Cinque vie alla pace nel mondo nella storia del pensiero politico: III) Il realismo nazionalista

Ora vorrei provare ad esplorare – su guerra, e soprattutto pace, mondiale – tre forme di pensiero che considero di tipo realista: il realismo che chiamerò “nazionalista”; il realismo che dirò conservatore, illiberale e liberale; e, infine, il realismo democratico e federalista. Non sfuggirà il fatto che non ho chiamato “realista” né l’approccio pacifista cristiano né quello internazionalista proletario, su cui già mi sono soffernato. E non per caso.

Preciso, però, che utilizzo il termine “realismo” non tanto come sinonimo di concretezza o fattibilità delle idee che si abbiano, ma al modo assolutamente corrente nel pensiero politico, ossia come maniera di ragionare che privilegia su tutto la considerazione dei rapporti di forza. Il realista politico non perde tempo, o non perde troppo tempo, a vedere chi abbia ragione, ma vede come si possa fare a vincere nelle lotte della vita e della storia. Per lui le altre considerazioni vengono tutte “dopo”, e spesso connotano i “poveri illusi”. Sa infatti bene che pure il suo avversario farà altrettanto. Se non fa così mostra solo – come dice Machiavelli – di essere uno che “non se ne intende”. Il buon realista lo fa per la parte, idea, classe o nazione in cui creda, tutto stravolgendo per far vincere la sua area (e sé stesso con essa); ma legioni di mezze calzette sono pronte a tutto per un avanzamento di carriera o per quattro soldi (pòuri diàu).

Il realismo politico, che è sempre persino troppo attento al rapporto di forza, ha una lunga storia che va dal primato del “politico” di Machiavelli, politico che per fondare, mantenere ed espandere lo Stato può compiere azioni efferate, almeno secondo Il Principe (1513, ma 1532)[1]; all’idea della sovranità dello Stato come un che di indivisibile, per non spezzare lo Stato stesso, precipitando tutto nell’anomia, come uno che faccia a pezzi la chiglia della nave con cui attraversa i mari: sovranità indivisibile, assoluta e perpetua del “sovrano” teorizzata, nel 1576, in De la république (“lo Stato”) da Jean Bodin, come pensatore “politique”, per porre lo Stato stesso fuori e sopra la lotta delle fazioni, allora in Francia tra cattolici e protestanti calvinisti (“ugonotti”)[2]; alle teorie espresse in Della ragion di Stato dal gesuita piemontese Giovanni Botero e, in I ragguagli del Parnaso, da Traiano Boccalini, pensatori dell’assoluto primato dello Stato, allora assolutista, nella vita collettiva, anche al di sopra della morale se necessario, come condizione fondamentale per il bene comune, anche economico oltre che di pace interna e di potenza esterna[3]; all’idea dello Stato come sola possibilità di evitare “la guerra di tutti contro tutti” (il bellum omnium contra omnes), ossia la condizione homo hominis lupus ritenuta propria della natura egoistica dell’uomo naturale (allo “stato di natura”, in cui si riprecipiterebbe necessariamente durante ogni guerra civile, per la morte temporanea dello Stato), secondo il Leviatano (1651) dell’assolutista Thomas Hobbes[4]: sino – in epoca di Restaurazione, post-napoleonica – alla teoria dello Stato come normatore etico al di sopra dei nuclei familiari naturali e dei conflitti “selvaggi” della società civile ove quest’ultima – detta talora “bestia selvaggia” e che è innanzitutto l’economia reale – non sia disciplinata dallo Stato stesso, propria di Hegel in Lineamenti di filosofia del diritto (1821)[5].

Ma tutti questi passaggi, intrisi di realismo politico, ruotano attorno alla centralità dello Stato moderno, col suo esclusivo potere sovrano, mentre – fermo restando lo statalismo autoritario, almeno per l’approccio nazionalista – a un certo punto emerge con forza un’altra dimensione decisiva ulteriore: il patriottismo (nel XIX secolo soprattutto di liberazione nazionale da un dominatore straniero), che soprattutto in tutto il XX secolo diverrà imperialistico, e che sarà meglio definito, piuttosto che col termine patriottismo, col termine nazionalismo. Ma già nel patriottismo, che pure è termine più congruo a definire l’ipervalorizzazione della propria patria da liberare da potenze straniere, è latente qualche traccia di nazionalismo (sol che si pensi all’”elmo di Scipio” del patriota repubblicano Mameli, autore del nostro inno nazionale, composto nel 1847).

Comunque in linea di tendenza, in tutti i passaggi sin qui indicati, il soggetto principale non era il cittadino, non era la nazione, ma lo Stato. Andando a grandi linee si può dire che sino al 1789 non era stato lo Stato ad afferire al cittadino, almeno nell’Europa continentale, ma era stato il cittadino ad afferire allo Stato, tanto che spostandosi i confini degli Stati coi trattati, e le diverse attribuzioni di regni, mutava pure l’appartenenza nazionale del cittadino stesso, e per secoli ciò era parso ovvio. Ma nel 1789 inizia la Rivoluzione francese e, con essa, comincia a nascere il patriottismo “spinto”. Chi non ricorda l’inno della Francia, il canto dei volontari di Marsiglia del 1792 contro gli Stati d’Ancien Régime” schierati contro la Rivoluzione, La Marsigliese, con quel formidabile attacco “Les enfants de la patrie”? Lì l’appartenenza è diventata in primo luogo appartenenza alla patria, cui lo Stato da allora prende sempre più ad afferire almeno idealmente (o di fatto o almeno giuridicamente, con la “legge uguale per tutti” a prescindere dal ceto, perché lo Stato da allora trae il suo valore dal suo incarnare, o meno, in una forma o nell’altra, la volontà generale dei suoi cittadini – ossia il cittadino “collettivo” almeno ideale – in tutte le forme di governo, ma in specie nelle democrazie, che infatti, quasi sempre, alla fine della fiera vincono la partita con le potenze autoritarie, che sembrano sempre più forti, mentre il più delle volte risultano, guarda caso, più deboli[6]).

All’inizio del XIX secolo, proprio contro l’imperialismo rivoluzionario, o riformista “borghese”, di Napoleone “imperatore”, l’idea di patria dilagherà, specie a partire dai Discorsi alla nazione tedesca di Fichte (1807-1808), in cui il patriottismo si esaspera, ma dentro un nazionalismo ancora di liberazione nazionale (allora dalla Francia). Lì nazionalismo è ancora sinonimo di patriottismo, tra l’altro in primo luogo culturale e spirituale. Non c’è ancora il nazionalismo del – e dal – secolo successivo: imperialista e razzista, nonostante quel che dice parlando di Fichte ad esempio un noto manuale di storia del pensiero politico scritto da un francese (J. J. Chevallier[7]). Ma subito, dietro il patriottismo, emerge appunto il nazionalismo, che in sostanza è il patriottismo diventato imperialistico. Spesso lo si vede ad occhio nudo. Ad esempio in Italia il vero protagonista siciliano dell’impresa dei Mille del 1860, Francesco Crispi, già mazziniano fervente, convintissimo ed esemplare, e decisivo per l’impresa di Garibaldi, diverrà poi il primo “uomo forte” di governo e mancato conquistatore dell’Etiopia[8], anticipando Mussolini. Ma qual è il passaggio fondamentale dal patriottismo al nazionalismo nella storia pregressa, in termini di evoluzione (o involuzione) delle idee politiche?

Non lo è tanto il patriottismo imperialistico napoleonico, ancora pieno di tratti illuministi, da nuovo ordine dispotico cosmopolita, da “sacro romano impero” semplicemente imborghesito, emancipatosi dai preti e dalla vecchia nobiltà, in marcia da Parigi a Mosca, e purtroppo sconfitto. Un impero più o meno mondiale con capitale a Parigi non sarebbe stato tanto male, come ha detto di recente lo storico divulgatore Alessando Barbero.

Il nazionalismo novecentesco, imperialistico, arriva, piuttosto, nell’ultimo ventennio dell’Ottocento, attraverso la grande colonizzazione di Africa e Asia da parte delle potenze occidentali diventate modernamente capitalistiche. Ma su ciò qui, in riferimento al pensiero politico, mi interessa la cultura coeva, la cultura del nazionalismo imperialistico (il suo pensiero politico), che in sostanza fu il darwinismo sociale, cioè l’applicazione del principio darwiniano dell’evoluzione delle specie attraverso la lotta per la vita, mediante selezione naturale, dalla biologia alla società umana, e allo Stato e relazione tra Stati.[9]

La borghesia capitalistica, dopo aver liquidato in modo sanguinosissimo l’ultima rivoluzione del ciclo 1789-1871 (una tentata rivoluzione proletaria dopo la disfatta di Napoleone III a Sédan, la Comune di Parigi), ormai sicura dei fatti suoi andava alla conquista di Africa e Asia tramite l’imperialismo coloniale, in base ad una pretesa superiorità biologica su razze pretese inferiori (per nazionalisti, e poi fascisti e nazisti), o quantomeno “primitive” e da subordinare ed educare, secondo il pensiero liberale del tempo, per il loro stesso bene. Ho detto “borghesia”, ma se vogliamo di Stato moderno capitalistico per me va bene lo stesso.

Nel nazionalismo, fascismo e nazismo era sempre sotteso il darwinismo sociale, cioè l’indebita applicazione del darwinismo dalla biologia alla politica. La si trova teorizzata in forma liberista in Spencer. La si trova in Kipling, il grande e umanissimo scrittore dell’imperialismo inglese più deciso (per quanto lo scrittore fosse pure nato, e innamorato, dell’India). Ma da ottimo nazionalista inglese (morto nel 1936) fece in tempo ad ammirare Mussolini e al principio, ma subito pentendosene, pure Hitler.[10]

L’approccio dottrinario politico nazionalista (imperialista) si trova espresso nella Politica di Heinrich von Treitschke, che è vero e proprio pensiero politico del nazionalismo imperialistico guglielmino germanico.[11] Lo si trova poi in Hitler, il cui proposito deliberato era proprio quello di essere per il nazionalismo quello che Lenin era stato per il comunismo. Invece dell’economia critica come scienza della pretesa necessaria fine del capitalismo (Marx e Lenin), si aveva, in Hitler, un biologismo pseudoscientifico, che sostituiva alla lotta tra le classi una cosiddetta lotta biologica tra razze pretese superiori e pretese inferiori nella storia, e anche dentro ogni Paese: etnie pretese inferiori da piegare, asservire e in condizioni estreme sterminare (come l’ebraica)[12]. Tutto ciò è pure “realismo” politico nel senso di visione per cui la sola cosa che conti sono i rapporti di forza: mors tua vita mea. Anche se come si vedrà questo realismo assoluto non è mai realistico (ora pure a dispetto di Putin, e, nonostante l’ovvio antinazismo ebraico, pure di Netaniahu).

Ora va notato che nel nazionalismo novecentesco, oltre al darwinismo sociale di cui si è detto, si ha pure una strana mescolanza con l’idealismo della destra hegeliana[13]. Parrebbero tendenze antitetiche, e in Italia in gran parte lo furono (neoidealismo contro positivismo), ma la miscela tra nazionalismo biologico e statalismo hegeliano di destra spesso “di fatto” fu forte, insopprimibile nel nazionalismo.

Nel nazionalismo, e poi nel fascismo, statalismo “forte” apologeta dello Stato come coscienza incarnata dei cittadini (idealismo hegeliano) e positivismo “di destra” (evoluzionismo biologico applicato alla lotta dei popoli) si danno la mano. Ad esempio questo si vede bene in un giurista di primissimo ordine passato dal Nazionalismo al Fascismo: Alfredo Rocco, l’autore del famoso Codice Penale del 1930. La sua visione dello Stato è quella di un hegeliano di destra, ma la sua visione complessiva, come quella dell’Associazione Nazionalista delle “camicie azzurre” di cui faceva parte dal 1910, confluita nel febbraio 1923 nel Partito Nazionale Fascista, è appunto darwinista politica: imperialista coloniale e antidemocratica, come quella di Enrico Corradini. Lì la forza si fa diritto, preteso diritto, tanto più tra popoli pretesi superiori e pretesi inferiori.[14]

In realtà il fascismo ha una storia molto complessa, e anche ondivaga, e un’ideologia articolata da studiare, irriducibile alle storie per spaventare i bravi bambini che oggi vanno di nuovo per la maggiore, ma questo complesso tema esula dalle questioni sulla guerra e soprattutto pace mondiale che in queste riflessioni vorrei avant tout trattare.

Piuttosto vorrei concentrarmi su due grandi temi, che emergono nel nazionalismo e nei fascismi e post-fascismi: 1) L’estetizzazione del realismo politico (dirò poi in che senso); 2) l’idea di pace nel mondo o nuovo ordine mondiale, come si è evoluta da Hitler al notevole giurista, per tutti geniale, ma non per questo meno reazionario e compromesso col nazismo sino al midollo, Carl Schmitt).

A me sembra che nei fascismi accada uno strano fenomeno, che credo sia da rapportare da un lato alla cultura “darwinista” positivista della lotta a morte per la vita indebitamente applicata alla storia umana, e dall’altra al combattentismo volontario e comunque entusiasta, da “camerati”, di chi aveva fatto la Prima guerra mondiale per così dire col coltello tra i denti, e comunque con forte convinzione che fosse la continuazione del Risorgimento: l’assumere come bellissimo ideale, iper-realistico, conforme alle dure leggi della vita come guerra degli esseri viventi, quello che per quasi tutti i pensatori di cui ho detto da Machiavelli a Hegel era stato al più una dura necessità della storia: la logica del salvare, o fondare, o rifondare lo Stato anche con la forza e ad opera del Capo; l’essere antidemocratici e totalitari persino per principio; il non fare alcun conto dei freni morali; la disposizione a contraddirsi, smentirsi, ingannare, aggredire, uccidere come se fosse la cosa più “naturale”, e spesso “bella”, del mondo; una sorta di fascinazione del sangue (ecco l’estetizzazione del “realismo” politico). Già si intravede nel Manifesto del Futurismo del 1909, non in tutto quel che può essere stato in quel movimento culturale un’importante valorizzazione della rottura col passato, ma laddove si diceva, al punto 9: “Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna”.[15] Ma poi, nel testo importantissimo Fascismo per la Treccani, del 1932 – tutto firmato da Mussolini, che scrisse la parte sul movimento politico, affidando quella sulla “Dottrina del fascismo” al filosofo neoidealista (neo-hegeliano) Giovanni Gentile, che scrisse per lui, certo discutendo insieme – non solo si rivendica apertamente il carattere antidemocratico e totalitario del fascismo, ma si dice: “Anzitutto il fascismo, per quanto riguarda, in generale, l’avvenire e lo sviluppo dell’umanità, e a parte ogni considerazione di politica attuale, non crede alla possibilità né all’utilità della pace perpetua.” (Questo naturalmente era contro il piccolo prezioso libro di Kant del 1795 Per la pace perpetua). “Respinge quindi il pacifismo, che nasconde una rinuncia alla vita e una viltà – di fronte al sacrificio. Solo la guerra porta al massimo di tensione tutte le energie umane e imprime un sigillo di nobiltà ai popoli che hanno la virtù di affrontarla. Tutte le altre prove sono dei sostituti, che non pongono mai l’uomo di fronte a sé stesso, nell’alternativa della vita e della morte. (…) Questo spirito antipacifista, il fascismo lo trasporta anche nella vita degli individui. L’orgoglioso motto squadrista ‘me ne frego’ scritto sulla benda di una ferita” – motto in realtà degli arditi della Grande Guerra – “è un atto di filosofia non soltanto politica; è l’educazione al combattimento, l’accettazione dei rischi che esso comporta; è un nuovo stile di vita italiano. Così il fascista accetta, ama la vita, ignora e ritiene vile il suicidio; comprende la vita come dovere, elevazione, conquista: la vita che deve essere alta e piena: vissuta per sé, ma soprattutto per gli altri vicini e lontani, presenti e futuri”.[16] E qui, alla fine, si sente proprio la mano del filosofo dell’atto puro, Gentile.

Qui interessano molte cose. È chiaro l’ideale del combattente. E questo è importante non solo per capire la mania delle armi persino di taluni politici d’area che si gingillano con esse pure oggi a Natale, ma il fatto che fascismo e nazismo nascono da un humus volontariamente combattentistico, tanto che sarebbe stato assolutamente impossibile che tali movimenti prendessero forma di massa consistente senza la Grande Guerra, che è la vera cesura del Novecento, pure più delle rivoluzioni (socialiste) e delle rivoluzioni contro le rivoluzioni (fascismi), ulteriori. Ma spiega pure tutta quella tendenza dei fascismi a gettarsi in guerre senza che fosse minimamente indispensabile, come in Africa (1935-1936) o in Spagna (1936-1939) e persino nel 1939 o 1940, come se fosse normale risolvere con la guerra i conflitti politici, dentro gli Stati (contro un preteso nemico interno, preteso antinazionale) e tra gli Stati (contro il nemico esterno). Qui c’è una differenza veramente fondamentale tra il realismo politico classico o conservatore, di cui dirò in seguito, e quello nazionalista e fascista. Il primo faceva delle guerre come extrema ratio.

Qui, invece, la violenza, interna e tanto più internazionale, è un fin troppo “bello” scenario, per chi senta così, che gli consente di giocare con la vita (purtroppo non solo mettendo a repentaglio la propria, ma anche quella dei tanti che ne avrebbero fatto o farebbero decisamente a meno, come fu vero non solo in Italia, ma pure in Germania, dove ancora bruciava la memoria della Grande Guerra; ma si era succubi del partito dominante, e soprattutto del proprio “duce” o führer). Ma quest’estetica della violenza aveva i suoi estimatori, che erano quantomeno una forte minoranza sociale convinta e persuasa. In Germania c’è pure stato un grande scrittore e intellettuale, poi pure post-nazista, che della guerra aveva fatto una sorta di ideale esistenziale, Ernst Jünger, l’autore di Tempeste d’acciaio (1920) e altri testi letterariamente importanti, comunque degni di essere letti e meditati, che non erano certo paccottiglia[17]. Egli non era neppure un nazista, ma semmai uno dei cosiddetti “rivoluzionari conservatori”, e non era affatto antisemita, ma era stimato dai nazisti, come vero “guerriero” per vocazione e teorico della bella vita come guerra. Hitler lo ammirava a un punto tale che quando, dopo l’attentato del 1943 in cui si salvò a stento, gli dissero che pure lo scrittore era stato coinvolto, invece di approvare il solito processo sommario che si concludeva impiccando i congiurati e talora appendendoli a ganci da macellai, disse loro: “Lasciate stare Jünger”.

Ma è soprattutto interessante la contrapposizione tra il punto di vista del massimo studioso di strategia militare Clausewitz, il generale e nobile prussiano autore del famoso trattato Della guerra (1832), e uno dei più grandi politologi contemporanei, fortissimamente compromesso col nazismo, Carl Schmitt. Clausewitz aveva detto che “la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi”.[18] Ma il filosofo politico “nazi” Schmitt, in Il concetto del politico (1927) e altrove, diceva che “è la politica ad essere la continuazione della guerra con altri mezzi”. Infatti tutta la politica, segnatamente nell’epoca contemporanea in cui l’irruzione delle masse avrebbe avviato la morte dello Stato “sovrano”, sarebbe segnata dalla relazione tra “amico e nemico”. Il vero politico, in tal caso, è quello che oppone al caos, oramai dilagante in una statalità ormai fatalmente moritura, la sua deliberazione, in condizioni di emergenza: come “decisore”, fonte di diritto. Così quando nel 1934 Hitler, partecipando persino di persona all’efferatezza dell’evento, sterminò i capi delle sue “Squadre d’Azione”, SA che volevano soppiantare con i loro effettivi i capi dell’esercito regolare della Wermacht, il reazionario Schmitt plaudì dicendo che non è la buona legge a fare il buon führer, ma è il buon führer a fare la buona legge.[19]

Schmitt era soprattutto un hobbesiano. Secondo il suo maggior studioso italiano, il mio ex collega dell’Università di Bologna Carlo Galli, autore di una vastissima e profonda opera su di lui, Schmitt si credeva addirittura la reincarnazione di Hobbes, come gli sentii dire alla Fondazione Firpo di Torino nel 1996[20] (e secondo altra studiosa curatrice per la BUR di un’edizione della Città del sole di Campanella, Luigi Firpo aveva lo stesso convincimento relativamente all’amato Campanella: tanto grande è talora il rapporto tra uno studioso e il suo autore, anche se un lama tibetano potrebbe pure dar credito ad entrambi, magari con qualche buon appiglio, a quel che sono portato a sospettare e talora credere pure io).

Anche per Schmitt solo lo Stato in cui chi l’impersona ha la totalità del potere (sovranità), garantisce la pace interna, anche se non può garantire facilmente quella internazionale, perché qualsiasi sentenza anche di diritto internazionale se non ha uno Stato che possa imporla, come si è poi visto tante volte, poco o nulla vale (o varrebbe). Ma secondo lo Schmitt più maturo, del Nomos della Terra (1950)[21], nel XVIII e XIX secolo gli Stati erano almeno pervenuti a un pur precario, ma profondo e di lunghissimo periodo, ordine mondiale, in cui certo esplodevano guerre, ma eccezionalmente e circoscritte; c’era stata, insomma, una sorta di instabile stabilità, o “equilibrio”, durato più o meno due secoli, ma soprattutto dal 1815 al 1914. Gli Stati potevano pure fare guerre, dopo le fratricide guerre di religione anteriori tra cattolici e protestanti, ma ora erano guerre limitate, tra monarchie imperiali, risolte con trattati perché erano tra contendenti che non negavano la legittimità dell’altro. Se le davano di santa ragione, talora anche molto sanguinosamente, ma senza coinvolgere i non combattenti, e sapendo che quando fosse stato possibile avrebbero fatto pace riconoscendosi di nuovo reciprocamente da buoni amici e magari re parenti. E fu così più o meno sino al 1914, quando i grandi Stato-impero precipitarono in una lotta a morte, che per Schmitt avrebbe dato inizio alla decadenza della forma Stato (anzi, alla necrosi dello Stato, all’era della “morte dello Stato” come sovranità che vale per tutti, e fatta di Stati tutti “umani”), cioè avrebbe dato inizio alla decadenza dei grandi Stati o Stati imperiali caratterizzati da “grandi spazi” (senza i quali Stati dei “grandi spazi”, o Stati imperiali, o continentali, non ci sarebbe pace durevole sul pianeta). Allora, come si vedrebbe bene dal 1917 in poi, è caduta la legittimazione reciproca, sicché sono arrivate le guerre per distruggere l’avversario, mors tua, vita mea (la Grande Guerra fu la prima). Da allora lo Stato avversario, e spesso pure il “nemico” interno, è troppo spesso odiato e possibilmente ammazzato, tanto più nei conflitti internazionali; è visto come un nemico del genere umano da distruggere, con guerre rivoluzionarie interne e guerre tra Stati esterne (conflitti per “far fuori” l’avversario “per sempre”, nelle intenzioni).

Tuttavia ci sarebbe una via alla pace mondiale, se non “perpetua” almeno di lunghissimo periodo; e a questo, ben inteso per Schmitt, avrebbe mirato pure il nazismo, che non a caso nel corso della Seconda guerra mondiale parlava della volontà di costituire un Reich “millenario”.

Hitler non giocava solo alla guerra, ma pur sognando per un futuro remoto un Reich planetario, mirava a un ordine tra pochi grandi imperi, come quello che per Schmitt ci sarebbe stato più o meno sino al 1914; avrebbe mirato a un ordine della Terra mandato in pezzi dalla Grande Guerra, distruttrice dei grandi imperi monarchici tradizionali. Schmitt era in sostanza un cattolico reazionario, di destra, approdato al nazismo come Von Papen.

In realtà Hitler voleva un impero etnocentrico, in cui gli slavi fossero sotto i tedeschi come fossero stati i neri dell’Africa per gli inglesi del secolo XIX e sino al 1945, e questo portava non nuovo ordine, ma nuovo disordine, come ha spiegato Carlo Galli pure al Festivalfilosofia del 2016.

Ma comunque è vero che conquistata la Francia, Hitler avrebbe voluto spartirsi il mondo con gli inglesi, considerati ariani cugini dei tedeschi, ma non capì che una Germania nazista da Berlino a tutto l’Est Europa, non poteva garbare all’Inghilterra liberaldemocratica (e alla sua potentissima sorella ancor più tale, l’America); non lo capiva perché guardava solo agli interessi di potenza, trascurando le diverse visioni del mondo, ma pure l’interesse a impedire che altri diventassero troppo forte, a casa d’altri.

Qui c’è un punto decisivo da capire tanto in riferimento a Mussolini e ad Hitler, ma pure a Putin: il realismo nazionalista considera il primato del rapporto di forza così universale da non poter capire, per una sorta di ultrarealismo, il pensiero altrui: in specie il fatto che pure nel mondo politico il ragionamento basato sulla pura forza non può bastare, perché è solo un aspetto, per quanto magari primario, dell’agire politico. Così Mussolini pensò, nel 1940, di entrare in una guerra che secondo lui stava finendo, e così rovinò il Paese e persino sé stesso e la sua parte. Hitler pensò ugualmente che l’interesse inglese fosse quello di lasciarlo andare a Mosca invece che “dall’altra parte”, per lo stesso ultrarealismo, in realtà non realistico. Per la verità dapprima e pure dopo, nel 1939 come nel 1941, cercò di bilanciare il rischio. Nel 1939, temendo la guerra su due fronti, fece il famoso Patto Molotov-Ribbentrop con la Russia di Stalin, ma proprio quello unì tutta l’Inghilterra (e i “moderati”) contro di lui (Chamberlain, che aveva ceduto molto nel Patto di Monaco del settembre 1938 a danno dei cechi, lo definì un bandito, e così in Inghilterra andò al potere un nemico irriducibile dei nazi, che forse è il più meritevole di tutti nella lotta contro Hitler: Churchill). Ma nel 1941, convinto che con le immense risorse dell’est avrebbe avuto mezzi illimitati per resistere anche decenni, e per convincere i nemici a un compromesso vantaggioso per la sua parte, e sottovalutando l’URSS, invase l’URSS, e così si trovò in insormontabili difficoltà. Anche lì vedendo solo l’aspetto “della forza” non comprese “l’anima russa”, così evidente già in Guerra e pace di Tolstoj[22] (anzi, il suo disprezzo razzista per gli slavi non glielo fece capire per niente). Si sa come andò a finire.

Qui io ricaverei la conclusione teorica per cui il realismo nazionalista si converte in un eccesso di bellicismo (in cui invece non erano cadute altre forme di Stato del passato come del presente), bellicismo che vedendo solo rapporti di forza, e ignorando o sottovalutando molto le altre componenti dell’agire politico, prende poi un sacco di legnate. (Può darsi che oggi Putin, con l’Ucraina, e il marcio e impotente Occidente, abbia fatto lo stesso errore, tipico del nazionalismo autoritario, anche ai massimi livelli politici; e forse il nazionalista sionista Netaniahu, pur non confrontabile in nulla con gli avversari “nazi” del suo popolo, per lo stesso nazionalismo “proprio”, stia facendo la stessa sciocchezza, con un islamismo che è un quarto del genere umano, che si può e deve detestare nella sua forma antifemminile, antisemita e teocratica, ma non sottovalutare scherzando troppo con un tale fuoco).

A questo punto torno a Schmitt in riferimento a due punti del suo pensiero politico. Uno è relativo a un suo saggio del 1942, Terra e mare[23]. Lì Schmitt, totalmente immerso nel III Reich, faceva un complesso ragionamento al tempo stesso geopolitico e psicopolitico, contrapponendo l’atteggiamento delle potenze di terra e mare nel corso della storia, sino a Russia e Germania da una parte e Inghilterra e America dall’altra. Le potenze di terra sarebbero – per vocazione di lungo periodo – tendenti al blocco d’ordine, al legame col suolo, a realizzare imperi stabili, autoritari o semiautoritari. (È pure probabile che Schmitt, pensando alle potenze di terra, disapprovasse l’invasione dell’URSS senza poterlo né volerlo dire). Le potenze del mare, il quale non ha confini e già per Grozio avrebbe dovuto essere “di tutti” per la pace comune, sarebbero invece realizzatrici di ordini politici instabili, con poco ordine, “liberali”, anche se vincitrici da secoli a quanto pare.

Schmitt, che visse quasi cento anni, tornò su questi temi nel grande libro già citato Il nomos della terra. Sarebbe possibile avere pace a tempo indeterminato, sia pure con guerre circoscritte, solo se si riformassero Stati-impero, in “grandi spazi”, come prima del 1917.

Questi tratti sono tutti ripresi e approfonditi dalla nuova destra internazionale. Siccome la globalizzazione, che è parsa convenire solo alla Cina, è sostanzialmente fallita, incapace di frenare i flussi dei popoli e l’economia mondiale, la “crisi del futuro”, come dicevano Morin e la Kern, “riattualizza il passato”[24]. Per cui la destra torna: naturalmente in panni e forme nuove (“democratura”, mix tra autoritarismo e parlamentarismo), come movimento di popoli.

Ha iniziato, e continua a scrivere, in tale ambito, un prolifico autore, che sin dal 1981 produsse un grosso tomo, Visto da destra: Alain de Benoist.[25] Benché meriterebbe uno studio più accurato, sembrerebbe essere più che altro un forte eclettico e non un pensatore originale, uno aperto a suggestioni diverse che cerca di comporre in un puzzle, e non il creatore di un nuovo pensiero politico, ma semmai solo il sognatore di una cosa alternativa alla cultura della sinistra marxista o socialista o liberale progressista. Da più di quarant’anni Alain de Benoist coltiva l’ambizione di enucleare autori e idee propri di un paradigma di destra di lunga durata, di cui i fascismi sarebbero stati solo un episodio, un capitolo: momento transitorio di una rivoluzione conservatrice di lungo periodo. Oggi insiste sul carattere obsoleto delle differenze tra destra e sinistra, cercando la coincidentia oppositorum contro l’americanismo, contro il capitalismo finanziario e pure contro il cristianesimo (in vista del neopaganesimo[26]). Viene sviluppata una tematica vicinissima a quella del Nomos della Terra di Schmitt, a favore di un mondo non più bipolare (nel senso di USA e URSS, ma pure di Cina e Stati Uniti), con tratti però pretesi neo-rivoluzionari. In pratica si vorrebbe un mondo di Stati-impero illiberali, autoritari e non, che possano coesistere com’era stato nel XVIII-XIX secolo e soprattutto dal Congresso di Vienna 1814-1815 al 1917.

Su ciò non solo c’è “schmittismo” intenso, ma pure forte convergenza con l’ideologo preferito di Putin, Alexander Dugin (sino a scrivere pure un libro con lui, Eurasia, nel 2014[27]): un Dugin di cui in rete su You Tube ci sono importanti interviste in perfetto italiano, tra cui una a un vecchio che era stato il primo grande eretico maoista in Italia già all’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso (o forse dopo il 1956), Dinucci, allora con la sua “nuova unità”, organo di un cosiddetto partito comunista d’Italia marxista-leninista. Dugin sarebbe da approfondire soprattutto per il suo libro La quarta teoria politica.[28] Ma il discorso è già stato abbastanza lungo e perciò mi limito a due osservazioni.

La prima osservazione mi induce a sottolineare che Dugin – il quale tra l’altro ha alle spalle una storia di studioso non d’accatto – è alla ricerca di una teoria politica che superi i tre grandi indirizzi degli ultimi secoli: liberalismo, fascismo (nazifascismo) e socialismo (socialcomunismo). L’istanza non sarebbe da buttar via se fosse in avanti, mentre invece sembra rifriggere idee naziste e post-naziste di Schmitt (e del neo-reazionario italiano Julius Evola), ossia pretende di andare avanti procedendo come i gamberi. E questo è pure il limite di de Benoist: proporre con qualche nuovo ingrediente e adattamento, cercando di evitare vecchie cose già risultare immangiabili, minestre riscaldate, che non sono mai buone.

La seconda osservazione concerne un tratto effettivamente nuovo del nuovo nazionalismo planetario. Tale tratto si rende evidente in un controverso personaggio che è stato per anni l’ideologo di Trump, Steve Bannon, teorico dell’Alt-Right (Alternativa di Destra)[29]: il carattere autoreferenziale, in primo luogo interno, del nuovo nazionalismo, inteso soprattutto come sovranismo che rifiuta il preteso “estraneo in casa” (questa volta ritrova lo straniero “inferiore” da soggiogare nel preteso estraneo immigrato nemico, da cacciare o almeno non fare entrare a nessun costo). Mentre il vecchio nazionalismo era soprattutto un imperialismo espansionistico, il nuovo tende a coesistere con imperi o autoritari o con democrature (e ad essere democratura). La lotta del nuovo nazionalismo non è più volta principalmente a sottomettere pretesi inferiori, ma a tenerli il più possibile lontani dai propri sacri confini. Ecco il trumpismo, ma pure il tratto di tutte le “democrature” che cercano di nascere nel mondo, ben al di là dell’Ungheria e Turchia.

Persino l’attuale leader di Israele, Netaniahu, è un neonazionalista, che pretende di potenziare al massimo la sicurezza e il benessere e la potenza internazionale dell’etnia dominante nel suo Stato dominando e possibilmente scacciando l’elemento interno considerato “diverso” e “ostile” (il palestinese, l’arabo “intruso”, l’islamico “fondamentalista” che minaccia il paese “di Dio”).

Anche in tal caso c’è un eccesso di realismo, cioè di fede taumaturgica nella forza bruta, che non promette niente di buono.

Tutto ciò sembra convergere in uno scontro mortale tra neoconservatori, neoautoritari e neonazionalisti e più in generale autoritari da una parte, di destra e di sinistra, e i democratici progressivi dall’altra, anche se come sempre è difficile decidere chi abbia cominciato “a picchiare” e come andrà a finire, Certo ancora una volta – lo facciano per difesa o per offesa; per bisogno di Stati di tornare forti o essere più forti, per non essere asserviti dall’”Occidente” – il realismo nazionalista ci immette in contesti bellici pericolosissimi. Può darsi che ponga pure problemi e istanze da considerare con cura, proprio per evitare il peggio, ma questo nuovo nazionalismo non sembra far parte delle soluzioni, ma del problema da risolvere. Ma si può risolvere? O siamo davvero come nel 1914 o nel 1939?

Vedendo che ne dica il realismo che ho chiamato conservatore, ora proverò a verificare anche questo.

(Segue)

di Franco Livorsi

  1. N. MACHIAVELLI, Il Principe (1513, ma postumo 1532), con un saggio di R. Aron, cronologia e nota introduttiva di F. Melotti, e Introduzione, note e glossario ideologico di E. Janni, BUR, 1975, p. 156.
  2. J. BODIN, I sei libri dello Stato (1576), traduzione e cura nel primo dei due volumi di Maria Isnardi Parente (che tra l’altro era originaria di Alessandria), e poi, al secondo, di Diego Quaglioni, UTET, I, 1964 e II, ivi, 1988. Giustamente i curatori hanno tradotto “République” con Stato, perché in Bodin indicava latinamente la “Res publica”, appunto lo Stato.
  3. T. BOCCALINI, Ragguagli del Parnaso (1612 e infine 1615), a cura di G. Rua, Laterza, Bari, 1910.G. BOTERO, Della ragion di stato (1598), a cura di L. Firpo, UTET, Torino, 1948.
  4. T. HOBBES, Leviatano (1651), a cura di G. Miceli, La Nuova Italia, Firenze, 1976.
  5. G. W. F. HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di G. Marini, Laterza, 1987.
  6. È vero che Napoleone fu sconfitto nella Russia zarista, ma il primo nemico irriducibile fu l’Inghilterra.
  7. G. A. FICHTE, Discorsi alla nazione tedesca (1807-1808), a cura di B. Allason, UTET, 1972. Per il riferimento a : J. J. CHEVALLIER, si veda il suo: Le grandi opere del pensiero politico (1949), Il Mulino, Bologna, 1968.Rinvio pure a: F. LIVORSI, Dio nell’Io e Io in Dio. Note su idealismo e religiosità in Fichte e Schelling, “Città Futura on line”, 14 aprile 2020.
  8. C. DUGGAN, Creare la nazione. Vita di Francesco Crispi, Laterza, 2001. Il giovane Giovanni Gentile lo apprezzerà, per le stesse ragioni per cui poi apprezzerà Mussolini al potere, sino alla fine.
  9. C. DARWIN, L’origine delle specie (1859), a cura di G. Montalenti, Torino, Boringhieri, 1977. Il principale anello di congiunzione tra biologismo e sociologia fu l’inglese Herbert Spencer, al suo tempo famosissimo, specie in: Principi di sociologia (1873, ma poi 1876/1896), a cura di Franco Ferrarotti, UTET, 1988. Era un liberale liberista, ma ebbe allora grande eco anche a sinistra, tra ultimi decenni del XIX secolo e primo decennio del XX, come supporto, o preteso supporto di tipo evoluzionistico sociale al socialismo “scientifico”.
  10. H. SPENCER, Principi di sociologia (1873/1896), UTET, 2013; L’individuo contro lo Stato (1885), a cura di A. Mingardi, Liberilibri, Milano, 2018.R. KIPLING (1865-1936), “Le opere”, a cura di V. Beonio Brocchieri, UTET, 1978.
  11. H. Von TREITSCHKE, La politica (1899), Laterza, 1918.
  12. Su ciò rinvio pure a: F. LIVORSI, Note politiche e psicanalitiche sul razzismo, “Thelema. La psicanalisi e i suoi intorni” (rivista lacaniana milanese diretta da Franco Baldini), n. 6, 1995, pp. 57-105.
  13. Ricordo per il lettore comune che in Filosofia chiamiamo Idealismo, almeno in prima approssimazione, ogni concezione in cui il reale rappresentato sia visto come creazione del pensiero dell’uomo. Dalla fine del Settecento, nel clima protoromantico, questo pensiero umano che da Kant in poi costruisce il vero quando unisce i dati dell’esperienza nelle funzioni a priori del pensare, viene infinitizzato e ritenuto immanente, presente e risolto, nell’uomo, come nell’idealismo classico tedesco di Fichte, Schelling e soprattutto Hegel. Quest’ultimo, in quanto lo Stato vale per tutti, idealizza pure lo Stato, sotto la Restaurazione in chiave autoritaria, anche se per lui incarna idealmnte la volontà generale dei cittadini.
  14. A. ROCCO, Dalla crisi del parlamentarismo alla costruzione dello Stato nuovo, a cura di E. Gentile, F. Lanchester e A. Tarquini, Carocci, Roma, 2010.E. CORRADINI, Il nazionalismo italiano (1914), Historica, Roma, 2020.Si confrontino con: E. FONZO, Storia dell’Associazione Nazionalista Italiana (1910-1923), Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2017: S. BATTENTE, Alfredo Rocco dal nazionalismo al fascismo, Angeli, Milano, 2015.
  15. Manifesto del Futurismo, dapprima nel “Figaro”, Parigi, 20 febbraio 1909 e poi in: F. T. MARINETTI, “Opere, I. Teoria e innovazione futurista”, Mondadori, 1972, pp. 7-13. Qui sottolineatura mia.
  16. B. MUSSOLINI, Fascismo, in: Enciclopedia italiana, 1932, vol. XIV, pp. 847-857.
  17. E. JÜNGER, Nelle tempeste d’acciaio (1920), e con Introduzione di G. Zampa, Guanda, Parma, 2000. Per quel che qui interessa, si veda pure: Irradiazioni. Diario 1941/1945, Guanda, Parma, 1993/1995.
  18. C. von CLAUSEWITZ, Della guerra (1832), Biblioteca Universale Rizzoli, 2004.
  19. C. SCHMITT, Il concetto del politico (1927), da vedere nell’accurata raccolta di saggi Le categorie del politico, da lui stesso prefata, a cura di G. Miglio e P. Schiera, Il Mulino, Bologna, 1972. Ma si veda pure: C. SCHMITT, I principi politici del nazionalsocialismo, a cura di D. Cantimori, Sansoni, Firenze, 1936 (il curatore, grande studioso della Riforma e poi dei Giacobini, molto vicino a Giovanni Gentile, divenne poi partigiano e comunista, traduttore del Capitale di Marx). Il testo di Schmitt sulla “strage dei lunghi coltelli” del 1934 è in: Il nazionalsocialismo. Documenti 1933-1945, a cura di W. Hofer, Garzanti, Milano, 1965.
  20. C. GALLI, Genealogia della politica. Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, Il Mulino, 1996 e infine 2010.
  21. C. GALLI, Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno, Il Mulino, 1996 e infine 2010.
  22. L. TOLSTOJ, Guerra e pace (1867), Einaudi, 2019, due volumi.
  23. C. SCHMITT, Terra e mare (1942), Adelphi, 2005.
  24. E. MORIN – A. B. KERN, Terra-patria (1994), Cortina, Milano, 1995.
  25. A. de BENOIST, Visto da destra, Akropolis, Napoli, 1981.
  26. A. de BENOIST, Come si può essere pagani, Basaia, Roma,1984.
  27. A. DE BENOIST – A. DUGIN, Eurasia. Vladimir Putin e la grande politica, Controcorrente, Napoli, 2014.
  28. A. DUGIN, La quarta teoria politica, a cura di A. Virga, Aspis, Milano, 2020.
  29. La visione degli alt-right secondo Steve Bannon, a cura di M. Mancini, goWare, Firenze, 2017.

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