che è interessante non tanto per la vita in sé di Negri o per la stessa storia della sua microfrazione (che pure hanno il loro senso – però, per la Storia, minimo: vita e storia di cui evidentemente, e umanamente, Negri sopravvalutava decisamente l’importanza) quanto perché finisce per discutere abbastanza diffusamente e profondamente tutte le idee e opere importanti del pensiero marxista e libertario europeo, in specie italiano e francese. L’autobiografia – Storia di un comunista (ma prima, e non a caso, Negri, come si evince chiaramente, seppure di scorcio, era stato molto cristiano, dirigente importante dell’Azione Cattolica, e poi socialista di sinistra persino segretario della Federazione del PSI di Padova) – è comparsa, a cura di G. De Michele, presso Ponte alle Grazie di Milano, nel 2015 (I), 2018 (II) e 2020 (III). In quest’ultimo volume – Da Genova a Torino. Storia di un comunista – si manifesta appunto un certo stupore, di cui si è detto, per la scomparsa dei comunisti. ↑
- Einaudi, 1967. ↑
- K. POPPER, Miseria dello storicismo (1944-1945), a cura di C. Montaleone e con Introduzione di S. Veca, Feltrinelli, 1988. ↑
- L. ALTHUSSER, Lenin e la filosofia (1969), Jaca Book, Milano, 1969. Si tratta della “questione della personalità nella storia”, su cui, nella stessa direzione impersonalitica (o non-personalistica) vi sono stati importanti apporti di Engels, di Plechanov e di Amadeo Bordiga.Per l’ipervalorizzazione rivoluzionaria delle masse diseredate del mondo specie a partire dalla loro pelle nera (la “negritudine”), si veda: F. FANON, I dannati della terra (1961), Einaudi, 2000. ↑
- Seguendo questo ragionamento si potrebbe dire che il proletariato, sempre antagonistico nel profondo, dal punto di vista borghese incarna le cellule tumorali che cercano di distruggere l’organismo (capitalistico), mentre dal punto di vista dei lavoratori e di chi vive del lavoro rappresenta gli anticorpi che difendono l’organismo collettivo dal tumore maligno capitalistico che lo distrugge. ↑
-
A. SMITH, La ricchezza delle nazioni (1776), a cura di A. Graziani, Bollati Boringhieri, Torino, 1969.
Potrei documentare questa valorizzazione dell’autoregolazione delle forze produttive, “girata” in senso operaistico, in decine di passaggi delle opere citate di Negri (o di Hardt-Negri). ↑
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