Da Conte a Draghi: l’Italia nuovamente in cammino

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Considero l’articolo che mi appresto a scrivere come la prosecuzione di due mie riflessioni precedenti svolte qui: diciamo pure come la loro logica “conclusione”.  Nella prima riflessione in oggetto – “Renzi è davvero “furioso”?” (3 gennaio 2021) – sostenevo che il “matto”, che pure aveva il torto di aprire una crisi di governo nel bel mezzo di una devastante pandemia, avrebbe anche potuto, alla fine, non risultare tale. Muoveva da critiche forti al secondo governo Conte, da molti condivise, nel PD e pure nel M5S, in vista di un governo nuovo e migliore. Nel secondo – Il “mezzogiorno di fuoco” tra Renzi e Conte (25 gennaio 2021) – pubblicato qui cinque giorni prima che Conte si dimettesse, quando tutti i giochi erano apertissimi, sostenevo: “Può darsi che il ‘ragazzo’ lavori per un governo di larghe intese con Mario Draghi”, ma aggiungevo che aveva due subordinate: un governo con la stessa maggioranza (PD, M5S, più Italia Viva e LeU), ma non presieduto da Conte, e con ministri più capaci; o anche, a malincuore, un governo presieduto da Conte – su cui, nonostante l’asprezza dei toni, non aveva mai posto una pregiudiziale – ma con ben altri ministri e collaboratori nei punti chiave.

   Queste subordinate sono state bruciate per “colpa” dei cattivi consiglieri e dei principali alleati di Conte: consiglieri come gli “strateghi” del “Fatto Quotidiano” e forse come D’Alema; e alleati “convinti” come M5S e PD. Gli avvocati hanno danneggiato l’avvocato, che avrebbe dovuto invece seguire subito le vie maestre: trattare con il partito e leader che aveva ritirato le due ministre, prima e dopo le loro dimissioni, tenendo conto del fatto che i diciotto senatori di Italia Viva erano determinanti per avere la maggioranza assoluta in Senato; oppure, cinque minuti dopo le dimissioni delle due ministre, andare a dimettersi dal Presidente della Repubblica che certo, tenendo conto del fatto che Conte aveva la maggioranza assoluta alla Camera e almeno quella relativa in Senato, e che PD e M5S lo sostenevano a spada tratta, gli avrebbe ridato l’incarico con ampio mandato. Invece si è lasciato persuadere dai suoi “strateghi da farmacia”, convinti che con la fifa di elezioni di questo parlamento bislacco trovare venti “responsabili” da mettere al posto dei diciotto del “megalomane”, “irresponsabile”, velleitario e prepotente, e soprattutto da loro sempre odiato, Renzi, sarebbe stato un gioco da ragazzi, persino ai danni del suo gruppo (da cui poi non è uscito neanche un senatore, forse con sorpresa dello stesso Renzi). Ma i parlamentari – sapendo che nonostante la promessa di andarvi ove Conte fosse caduto, le elezioni anticipate, in piena pandemia, non ci sarebbero state (tanto più che al dunque loro l’avrebbero impedito) – e percependo il Conte bis come un governo ormai in una tenda sotto ossigeno, si sono mossi pochissimo. Ciò significava morte quasi certa del governo Conte bis e nascita molto incerta del Conte “ter”.

   Ci fu ancora una scialuppa di salvataggio, nel senso che il Presidente della Repubblica, prima di abbandonare un governo come quello di Conte – sostenuto a spada tratta da PD e M5S per non dir di LeU, e che alla Camera aveva una solida maggioranza – incaricò il Presidente della Camera, Roberto Fico, di sondare le forze della maggioranza in crisi, compresa Italia Viva, per vedere se potessero ricompattarsi. Anche Italia Viva accolse l’invito, e PD e M5S si rimangiarono il “Mai più con Renzi” e “O Conte o elezioni” dei giorni precedenti.  Ma non venne fuori niente. La Commissione di parlamentari preposta non riuscì a cavare un ragno dal buco. Renzi aveva chiesto “discontinuità proponendo di scrivere un documento programmatico comune. Ma Fico ben presto fece presente che non si poteva fare documento programmatico alcuno essendo costituzionalmente materia del Presidente del Consiglio incaricato. Faraone, di Italia Viva, chiese che si facesse almeno il verbale della discussione programmatica. Anche questo fu negato. E già era stata negata, per le stesse ragioni, la discussione sui cambiamenti dei ministri. I renziani premevano, infatti, per ottenere il cambio almeno dei ministeri chiave, o del premier. Invano. Il M5S non voleva accettare il cambio né di Conte né del ministro della Giustizia né di quella dell’Istruzione, in sostanza di nessuno. Italia Viva, che aveva aperto la crisi, avrebbe dovuto accontentarsi di tornare sui suoi passi come uno scolaro sospeso da scuola che rientri in classe, magari con un nuovo ministro o ministra: confermando il peggio del peggio detto sui suoi intendimenti. Naturalmente Renzi non poteva accettarlo.

   A quel punto i due partiti principali, M5S e PD, avevano due sole strade: o confermare la linea “o Conte o elezioni” optando per le elezioni anticipate (cosa molto difficile), o cambiare Conte, e il suo governo, con un altro (cosa possibilissima).  Ad esempio il PD, se non avesse voluto le elezioni anticipate, avrebbe potuto chiedere la presidenza del Consiglio per il proprio capo delegazione, Dario Franceschini, e in tal caso Di Maio avrebbe potuto diventare vicepresidente unico; oppure si sarebbe potuto fare l’inverso. Invece si vide (e già si era visto) che nessuno, neanche PD e M5S, voleva mantenere la conclamata linea “O Conte o elezioni”, risultata un ingenuo bluff; ma contemporaneamente nessuno voleva proporre un’alternativa a Conte. Il PD non voleva proporre un suo nome al posto di Conte – credo – perché dire – poniamo – Franceschini, al posto di Orlando o Zingaretti, era per esso difficile, per ragioni interne; il M5S non poteva farlo per Di Maio, essendo Conte quasi il capo in pectore del M5S, e dovendo tener conto pure delle possibili aspirazioni di Fico: senza contare il gioco di veti e controveti dentro un Movimento in palese crisi da molti mesi, sempre sull’orlo di una crisi di nervi (o scissione). Così non solo Conte non fu salvato, tramite un profondo rimpasto (possibile), ma neppure si provò a sostituirlo (cosa possibile). Né tanto meno si vollero elezioni anticipate.

   Dopo di che non restò che mettersi nelle mani del Presidente della Repubblica, che incaricò Draghi di fare un governo del Presidente senza coloritura particolare né limitazioni temporali. Così, per mancanza di alternative, l’obiettivo massimo di Renzi – avere Draghi presidente in un contesto da “grandi intese” – fu realizzato.

   Mi pare evidente che nella partita due partiti escano con le ossa se non rotte almeno molto, ma molto ammaccate: il PD e il M5S: con tutte le ridicole e autolesionistiche giravolte, e mancato protagonismo di governo, e copertura della poco nobile ricerca di transfughi tipo Mastella, di cui si è detto. Il M5S, poi, vedendo ridimensionata la sua rappresentanza e forza di governo, ed essendo costretto a dire di sì ai suoi nemici storici o nuovi, che voleva mandare in galera (Berlusconi e Salvini), è oggi probabilmente alla vigilia di una scissione, con contraccolpi anche in Senato. Quanto alla “sinistra”, dal PD a LeU, è costretta a scelte che la snaturano perché se le fa imporre come se si trattasse di olio di ricino. Ad esempio se in piena pandemia, che con i suoi novantamila morti e il blocco della produzione e commerci è una specie di guerra, il PD avesse proposto un governo di salvezza nazionale e altamente qualificato, come in altri momenti di emergenza nazionale aveva fatto il PCI, avrebbe avuto un ruolo da protagonista: mentre invece difendendo il pressochè indifendibile – e persino rifiutando, finchè i numeri non l’imposero, la via del compromesso con Renzi – ha denotato tutta la sua debolezza strategica e di leadership. Mi pare evidente che si è manifestata una grande crisi della sinistra o area progressista che, dopo la pandemia, porterà certamente a un grande confronto in quell’area, oggi sconfitta dalla storia. Credo che sarà una discussione storica, sia sulla linea che sulla ledership. Se il reale fosse razionale dovrebbe coinvolgere, oltre al PD, tutti e due i gruppi assurdamente usciti dall’utero del PD negli ultimi anni, LeU e Italia Viva. Ma sarà molto difficile.

    Nella “partita” sul governo conclusasi con la premiership di Draghi emergono comunque – al di là del M5S come del PD, che sono risultati incapaci di governare gli eventi senza un salvatore esterno (quirinalesco) – ben quattro (o cinque) vincitori: due sul terreno politico e tre “di fatto”.

   Il primo vincitore, sul terreno politico, è Matteo Renzi, che aveva voluto liquidare Conte e il suo Governo e sostituirlo con un governo di larghe intese con Draghi e c’è riuscito, senza neanche bisogno di “subordinate”, che pure con un PD più unito e coraggioso, e anche serio (per non dir del M5S) come si è visto sarebbero state possibili.

   Si può ben dire che Renzi abbia fatto la “mossa del cavallo”, quali siano state le sue ragioni soggettive, su cui ora non vorrei soffermarmi più che tanto. Col 2,5% non poteva certo più tornare ad aspirare – non essendo uno stupido, come ha totalmente dimostrato da un buon ventennio – a diventare il Macron italiano. Io sono portato a dare credito alla motivazione più palese, anche perché da molti mesi coincide con la mia opinione: la convinzione che far gestire 209 miliardi di euro in arrivo dall’Unione Europea da una squadra così palesemente inadeguata e squinternata come quella del Conte bis, fosse pazzesco. Come affidare un’auto della Formula Uno, in una corsa, a uno come me. L’8 febbraio è uscito sul “Corriere della sera” un interessante articolo-inchiesta di Milena Gabanelli e Danilo Taino, Così usammo il Piano Marshall. Concerneva i famosi miliardi che consentirono al governo De Gasperi e Luigi Einaudi, e poi al primo sotto l’occhio vigile del secondo diventato Presidente della Repubblica, di ricostruire un Paese indebitatissimo e devastato dopo la seconda guerra mondiale, sino a realizzare poi, in poco più di dieci anni da quel 1947, il “miracolo economico” che alla fine del decennio trasformò l’Italia da Paese agricolo-industriale in Paese industriale-agricolo, praticamente con piena occupazione. Bene, i due giornalisti-studiosi, tenendo conto dei valori monetari diversi, dell’inflazione, eccetera, calcolavano che l’Italia ebbe allora l’equivalente di 164 miliardi di euro. Ora se ne attendono almeno 208. L’idea che fossero gestiti da un Esecutivo fatto come si sa era, per me, demenziale. E a me pare quasi impossibile che non si veda che oggi è nato un governo qualitativamente migliore del precedente, in grado di gestirli al meglio, e quasi certamente meglio di tutti i governi europei in grave difficoltà economica. Certamente un po’ di continuità era fatale, ma nella squadra di Draghi, nei punti chiave, come Economia, Transizione ecologica, Giustizia e Istruzione, ci sono ministri tra i migliori che l’Italia unita abbia avuto. Neanche alle origini della Repubblica ci fu un governo migliore ed è possibile che Draghi non sia affatto da meno di De Gasperi.

   Può anche darsi che l’iniziativa di Renzi sia stata a suo tempo sollecitata da poteri forti: non già da forze oscure di chissà quale Capitale (mussolinianamente “demogiudaicoplutocratico”), ma semplicemente dell’Unione Europea, preoccupate dalla follia imperversante a Cinque stelle al potere in una materia in cui se il rilancio economico dell’Italia fallisse, salterebbe per aria, dopo la Brexit, l’Unione Europea. Gli storici del futuro un giorno troveranno le tracce e lo racconteranno ai nostri nipoti. Noi “veci” seguiremo da una nuvoletta.

  Può anche darsi che Renzi tendesse a riportare un’area di centro (di cui ormai può essere tornato a sentirsi parte, dopo essere stato cacciato a pedate dalla sinistra dai furboni che facendo fallire il suo referendum nel 2016 hanno fatto fallire il progetto socialista alla Tony Blair, che era un’alternativa democratica tra riformisti e conservatori). Può cioè essere che Renzi abbia voluto ripristinare la vecchia unione tra centro e sinistra purtroppo caratteristica del “riformismo senza alternativa di sinistra” che c’è nella storia d’Italia (tipo Cavour e Rattazzi; Vittorio Emanuele II e Garibaldi; Giolitti e Turati; De Gasperi-Togliatti e poi De Gasperi-Saragat; Moro e Nenni; o Moro a Berlinguer, e così via). Insomma può pure aver operato per portare Forza Italia con Italia Viva ad allearsi col PD, a scapito dell’alleanza con un M5S che egli ha sempre ritenuto di populisti culturalmente e politicamente inaffidabili, con cui talora è possibile convergere tatticamente (era stato lui a far nascere il “Conte bis” contro un possibile governo Salvini alle porte), ma non confondersi strategicamente in nessun modo.

   Ma può pure darsi che con quest’ultima battaglia, vittoriosa, Renzi – resosi conto che col 2% ci faceva la birra, abbia chiuso un ciclo d’impegno in Italia. Il progetto di Italia Viva, come quello di Liberi e Uguali, è totalmente fallito. Io l’ho detto e scritto per entrambi i “partiti” dal primo giorno. Ma Renzi può aver chiuso in Italia provando a giocare un ruolo decisivo pel dare al Paese un governo in grado di guidarlo nel bel mezzo della tormenta più grave dopo il 1945. Così ci avrebbe salutati alla grande. E tanti saluti a casa.

   Ma in fondo delle motivazioni di Renzi, che qui ho provato a dire per pura passione politologica, poco o nulla ci cale. Il risultato di governo per me è chiaro, e buono. A un punto tale che è condiviso da quasi tutti i partiti, Liberi e Uguali compreso. Tutti stupidi o opportunisti, amici miei?

    Ma c’è stato un altro, oltre a Renzi, che in queste circostanze accettando di governare con tutti gli ex nemici sotto l’ombrello di Draghi, ha fatto la “mossa del cavallo”, o meglio che dietro insistenza del suo Vice (Giancarlo Giorgetti) l’ha fatta: si chiama Matteo Salvini. Ha davvero scompaginato i giochi pure lui, perché il suo sì ha messo in una difficoltà mortale sia il PD che il M5S (ma soprattutto il PD). Naturalmente con una logica riduttiva si può vedere in ciò solo la volontà di cogestire la montagna di soldi che ci presterà l’Unione Europea, e che tra oltre trent’anni dovremo restituire. Ma c’è di più. Intanto c’è una fortissima pressione di tutto il capitalismo italiano del nord, in gran parte “salviniano”, ad accettare il governo più capace d’investire bene, e di non gettare dalla finestra, masse di quattrini (quello di Draghi). In pratica hanno detto a Salvini: “Caro Salvini, se tu non sostieni Draghi, noi smetteremo di sostenere te”.  Inoltre Salvini, se vuole diventare alle prossime elezioni, alla testa del presumibile partito di maggioranza relativa, Presidente del Consiglio, deve – tanto più dopo la sconfitta di Trump e il rallentamento della pressione sovranista in Europa – legittimarsi nell’Unione Europea come leader e partito di governo. Potrebbe persino entrare nel Partito Popolare Europeo, se le nespole matureranno. E tutto questo decorso, che riporta in un contesto liberaldemocratico il campione della democratura, per la democrazia non è affatto una cattiva notizia. Certo Salvini dovrà stare attento a non farsi soffiare il ruolo, di partito e di Stato, dal suo Vice, ma il rischio vale la candela. Quindi Salvini è il secondo vincitore di questa partita. È tornato al governo e ha gettato nel panico due partiti ormai suoi avversari mortali, PD e M5S, costretti a subirlo.

   Il terzo e quarto vincitore sono il Presidente della Repubblica, Mattarella, e il Presidente del Consiglio, Mario Draghi. Hanno messo in piedi il Governo della gente più autorevole e competente forse dal 1947, attraverso una specie di rivoluzione dall’alto. I partiti hanno accettato obtorto collo ed è tale il dislivello di capacità e influenza tra il Governo del Presidente (o dei due presidenti), e i loro nuovi ministri chiave, e i politici di modesto calibro influenti in tutti i “partiti”, che anche se questi ultimi certamente recalcitreranno (hanno cominciato subito), non potranno che produrre “molto rumor per nulla”. Il “molto rumor” è assicurato, ma pure il “per nulla”.

   Io questa soluzione l’approvo totalmente. Un Paese con 90.000 morti, come in una guerra, e con l’economia in ginocchio, come tra guerra e dopoguerra, unisce tutte le forze. Come nella “svolta di Salerno” del 1944 di Togliatti. E comunque mette in campo i migliori statisti ed economisti e opera in un contesto di unità nazionale (o formale o di fatto). Ce l’ha insegnato il PCI dal 1944. Cessato il pericolo (grande strage e rovina economica), ciascuno tornerà al suo gioco (per me col fine di fare l’alternativa di sinistra, che a differenza di quel che pensavano i comunisti stessi al di là dell’eccezione dovrebbe essere la norma). Noi italiani siamo ancora capaci di optare per l’unità nazionale in condizioni di vera emergenza nazionale. Non ci siamo del tutto rincoglioniti tornando a fare i Guelfi e Ghibellini, salvo una manciata di faziosi, che con le loro sprezzanti maledizioni o accidenti o elevano vani lai oppure fanno grandi guai.

    Così l’Italia supererà alla grande sia la prova della rapida vaccinazione di decine di milioni di persone che, soprattutto, quella della rinascita economica, e pure parzialmente ecologica, del Paese.

    E qui – aggiungendo un pizzico di fantapolitica (ma vi prego di considerarla tale) – azzardo una previsione ulteriore. Tutti pensano che Draghi durerà sino all’elezione del Presidente della Repubblica e che poi, probabilmente passando da Palazzo Chigi al Quirinale, toglierà il “disturbo”. Ci conterà lo stesso Draghi, che ha accettato per ragioni patriottiche, o altamente morali, senza desiderarlo affatto, l’invito di Mattarella. Alcuni già parlano di un governo balneare, ma io non credo affatto. Inoltre la politica ha una sua logica “contorta”. Credo che Draghi resterà sino al 2023, perché per realizzare i propositi minimi di portata storica (su pandemia, economia e Giustizia, e nuova legge elettorale) non gli basterà affatto un anno, ma tutta la legislatura residua. E non diventerà Presidente della Repubblica, come avrebbe potuto se non fosse diventato Capo del Governo.

    Ma – ecco la fantapolitica – può darsi che l’uomo del prossimo decennio, che senza enfasi né demagogia agirà come il Demiurgo che da anni si aggira, a causa della decadenza del Paese, come uno spettro in attesa di incarnarsi, sia proprio Draghi. Può darsi che oggi, e solo oggi, sia nata la seconda Repubblica (quelle dal 1994 a oggi io le direi Repubblica “uno e mezzo”, o “uno e quindici”). Il contesto istituzionale della democrazia rinnovata per ora è invisibile a tutti. Ma prendete questo come un gioco d’immaginazione.

   C’è, infine, un quinto vincitore. E vedendo che lo evoco vorrete scusarmi. Cercherò di farlo nel modo meno retorico e sciovinista possibile. Si chiama ITALIA. In questi giorni ho pensato spesso a un romanzo bellissimo di un francese che si chiamava Henry Bruland (in arte Stendhal), che era venuto a Milano al seguito di Napoleone e poi tornato in Francia, ma si era innamorato dell’Italia, a un punto tale che sulla propria tomba volle che fosse scritto: “Henry Bruland, milanese”. Il romanzo è La Certosa di Parma (1839). Vedeva tutti i nostri difetti: il misto di passioni ardenti e di furberie da Scapino, la forza dell’amore, il gusto dell’intrigo e la propensione al tradimento. E al tempo stesso la grandezza d’animo. Se avesse visto la commedia degli equivoci di questi giorni, con tutti questi leader che giurano e spergiurano mutando parere in pochi giorni, invece di indignarsi si sarebbe cinicamente divertito. Ma non si sarebbe stupito che poi gli stessi partiti “italiens” abbiano avuto il senso di responsabilità, l’accortezza e la generosità di approvare tutti, in una situazione di emergenza, un capo di governo e un governo come quello di Draghi. Dimostrando una cosa di cui io sono convinto da anni: che l’Italia è sottovalutata e si sottovaluta, ma che nel bene o nel male dal 1848 è in cammino. Persino quando erra in modo criminale, o cade, il Paese si rialza, confermando la tesi di un grande storico medievista e poi contemporaneista, Gioacchino Volpe, espressa nel 1927 nel libro L’Italia in cammino (allora edito da Treves), che nel 1993 fu ripubblicato, su proposta di Massimo L. Salvadori, da Laterza. Da anni mi pareva fossimo in decadenza. Oggi vedo di nuovo la luce in fondo al tunnel: non si sa come finirà, ma l’Italia è nuovamente “in cammino”.

           (franco.livorsi@alice.it)

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.1. Allegoria del Buon Governo

.2. Effetti del Buon Governo

Due fra le opere più note dipinte da Ambrogio Lorenzetti all’interno del Salone della Pace del Palazzo Pubblico di Siena.

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