Cinque vie alla pace nel mondo nella storia del pensiero politico: IV) Il realismo conservatore e liberale

Ho già precisato, nella mia riflessione precedente sul realismo nazionalista, che nella storia del pensiero politico e nella politologia si chiamano “realistiche” le posizioni che vedono la storia e politica dominate dai meri rapporti di forza per far trionfare l’una o altra nazione, o movimento, o gruppo in campo. Tra le posizioni “realistiche”, il nazionalismo, al pari del suo opposto (l’internazionalismo, in specie proletario), ha una posizione rivoluzionaria (solo che quella del nazionalismo – in specie nei fascismi, che del nazionalismo sono i “figlioli” prediletti – è “rivoluzionaria contro la rivoluzione”). Infatti il nazionalismo fa valere l’istanza “realistica” del far prevalere la forza (con o senza lo schermo del preteso “diritto”), in modo molto eversivo dell’ordine mondiale esistente, cioè tale da sconvolgere sempre l’equilibrio, o precario equilibrio, preesistente “tra” gli Stati (e in certi frangenti “negli” Stati, quando se la prende con la forza contro un preteso “nemico interno”): assumendo il “fare la guerra” (talora interna) come una sorta di vocazione. I nazionalismi non solo fanno guerre, ma le fanno per vocazione. Sono amanti del “battere” gli oppositori irriducibili tramite il combattimento anche fisico. Tendono cioè a cambiare, tra Stati, il preesistente equilibrio, attraverso la guerra (anche quando non sia affatto sentito come inevitabile). E così molto spesso, ma non sempre, il nazionalismo aggressivo, qual esso sia, si rompe le corna, o rischia moltissimo di rompersele (direi “quasi” sempre), avvalorando – dal più al meno – il proverbio per cui a furia di andare al lardo, il gatto ci lascia lo zampino: la fiera mette la zampa in trappola e poi non può più tirarla fuori. La storia è piena di tali esempi, dalle “grandi” conquiste di Hitler alla prima guerra contro il Kuwait dell’Iraq di Saddam Hussein, e forse, ora – anche se non è scontato affatto, ma il prezzo pagato pure dall’aggressore è già stato alto – all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin.

Ma c’è una corrente realistica molto più illuminata, su guerra e pace, del realismo nazionalista: il realismo che direi conservatore, illiberale ma pure liberale (quantomeno nel senso di un liberalismo di destra, o liberalismo conservatore).

Per questo genere di realismo, la stella polare è il principio dell’equilibrio: un’istanza di ordine internazionale basata sul reciproco bilanciamento tra gli Stati: soprattutto quelli maggiori, che più contano, e dirigono il gioco del mondo (il che al realismo “conservatore” pare normale).

Quest’istanza di equilibrio tra Stati, che si può già vedere nel Diritto di guerra e di pace (1625) dell’olandese Ugo Grozio[1], nel concreto – da tempi remoti a tempi recenti od attuali – viene da un reciproco bisogno di convivenza (o coesistenza), che quasi naturalmente – per un’istanza di protezione ovvia e profonda – porta gli Stati ad avvertire che ogni sbilanciamento importante – tanto più tra Stati “grandi”, e che pesino sull’insieme del mondo – sconvolge l’assetto complessivo; può infatti portare a guerre sempre più vaste, lunghe, sanguinose e dolorose, tanto che è sempre meglio impedirlo subito per evitare guai sempre maggiori, ossia conflitti sempre più ampi e tremendi. I realisti conservatori, illiberali e pure liberali – quando non siano o troppo frenati da conflitti interni al loro Paese, o da dissensi troppo forti con i loro alleati, oppure quando non siano ormai governati da élites politiche formate da vecchi rimbambiti, “re fannulloni”, come pure nella storia talora accade – intervengono subito contro lo Stato che “squilibri” l’equilibrio consolidato, per evitare più vasti e dolorosi conflitti. Se non lo fanno, generalmente per una delle ragioni or ora richiamate, sono grandi guai per tutti (secondo il realismo “conservatore”, illiberale come liberale).

Naturalmente una pace basata sulla continua ricerca del compromesso tra grandi potenze non può essere perpetua, e il realista conservatore (liberale come illiberale) lo sa benissimo, ma accetta questa dura contingenza del mondo, preferendo sinché sia possibile la ricerca del compromesso, persino con una grande potenza a lui odiosa, alla lotta a morte che sia evitabile. Questo, naturalmente, può anche avere risvolti molto cinici, come l’accordo con Stati potenti ritenuti criminali o marci (in genere con sentimento ricambiato).

Al proposito va notato che nel mondo contemporaneo, che convenzionalmente facciamo procedere dal 1789 in poi, cioè dalla Rivoluzione francese, la tendenza conservatrice ha avuto il suo primo grande campione in Klemens von Metternich, già decisivo nel grande confronto dialogico e soprattutto bellico con Napoleone, e poi cancelliere di Stato dell’Austria, diventata grazie a lui (o con suo imprescindibile apporto) grande potenza europea, con territorio nel tempo raddoppiato e grandi alleati nel mondo, dal 1821 al 1848, quando i moti interni liberali indussero l’imperatore d’Austria a farlo dimettere.

La politica di Metternich si basava su una continua ricerca di compromesso tra grandi Stati; sulla lotta armata contro chi squilibrasse in modo grave l’equilibrio tra grandi stati (e piccoli o medi annessi e connessi), ma pure sulla conservazione dello status quo autoritario tradizionale al loro interno tramite dura repressione poliziesca. Metternich era sempre fautore di una ferma, autorevole ed efficace amministrazione del potere statale di sua spettanza o di spettanza dei suoi alleati, nel senso del settecentesco, illuministico “dispotismo illuminato”, ma appunto pure fautore della dura repressione di ogni tendenza antiautoritaria, liberale o democratico repubblicana (diciamo pure “rivoluzionaria”), negli Stati. Insomma, il conservatore illuminato doveva essere sempre pronto a farsi reazionario, duramente repressivo, spegnendo sul nascere i focolai rivoluzionari. Metternich faceva valere il principio del legittimismo, che vedeva nella difesa dell’ordine monarchico autoritario più o meno ristabilito nei regni, dopo la caduta di Napoleone, un assetto da salvaguardare a qualsiasi costo, con Santa Alleanza tra Stati “cristiani”, voluta da Russia e Austria, ma sottoscritta da quasi tutti gli Stati presenti al congresso di Vienna del 1814-1815. Nelle sue Memorie non mancava di ricordare che “Gli abusi del potere generale generano le rivoluzioni; le rivoluzioni sono peggio di qualsiasi abuso. La prima frase va rivolta ai sovrani; la seconda ai popoli”.[2]

L’insieme di questi punti non solo garantì all’Austria un’estensione territoriale e una potenza internazionale senza precedenti, ma fu efficace nella politica internazionale, tanto che l’ordine internazionale stabilito al congresso di Vienna del 1815, ampiamente legato all’influenza di Metternich, durò cento anni, sino alla Grande Guerra. Ci furono sì guerre pure importanti, come quelle per l’indipendenza dell’Italia e soprattutto la guerra franco-prussiana del 1870, ma per cento anni non ci furono più conflitti più o meno “mondiali” com’erano già stati quelli delle guerre del tempo di Bonaparte, arrivate dalla Francia alla Russia, o le successive due guerre mondiali del Novecento (sperando che in questo XXI secolo non arrivi presto la terza, dati i tremendi scricchiolii degli ultimi anni).

I punti deboli dell’impostazione del realismo conservatore, metternichiano e non, concernono l’assoluto disconoscimento da un lato del principio di nazionalità e dall’altro dell’istanza della libertà dei cittadini come singoli (che è poi il liberalismo, il quale garantisce la libertà dei singoli tramite la divisione, e reciproco bilanciamento, dei tre poteri fondamentali dello Stato, oltre che salvaguardando la proprietà privata). Non solo per Metternich e i suoi amici lo Stato fa la nazione (il che è storicamente vero), ma ne prescinde pure, come se il riferimento alla nazionalità fosse uno pseudoconcetto (mentre dal 1789 e tanto più da Napoleone in poi, e persino contro l’imperialismo di taluni popoli contro Napoleone, non lo era affatto): l’anelito alla libertà liberale, come pure alla liberazione nazionale, dal 1789, e tanto più dal 1800 (battaglia di Marengo), e tanto più dal 1848, erano ormai insopprimibili. Entrambi i dati (nazionalità e liberalismo) erano, e forse sono, punti deboli del realismo conservatore, che nel suo vedere solo i rapporti di equilibrio o squilibrio tra Stati fa troppo poco conto sia della nazionalità che della libertà dei cittadini, che sono invece imprescindibili.

Naturalmente non si può seriamente ragionare di pace senza seriamente ragionare di guerra. Così, nella stessa atmosfera politico-culturale di Metternich, ma in Prussia, uno dei generali protagonisti delle guerre anti-napoleoniche, Carl von Clausewitz, tra il 1818 e il 1831 scrive una grande opera incompiuta, pubblicata subito dopo la sua morte, Della guerra (1832), che oltre ad essere un grande trattato di strategia militare è un’opera di vera filosofia politica del conflitto armato. Egli ha piena consapevolezza del fatto che dopo la Rivoluzione francese il tempo delle cosiddette guerre di Gabinetto, fatte dai governi tramite truppe senza coinvolgere se non minimamente in modo diretto i popoli, è finito. La guerra è diventata un fenomeno complesso, che ha a che fare con conflitti che coinvolgono i popoli (“les enfants de la patrie”, o le “nazioni”, come la Germania del 1807 o poi sino al 1918 contro la Francia, o come la Spagna, contro lo stesso Bonaparte). Inoltre la guerra ha sempre a che fare con la capacità strategica dei condottieri militari; ma, soprattutto, è un modo, prima latentemente conflittuale e poi apertamente tale, di risolvere i conflitti “politici” tra Stati. Da quest’ultimo tratto ha origine il ben noto passaggio: “La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi. La guerra non è dunque solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del processo politico, una continuazione della politica con altri mezzi.”[3]

Quest’impostazione ha echi sino a noi, tanto che a suo dire ispira ancora la visione del ben noto Edward Luttwak[4]. Ma ha soprattutto eco in uno dei più grandi sociologi-filosofi del Novecento, l’amico-nemico di una vita di Sartre (con cui aveva fondato la rivista “Les Temps Modernes”, esistenzialista, ma da cui si era ben presto staccato non condividendo affatto il filocomunismo e l’orientamento da contestatore di sinistra di Sartre), Raymond Aron. L’instancabile meditante, sociologo filosofo e pubblicista liberale Raymond Aron scrisse pure un importante libro su Clausewitz, approfondendo la dialettica tra odii tra popoli, strategia e politica dei governi, osservando: “Considerata nella sua realtà concreta ogni guerra si presenta come uno strano triedro: 1) la violenza originale del suo elemento, l’odio, l’ostilità che bisogna considerare come una tendenza naturale cieca; 2) il gioco delle probabilità e del caso che ne fanno una libera attività umana; 3) la natura subordinata di strumento politico per cui ha a che fare con l’intelletto puro. La prima di queste tre facce corrisponde soprattutto al popolo, la seconda al capo militare, la terza al governo.”

Queste posizioni tendenti al bilanciamento tra grandi Stati, all’impedire tendenze rivoluzionarie interne che poi ingenerano anche guerre esterne, ed a coltivare una coscienza e sapienza di governo atte a capire e condurre i conflitti, rimbalzano pure nel XX secolo: non certo nella pace di Versailles del 1918, che a differenza del congresso di Vienna del 1815 registrò, da parte francese da parte francese in odio alla Germania e da parte americana (con Wilson) totale mancanza di realismo, e così pose alcune basi fondamentali per la Seconda guerra mondiale; sono, piuttosto, riprese da un nuovo conservatorismo, che ripensa Metternich e von Clausewitz in un contesto in cui i “grandi Stati” sono quelli che avevano vinto la Seconda guerra mondiale (in primis Stati Uniti e Unione Sovietica, ma pure Inghilterra e, buona quarta, la Francia, e decenni dopo la Germania risorta, ma più di tutto la Cina); i rivoluzionari da reprimere nel mondo per rendere stabile l’ordine mondiale disegnato a Yalta dai vincenti nel 1944, per i realisti politici conservatori, illiberali e liberali, sono stati, nel XX secolo, i comunisti.

Quest’approccio è svolto in senso liberale quasi classico, ma certo fermamente liberaldemocratico, dal geniale richiamato Aron (anche studioso ed estimatore di von Clausewitz[5]), fautore di un liberalismo abbastanza conservatore, ma sempre totalmente democratico, come quello incarnato in Italia dal leader del Partito Liberale Italiano Giovanni Malagodi e dal notevole storico delle dottrine politiche, studioso insigne di Tocqueville e filosofo della politica, infine pure favorevole al berlusconismo per lo stesso orientamento di centrodestra, Nicola Matteucci. Non è neppure un caso che uno dei più commossi ricordi di Aron fosse stato scritto da Giovanni Malagodi.[6]

Per Aron valeva soprattutto l’opposizione tra liberalismo e totalitarismi. Pur essendo ebreo, sin dall’avvento di Hitler aveva visto nei totalitarismi, come l’hitleriano, anche il frutto di un umanissimo bisogno di comunitarismo in età di grandi crisi storiche.[7] Ma, soprattutto, Aron aveva il senso della complessità della storia, con ostilità, nel suo contingentismo di fondo (certo sempre memore dell’esistenzialismo), nei confronti delle spiegazioni monocausali, come per lui era il marxismo. Di esso era grande estimatore e studioso, ma riteneva che l’approccio totalizzante, da concezione del mondo, finisse, potenzialmente “ab ovo”, per frustrare il bisogno molto serio di sintesi tra liberalismo e socialismo (che per lui era di liberalismo socialmente aperto). Ma questo stesso tratto illiberale del marxismo – consistente nel suo essere un pensiero totale, una specie di religione, “oppio degli intellettuali di sinistra, in specie nichilisti come Sartre, e come i per lui vacui contestatori del ’68[8] – si prestava bene ad essere l’ideologia dei comunisti. Questi, però, finivano sempre per far parte del gioco di potenze totalitarie come l’URSS, che con Breznev erano ormai volte a un gioco di pura potenza burocratica e autoritaria. Da combattere, con piena adesione all’atlantismo e connesso anticomunismo. Faceva pure una netta distinzione tra dispotismo burocratico autoritario russo e cinese, nel senso che l’URSS non era solo un derivato del secolare dispotismo zarista (come certo era via via totalmente ridiventata), ma pure l’esportatrice dell’antico-nuovo dispotismo, preteso “scientifico” e erede del razionalismo, in tutta l’Europa orientale, forzatamente soggiogata. Ciò alla lunga avrebbe minato lo Stato-impero “sovietico”. A confronto la Cina gli appariva più stabile e forte perché era sempre stata caratterizzata, si può dire da millenni, dal dispotismo orientale, da quelle parti ben più naturale e perciò accettabile ed accettato.

Il punto chiave dell’URSS è che essa era incompatibile con ogni processo di democrazia, ma che questo rendeva poi il mondo che si era annessa vincendo la Seconda guerra mondiale, malsicuro, e tale da minarne lo Stato-Impero, intimamente antidemocratico. Sin dal 1957 notava che le proteste nell’impero sovietico erano democratico-socialiste (fatti d’Ungheria, sanguinosissimamente repressi nel ’56 dai carri armati sovietici). Questo nel ’57 portò Aron a ritenere che l’URSS avrebbe potuto implodere quando non avesse più potuto seguitare a tenere con la forza popoli europei che del suo regime non volevano saperne. Quei regimi, diceva nel 1957 in un saggio pubblicato su “Ideazione” di Pierluigi Minnitti nel 2006, erano stati imposti “dall’esterno” ed erano perciò privi di “quel minimo di adesione popolare senza il quale le istituzioni sono come gusci vuoti”.[9]

L’altra ripresa di questo realismo conservatore si deve a Henry Kissinger[10], ebreo tedesco diventato americano dopo l’avvento al potere di Hitler in Germania e diventato un importante studioso di relazioni internazionali e poi segretario di stato sotto la presidenza Nixon e poi di Gerald Ford, dal 1969 al 1977, e sempre importante pure in seguito. Siamo nell’ambito di uno dei due grandi partiti americani, il Partito Repubblicano, che negli Stati Uniti, nel XX-XXI secolo (prima era stato ben diverso), incarna quello che da noi è il liberalismo di destra, ma con punte di estrema destra che in tempi di crisi degli USA si accentuano, come ora con Trump (mentre “liberal” in America è sinonimo di democratico di sinistra). Ora Kissinger è un neo-metternichiano, ben più di Aron, per studi e per “emulazione” politica. Uno dei suoi libri importanti è su Metternich[11]. E il vedere i rivoluzionari eversori dell’ordine mondiale nei comunisti, che c’era pure in Aron, in lui diventava, come in Metternich con liberali e repubblicani, impegno attivo a contrastare ogni apertura anche minima al comunismo, e complottismo contro la sinistra mondiale. Ma come Metternich poteva pure fare compromessi con potenze opposte, Nixon faceva le sue distinzioni. Così fu lui a normalizzare i rapporti con la Cina di Mao, aprendo la strada all’incontro storico del 1971 tra Nixon e Mao. Ma nell’America Latina tramava con tutti gli anticomunisti, sostenendo pure golpe di destra, prima del governo ultimo di Allende in Cile (secondo lui) e di quello finito con l’assassinio di Allende e la dittatura nazionalista di destra, fascistoide, di Pinochet. Scoraggiò ogni apertura a sinistra, ai comunisti anche in Europa, tanto che cercando invano di dissuadere Aldo Moro dal proposito di far entrare il PCI nel governo, gli avrebbe detto che l’avrebbe pagata assai cara.

In base allo stesso realismo, da uomo quasi centenario (fece in tempo a dialogare con Giorgia Meloni), era preoccupato per la pace mondiale, e riteneva necessario che si creasse un’intesa cordiale tra USA e Cina, come scrisse negli ultimi anni in un suo libro sulla Cina, sostenendo che era “ormai indispensabile che la Cina e gli Stati Uniti” trovassero “una strada per camminare insieme, date le urgenze del tempo”. Il messaggio, in un contesto con tanti segnali di guerra generale come questo del 2024, pare più attuale che mai.

Ora, guardando le cose in modo macrostorico come ho provato a fare sinora – e facendo la tara a molti orrori, da non giustificare mai, come la crudele repressione del liberalismo risorgimentale nascente ispirata da Metternich, o le trame oscure contro i comunisti del mondo di Nixon e consorti – si potrebbe ritenere che il realismo conservatore, illiberale e liberale, abbia avuto più argomenti e efficacia nel mantenere la pace in Europa e nel mondo di altre tendenze sin qui vagliate. Se non che la cosa oggi non funziona più, e da tempo immemorabile è tendenzialmente limitatrice dei processi di democratizzazione del mondo.

Infatti l’equilibrio tra le grandi potenze mondiali di cui quest’approccio non può mai fare a meno, pur scontando che talora sia necessario appoggiarsi di più su una potenza per contenerne un’altra (come faceva pure Metternich e come il duo Nixon-Kissinger fece con la Cina per contenere e combattere l’URSS, che si era espansa in Indocina e America Latina tra castrismo e guerra del Vietnam), è ormai saltato. Il crollo dell’impero sovietico e poi dell’URSS tra 1989 e 1991 non ha dato luogo a un solo impero mondiale americano come dapprima sperato dal politologo Fukuyama[12], ma all’anomia internazionale. Tra l’altro è avvenuto mentre si risvegliava l’islamismo fondamentalista e si accentuava molto, nel mondo globalizzato, la grande migrazione dei più poveri verso i paesi ricchi. La conseguenza è la latente terza guerra mondiale.

Una soluzione ci sarebbe, ed è nei voti della quinta tendenza in materia di pace nel mondo su cui proverò a dire qualcosa prossimamente: quella democratica e federalista. Portate pazienza e andiamo avanti.

(Segue)

di Franco Livorsi

  1. U. GROZIO, Il diritto di guerra e di pace (1625), a cura di C. GALLI e A. DEL VECCHIO, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici Press, Napoli, 2023.
  2. Si vedano: F. HERRE, Metternich, Bompiani, Milano, 1993; L. MASCILLI MIGLIORINI, Il Principe di Metternich, Salerno, Milano, 2020. Ma pure: Klemens von METTERNICH, Memorie, Einaudi, Torino, 1944; Ordine ed equilibrio. Antologia di scritti, a cura di G. De Rosa, ESA, Torre del Greco, 2012.Va pure ricordata la nota lettera di Metternich al conte Dietrichstein del 2 agosto 1847 in cui diceva: “La parola ‘Italia’ è un’espressione geografica, una qualificazione che riguarda la lingua, ma che non ha il valore politico che gli sforzi degli ideologi rivoluzionari tendono ad imprimerle.”
  3. C. von CLAUSEWITZ, Della guerra (1832), Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 2004.
  4. E. LUTTWAK, Strategia: la logica della guerra e della pace (1989), Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 2013.
  5. R. ARON, Clausewitz, Il Mulino, Bologna, 19987. Ma si veda pure, dello stesso: Paix et guerre entre les nations, Culmann-Levy, Paris, 1984. Pure interessante è: G. E. RUSCONI, Clausewitz, il prussiano: la politica della guerra nell’equilibrio europeo, Einaudi, 1999.
  6. Nicola Matteucci, professore ordinario di “Storia delle dottrine politiche” presso l’Università di Bologna, ha tra l’altro introdotto e curato “Scritti politici” di Alexis de Tocqueville (UTET, Torino, 1970, due volumi), ha fondato e diretto “Il Mulino”, rivista e casa editrice, e scritto molti libri importanti con approccio soprattutto filosofico politico (tra cui Lo stato moderno. Lessico e percorsi, Il Mulino, 1993). Ha pure molto collaborato a “Il giornale”, anche dopo l’ingresso di Berlusconi in politica, in base al suo costante orientamento ideal-politico liberale.G. MALAGODI, Un saluto a Raymond Aron, “Corriere della sera”, 23 ottobre 1983.
  7. Su ciò è da vedere: R. ARON, Machiavelli e le tirannie moderne (1934), con Introduzione di D. Cofrancesco, Edizioni Saem, Bolzano, 1998. Si veda pure: G. BELARDELLI, Machiavelli e le tirannie moderne, “Corriere della sera”, 17 luglio 1998.
  8. R. ARON, Quando fini intellettuali diventano nichilisti, “Corriere della sera”, 2 giugno 2008. Ma per l’interpretazione a caldo del Sessantotto francese, si veda: R. ARON, La rivoluzione introvabile (1968), a cura di A. Campi e G. De Ligio, Rubbettino, 2008. Si veda inoltre: R. ARON, In difesa dell’Europa decadente, Mondadori, 1978.
  9. Per R. ARON è molto importante vedere la vasta raccolta dei suoi scritti La politica, la guerra, la storia, con ampia Introduzione e cura di A. Panebianco, Il Mulino, Bologna, 1992. Su ciò si veda pure: L. COLLETTI, Dopo il silenzio è l’ora di Aron, “Corriere della sera”, 18 novembre 1992.Ma si veda pure: A. CARIOTI, La previsione di Aron: l’Urss cadrà dall’interno, “Corriere della sera”, 4 aprile 2006. Carioti definiva Aron un “liberale conservatore senza complessi”. L’articolo dava conto del preveggente saggio di Aron del 1957 allora pubblicato in italiano su “Ideazione”.
  10. Infatti Kissinger, nel suo libro Sulla Cina, (2011), Mondadori, Milano, 2011, con perfetta consapevolezza di questo “realismo politico” conservatore, dice che “non sono le ideologie e i diritti umani, ma gli interessi nazionali e i rapporti stabili di convenienza con le altre potenze che devono governare la politica estera di un Paese”.
  11. H. KISSINGER, Restaurazione di un mondo. Castelreagh, Metternich e i problemi della pace. 1812-1822. In italiano: Diplomazia della Restaurazione. 1812-1822 (1957), Garzanti, Milano, 1977. Dello stesso si vedano pure: Gli anni della Casa Bianca (1979), SugarCo, Milano, 1980; Anni di crisi. Il Vietnam. La caduta di Allende in Cile. La Guerra del Medio Oriente 1973, ivi, 1982; Sulla Cina, cit.
  12. F. FUKUYAMA, La fine della storia e l’ultimo uomo (1992), UTET, Milano, 2023.

 

Leggi tutta la serie di articoli

Commenta per primo

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*