Dalla Grecia a Tortona

Mi chiamo Michele Ventura, sono nato a Patrasso in Grecia nell’agosto 1945. I primi quattordici anni della mia vita li ho trascorsi in un Centro Raccolta Profughi. La mia famiglia faceva parte dei 15.000 italiani che risiedevano da generazioni a Patrasso: intorno alla metà del 1800 emigrarono dalla Puglia. Vivevamo in armonia e nel rispetto reciproco con la popolazione greca, mantenendo la cittadinanza italiana e la fede cattolica. A differenza degli italiani che vivevano in Libia, una nostra colonia, o in Tunisia, un protettorato italiano, noi eravamo solo italiani da generazioni residenti in Grecia. Eravamo inseriti nei vari settori produttivi della città: artigianato, agricoltura, servizi portuali e soprattutto pesca. Mio papà Giovanni era proprietario e comandante di un peschereccio, il San Nicola, lungo 19 metri e con cinque uomini di equipaggio. Quando nel 1915 ebbe inizio la prima guerra mondiale, Giovanni, classe 1895, non si imboscò, venne in Italia e per tre anni servì la Patria nella Regia Marina. Fu affondato due volte e salvato dopo avere atteso per ore, di notte, i soccorsi. Durante il ventennio fascista le scuole erano gratis, c’era la mensa scolastica, non si pagava niente, quaderni, libri… tutto arrivava dall’Italia, perfino i grembiuli. Non tutti gli italiani di Grecia erano fascisti, alcuni lo erano per interesse. Nel periodo estivo i bambini, compresi i miei fratelli, venivano portati dalle navi Saturnia, Vulcania, Toscana in colonia a Riccione, Cattolica, Mondello vicino a Palermo. Il buon rapporto tra noi e i greci si interruppe con la dichiarazione di guerra e successiva invasione. Tutti gli uomini (tra cui mio padre) colà residenti, di età compresa tra i 16 e i 60 anni, vennero dai greci chiusi in campi di concentramento e vi rimasero per più di sei mesi. Furono liberati dopo l’occupazione italo-tedesca. L’Italia dichiarò guerra alla Grecia il 28 ottobre 1940 e lo stesso giorno Patrasso fu bombardata. Ironia della sorte la prima bomba cadde sulla scuola italiana, senza fare vittime: fortuna volle che quel giorno fosse chiusa per la ricorrenza della marcia su Roma (28 ottobre 1922). Durante i bombardamenti si entrava nei rifugi assieme ai greci, alcuni dei quali ci dicevano ironicamente: “Andatevene fuori, tanto Mussolini non vi bombarda perché siete italiani“! Quelli che ragionavano ribattevano: “Se Mussolini ha dichiarato la guerra che colpa ne hanno loro“?. Subito dopo seguì l’occupazione italo tedesca e i bombardamenti ripresero, questa volta ad opera degli inglesi. Durante l’occupazione i soldati italiani incendiarono interi villaggi e il destino dei civili veniva deciso sul momento, in base alle loro caratteristiche: le donne venivano stuprate e poi reclutate nei bordelli per soddisfare gli ufficiali dell’esercito, gli uomini trovati con le armi venivano fucilati sul posto, gli altri (compresi i bambini) finivano nei campi di concentramento. La Grecia giunse presto a una condizione di povertà insostenibile. Mancavano i viveri, l’occupazione italiana, supportata dall’esercito nazista, impediva al popolo di vivere dignitosamente. Per comprendere la portata delle angherie ai danni del popolo greco basti ricordare che più di metà delle morti registrate dalla Grecia durante la seconda guerra mondiale, cioè oltre 360.000, non avvenne nei campi di battaglia, ma fu causata da malnutrizione, eccessiva povertà e da tutte le altre conseguenze di un’oppressione che portò il popolo allo sfinimento. Questi crimini causarono l’espulsione di tutti gli italiani ed il loro forzato rimpatrio, alla fine della guerra.

L’Italia non aveva la possibilità di pagare i danni di guerra alla Grecia, così tutti i nostri beni vennero sequestrati e messi all’asta: questo fu il destino delle nostre due case e del peschereccio. Avvisarono mio padre dicendogli: “Preparati, il tal giorno devi partire“. Il mattino del 17 novembre 1945 eravamo pronti: caricammo le poche cianfrusaglie che avevamo su un carrello e le portammo giù al porto. C’era già la motonave greca – si chiamava “Patra“ (Patrasso), ci sistemarono sul ponte di coperta. Non c’erano cabine, non c’era niente. Impiegammo tre giorni ad arrivare a Bari, perché la nave dovette seguire una rotta predisposta dagli inglesi per sfuggire alle mine e durante questo viaggio ci fu pure una mareggiata fortissima.

A Bari, l’ Ente Comunale di Assistenza ci mise a dormire dentro un grande garage, per terra, tutti uno sopra l’altro, senza un materasso, senza niente. Da mangiare avevamo solo del riso bollito. Dopo una permanenza di qualche giorno ci caricarono sui treni, nei carri bestiame, e impiegammo una settimana ad arrivare a Bologna: il treno, in ogni stazione, si fermava su un binario morto e ripartiva dopo tre o quattro ore, percorrendo ancora 30 o 40 chilometri. In una di queste fermate, a Reggio Emilia, mio fratello Gigi (allora sedicenne), su indicazione di alcuni partigiani, andò nella sede del Partito Comunista dicendo: “Siamo sette famiglie di profughi su un carro bestiame, stiamo morendo di fame, senza acqua e senza nulla“. Queste persone si diedero da fare e ci portarono acqua, pane, salame, mortadella: non ricevemmo aiuto da nessun altro, solo da loro, dai comunisti. E noi non sapevamo neanche chi fossero.

Arrivati a Bologna ci caricarono sui camion e ci condussero nella stalla di una caserma. Misero della paglia per terra, accanto alle mangiatoie dei muli, per farci dormire: era il dicembre del 1945, faceva un freddo cane e nessuno dei miei fratelli aveva un cappotto o pantaloni lunghi. Mia sorella Nicoletta, di 4 anni, si ammalò subito di morbillo e ci misero in quarantena, all’ultimo piano di un palazzo: lì c’era il riscaldamento e quindi ci trovammo bene, nonostante non ci fossero materassi e dormissimo su coperte sistemate per terra. Restammo lì fino al giorno dell’Epifania: il 7 gennaio 1946 ci caricarono di nuovo su un treno, su un carro bestiame, e ci portarono a Novara, alla Caserma Perrone: restammo lì fino all’ottobre dello stesso anno, quando ci trasferirono a Tortona.

La Caserma Passalacqua (oggi sede del Municipio) dalla fine della seconda guerra mondiale e per più di un decennio ospitò gli esuli provenienti in gran parte dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia, oltre ai profughi rimpatriati dalla Grecia e quelli provenienti da Libia, Tunisia, Albania, Romania Francia, Egitto. Mario Silla, primo Sindaco di Tortona dopo la Liberazione (comunista, partigiano, membro del CLN,), messo davanti alla scelta fra militari e profughi, disse: “Piuttosto che prendere i soldati, prendiamo i profughi”.

Il 26 ottobre 1946 156 italiani di Grecia, inclusa la mia famiglia, vennero alloggiati nel Campo profughi di Corso Alessandria, uno tra i più importanti tra i 109 istituiti su tutto il territorio nazionale. Ci apprestavamo ad affrontare un inverno tra i più rigidi: nessuno di noi aveva mai visto la neve. La stragrande maggioranza degli esuli dall’Istria Fiume e Dalmazia arrivò invece dopo il Trattato di Pace del 10 febbraio 1947.

Fummo sistemati in una sola stanza, di 12 metri per 6, sita sotto il porticato al piano terra. Eravamo in 10: mamma papà e 8 figli (il nono nascerà nel 1949). Siamo stati tra i più fortunati perché, nella quasi totalità dei casi, lo stesso spazio veniva condiviso da più famiglie, separate da semplici compensati, coperte di casermaggio e masserizie. A ogni famiglia furono consegnati letti militari, materassi di paglia, vecchie coperte di casermaggio, gavette, posate, bicchieri, tutto rigorosamente in alluminio e marchiato con la targa del Ministero dell’Assistenza Post-bellica. Gli spazi abitativi, pur nella loro estrema precarietà, venivano tenuti puliti e in ordine. Mi preme ricordare che gran parte delle difficoltà vissute dai profughi vennero vissute anche da molte famiglie tortonesi. La guerra era appena finita e c’era povertà dappertutto.

La Direzione amministrativa, facente capo alla Prefettura di Alessandria, era ubicata all’interno della caserma, con personale dello Stato e un Direttore che alloggiava, insieme alla famiglia, in un appartamento adiacente gli uffici amministrativi. La direzione sovrintendeva i vari servizi: l’infermeria, l’ufficio postale, il pagamento dei sussidi e l’iscrizione dei nuovi arrivati. I profughi non erano inseriti negli elenchi anagrafici del Comune di Tortona, non facevano parte della popolazione residente. La Direzione Amministrativa del Campo provvedeva alla compilazione di schede anagrafiche individuali dei profughi ospitati: è stato il dr. Ernesto Susigan, profugo dalla Libia, che nel 1995, ha trascritto con pazienza certosina le 6.500 schede dei profughi transitati nel periodo 1946/1961, creando degli elenchi e computerizzandoli.

All’ingresso del Campo c’era il corpo di guardia, presidiato giorno e notte dalla Polizia di Stato, che con discrezione controllava chi entrava e chi usciva, specie i non profughi, intervenendo in caso di intemperanze. A mezzanotte il piantone chiudeva il portone, pronto a riaprirlo per i ritardatari andati al cinema o a ballare.

E’ chiaro che questi “alloggi” erano sprovvisti di acqua corrente e servizi igienici privati. Per la pulizia personale si usavano bacinelle e i bagni pubblici di Tortona. Le stoviglie venivano lavate nelle fontane militari del cortile, con il tubo orizzontale bucherellato per favorire la distribuzione dell’acqua, e nei bagni al 1° e 2° piano, in estate e inverno. Il bucato si faceva in pentoloni d’acqua scaldata sotto il porticato su bidoni modificati a mo’ di stufa, con lisciva, sapone di Marsiglia e olio di gomito.

Nei pochi bagni presenti i servizi igienici erano composti da “turche” protette da porte precarie e ridotte, che molti (soprattutto le giovani donne) rifiutavano di usare, preferendo arrangiarsi in qualche modo nelle stanze, in angoli – sempre riparati da coperte – allestiti per provvedere ai bisogni in modi per nulla diversi da quelli in uso nelle celle carcerarie: buglioli (secchi di zinco) per un terzo riempiti d’acqua mescolata a varechina, dove vi si faceva pipì e popò, che venivano poi svuotati nei tombini delle fogne ubicati nel cortile, presso le fontane. Dopo una forte nevicata, con 70 cm. di neve, visto che non si poteva raggiungere il tombino, i buglioli vennero svuotati lanciandone il contenuto nella neve. In primavera, con il disgelo, iniziarono a riemergere i “sommergibili”, fra commenti sarcastici e ilarità. D’inverno venivano forniti 50 Kg. di legna per ogni componente il nucleo familiare, un quantitativo insufficiente a riscaldare le vaste camerate; ciò spiega l’uso abbastanza diffuso di sistemi di riscaldamento improvvisati come bracieri, ecc.

Al 1° piano della caserma, vicino ai locali della Direzione, venne quasi da subito allestita un’infermeria: il medico era presente solo la mattina, l’infermiera tutto il giorno. Vi si affrontavano i casi urgenti e si faceva anche assistenza quotidiana di tipo diagnostico e terapeutico di base, come in ogni altro studio medico di famiglia tortonese; qui però si suturavano ferite, si steccavano le contusioni, si procedeva anche ad interventi odontoiatrici. Si trattava di un vero e proprio ambulatorio polifunzionale, anche se certamente non dotato di tutti i mezzi necessari. Le difficoltà implicite dell’esodo, e soprattutto le carenze igieniche e alimentari, scatenarono casi di scabbia e tubercolosi; alla metà degli anni ’50 scoppiò una piccola epidemia di tifo, morirono alcuni profughi e l’allarme si diffuse anche in città. L’assistenza sanitaria venne comunque garantita dal Ministero dell’interno, attraverso gli incaricati della Prefettura, che stipularono accordi con l’Ospedale di Tortona, provvedendo al pagamento dei ricoveri.

All’inizio il problema dell’assistenza fu soprattutto alimentare: i “greci” rifiutavano le minestre e le verdure cotte e consumavano cibi cucinati al forno, spesso piccanti. La famosa soup del piano Marshall, una specie di farinaccio di piselli e ceci macinati, dal gusto dolciastro, distribuito dagli addetti della prefettura, veniva sistematicamente passata ai giuliani in cambio di altri cibi. Questi ultimi consumavano molta polenta, pesci, brodo insaporito, in mancanza di carne, soprattutto da ossa. Un’unica cucina inizialmente provvedeva a rifornire tutti i residenti, ma, a causa di queste difficoltà, si optò in seguito per due cucine separate: quella dei giuliano-dalmati e quella per i “greci”. Veniva servito soltanto il pranzo e il menù quotidiano era deciso da commissioni di cui facevano parte gli anziani delle due comunità. Il numero dei presenti nel “Campo” era comunicato ogni giorno dagli uffici amministrativi, che assicuravano le forniture alimentari: i pasti venivano consegnati presentando l’apposita tessera rilasciata dall’amministrazione.

Dal 1947 venne assegnato un sussidio di lire 5 al giorno pro capite, interrotto nel momento in cui qualcuno trovava lavoro. Nelle famiglie in cui qualcuno lavorava si acquistavano cibi che venivano cucinati sulle spiritiere, piccoli fornelli alimentati con alcol; in seguito si inizieranno a usare bombole di gas.

La corrente elettrica veniva erogata dall’imbrunire all’alba nei giorni feriali e per tutto il giorno di domenica e nelle festività: Natale, Pasqua, 1° gennaio. La corrente era utilizzata soprattutto per illuminare le abitazioni (un’unica lampadina con il piatto): non c’erano elettrodomestici, si stirava con il ferro a carbone, e solo in seguito sarebbero comparsi i ferri da stiro elettrici e le prime radio, da non usare contemporaneamente per non causare black-out all’impianto centralizzato. Erano i tempi di Coppi, del “Grande Torino”, e i giovani profughi erano tutt’altro che insensibili alle loro imprese, ma difficilmente la domenica andavano nei bar frequentati dai tortonesi: bisognava quindi inventarsi qualcosa. Al 2° piano del padiglione affacciato su corso Alessandria, proprio sopra gli uffici della direzione, abitava tale Spaccapietra, che si era ritrovato un’inattesa fortuna: i cavi della corrente elettrica di servizio per la città passavano giusto un paio di metri sotto la sua finestra. La necessità aguzza l’ingegno: si creò un allaccio con un cavetto a rampino e presto iniziò l’andirivieni domenicale verso il 2° piano. Naturalmente l’espediente ebbe breve durata, perché i movimenti non sfuggirono alle guardie che stazionavano proprio di fronte allo scalone.

A destra dell’ingresso principale, di fronte al corpo di guardia, si trovava l’ufficio postale. Ogni giorno veniva compilata una lista dei destinatari di lettere e pacchi, che era poi affissa in una bacheca posta sotto il porticato. Nei momenti di grandi smistamenti, come Natale e Pasqua, si indicevano pubbliche chiamate, proprio come nell’uso militare. Nella Chiesa, allestita nel salone dell’ex circolo ufficiali (oggi aula consiliare), dove il 1° novembre 1946, festa di Ognissanti, don Francesco Remotti celebrò la prima Messa, si tennero battesimi, comunioni, funerali, matrimoni: dal 1946 al 1971 i matrimoni furono 156. Le funzioni religiose erano molto partecipate: ho spesso visto intere famiglie di esuli (persone che, ricordiamolo, avevano perduto tutto) raccolte in preghiera davanti all’altare, in ginocchio, il giorno prima di partire con il piroscafo da Genova. La nave li avrebbe condotti a costruirsi una nuova vita in paesi a loro sconosciuti: Argentina, Stati Uniti, Canada, Australia.

Don Francesco è il sacerdote maggiormente ricordato dai profughi; aveva una parola di speranza per tutti e lavorava duramente per trovare soluzioni occupazionali e dirimere conflitti. Egli sapeva bene che con il lavoro ci si poteva affrancare dalla precarietà e dall’indigenza, riscattarsi e ritrovare la speranza in un futuro migliore. Tramite le sue amicizie e conoscenze, si fece letteralmente in quattro per aiutare i profughi a trovare un’occupazione nell’industria, nell’edilizia, nell’artigianato e nell’agricoltura, nonché nelle case dei tortonesi, dove andarono a servizio decine di donne (le odierne colf): don Francesco era solito dire: “i giuliano dalmati hanno pulito tutte le case di Tortona”. Una legge americana dava la possibilità di emigrare a chi aveva parenti negli Stati Uniti e da alcuni Paesi ove risiedevano comunità italiane giunsero richieste di manodopera, soprattutto di sarte confezionatrici: don Remotti istituì, nei locali del Campo messi a disposizione dalla Direzione, corsi di taglio e cucito e corsi di inglese con insegnanti tortonesi, e grazie a questi corsi almeno 300 ragazze riuscirono a partire. Le famiglie, richiamate dagli stessi emigrati, riuscirono spesso a ricongiungersi. Molti, soprattutto tra gli istriani, si trasferirono in Argentina, Australia, Svezia, Stati Uniti, Canada, ma anche in grandi città italiane, Milano, Genova, Torino: erano i tecnici dei silurifici di Fiume e degli arsenali militari. Anche per loro vennero organizzati corsi di lingua inglese e il don diede una mano a tutti nel disbrigo delle complesse pratiche burocratiche per l’espatrio.

L’asilo, gestito dalle suore della Congregazione delle Piccole Figlie del Sacro Cuore di Gesù di Sale (AL), ospitava ogni giorno 60/70 bambini, a cui venivano date la refezione e la merenda. Le suore abitavano in modo permanente nel Campo, fornendo alle famiglie dei profughi un importante servizio di assistenza spirituale e materiale. Nei periodi più duri, le suore preparavano e distribuivano alla sera il latte (in polvere, made in U.S.A.): un mestolo per ogni componente della famiglia, che i profughi ricevevano stando in fila con le loro gamelle. Per molti rappresentava la cena.

Fino al 1949 all’interno della Caserma funzionavano anche le scuole elementari, poi trasferite in quelle della città, con una caratteristica: le classi erano composte da solo bimbi profughi di ambo i sessi, mentre i bambini cittadini avevano classi maschili o femminili. Tale “discriminazione”, che finì nei primi anni ’50, era dovuta a qualche famiglia tortonese che non gradiva l’accoppiamento con i bimbi profughi in quanto “sporchi, portatori di pidocchi e malattie.

Mio papà, verso la fine degli anni ’40, era frequentatore di un bar cittadino quando sentì alcuni avventori che criticavano i profughi con frasi del tipo: “se c’è un lavoro lo danno a loro, se c’è un alloggio anche”. Mio padre, che di statura non era molto alto, salì su un tavolino del bar e li arringò ricordando loro che aveva servito la Patria in Marina, che più volte rischiò la vita per il suo Paese, che il 3 novembre 1918 era sulla nave Audace, prima nave della Regia Marina che entrava in Trieste italiana accolta da una folla esultante e che, per ricordare quell’evento, i triestini chiamarono “Audace” il molo che sorge davanti alla loro bella Piazza dell’Unità. Gli avventori, leghisti “ante litteram”, uscirono scornati dal bar.

Il “Campo” è pur sempre un affollato villaggio, ove si creano richieste di ogni tipo e alle quali si può rispondere con servizi commerciali e artigiani, istituendo un principio di economia interna, certamente transitorio, ma sicuramente indispensabile per il superamento delle fasi critiche (dal 1947 fino alla fine degli anni ‘50, quando i quattro padiglioni pullulano di gente soggiogata dal bisogno e così indifesa da non allontanarsi, spesso, dallo stesso “Campo). La prima iniziativa la prendono i “greci”, in maggior parte provenienti da Patrasso, molti dei quali pescatori, che in “Campo” devono inventarsi in qualche modo un mestiere. Cominciano a piazzare sotto i portici banchetti di frutta e verdura. La merce viene in genere acquistata dai ragazzi che si recano all’alba, muniti di carretti, al mercato coperto della città. Altri vendono il latte, la biancheria intima, passando casa per casa a mostrare la merce; qualcuno fa il pescivendolo. In alcune stanze, soprattutto al piano terreno, si installano anche diversi artigiani: un materassaio e cardatore, un falegname, un sarto, alcuni barbieri, un meccanico ciclista, una maglierista, un fotografo, un calzolaio. Più avanti, addirittura – siamo intorno al 1952 – forse anche allo scopo di dirimere alcuni conflitti di concorrenza – i “commercianti”, invitati dal direttore, istituiscono una cooperativa di consumo di carattere prettamente alimentare (ma funzionante anche come drogheria). Dodici sono i soci fondatori (tra i quali mio padre). In cooperativa si vende di tutto, dal pane alla frutta, alla pasta, al riso, agli insaccati, al vino, al latte, ed anche generi non alimentari come il petrolio. Tutto eccetto la carne, per la quale necessitano particolari autorizzazioni di vendita. Il cliente entra, si munisce di un biglietto numerato sul quale vengono segnati gli importi relativi agli acquisti, e alla cassa il ragioniere fa la somma riscuotendo il denaro. Funziona anche un registro dei creditori, le cui pagine sono abbastanza fitte, date le condizioni di vita di molti clienti. I soci, nelle loro periodiche riunioni indette per discutere l’andamento della cooperativa, discutono anche se sospendere la concessione del credito a chi da tempo non paga. Diversi soci sono per la linea dura. Poi prevale il buon senso e la solidarietà, quando un socio prendendo la parola dice: “questa donna ha quattro figli e il marito disoccupato, non le daremo il prosciutto, ma il pane ed il latte non glielo possiamo negare”. Proposta fatta da mio padre che di figli ne aveva 9.

Natale in Campo. Ogni famiglia preparava, come poteva, il presepe e l’albero di Natale, il quale era adornato con mandarini, fiocchi di cotone, noci e mandorle avvolti nella carta stagnola. Naturalmente l’albero veniva spogliato (dai bambini) ben prima dell’Epifania. Specialmente nei cameroni, dove le famiglie erano divise da cartoni e coperte, si spandevano i profumi dei dolci natalizi, secondo i Paesi di provenienza: Venezia Giulia e Dalmazia (le Pinze), Grecia /Dodecanneso (Kourabiedes), per la Tunisia erano i tipici dolci della Sicilia. Durante le feste natalizie, mio padre, alla sera dopo cena, ci radunava attorno alla stufa e ci raccontava (a puntate) la storia dei Paladini di Francia (dall’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto), con Orlando, Rinaldo, Angelica, il cavallo Baiardo, la spada Durlindana. A questi racconti partecipavano anche i bambini delle famiglie vicine, con il solo obbligo di portarsi uno sgabello. Partecipava anche un non profugo, un tortonese (amico di mio padre), che ci veniva a trovare avvolto nella sua “pellegrina” (Mantello). Noi non avevamo niente, ma lui era ancora più povero e la mia mamma, pur avendo da provvedere per 9 figli, gli preparava un fagottino con del mangiare da portarsi a casa, mettendo in pratica quanto ci insegnava: “dove si preparano 10 piatti ci esce l’undicesimo e anche il dodicesimo”. Noi bambini, a Natale, non ricevevamo regali. Le nostre famiglie non ne avevano la possibilità. Nel giorno dell’Epifania, grazie alla Prefettura di Alessandria e all’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (Associazione che rappresenta i profughi), ricevevamo dei giocattoli. Un anno, fu chiesto, preventivamente, alle mamme se volevano per noi bambini i giocattoli o le magliette intime di lana. Le mamme optarono per le magliette. Non vi dico le scene di disperazione, quando i bambini, durante la cerimonia di consegna, aprirono il pacchetto e, invece del giocattolo, trovarono la maglietta. Le autorità presenti corsero ai ripari e in breve tempo arrivarono i giocattoli. La rivolta. Verso la fine degli anni ‘40 le condizioni di vita interne al “Campo” sono drammatiche e la disperazione, dovuta al sommarsi di varie cause (lontananza dai luoghi nativi, mancanza di lavoro, oggettiva ostilità della popolazione tortonese), provoca proteste, il cui culmine viene raggiunto con la rivolta scaturita dalla visita del Prefetto di Alessandria nel luglio 1949. Il 1° luglio del 1949 il Ministero dell’Interno aveva abolito ogni forma di assistenza alimentare alle popolazioni ospitate nei vari “Campi”, per sostituirla con un sussidio monetario: 100 lire al capofamiglia più 45 lire ad ogni singolo membro. La reazione in Corso Alessandria è decisa, gli abitanti del “Campo” si recano in delegazione da don Remotti, chiedendo spiegazioni e aiuto, e il sacerdote assicura un suo personale intervento. La Pontificia Commissione Assistenza lancia immediatamente un appello a mezzo stampa, nelle chiese, dal titolo “Diamo pane ai profughi”, perché si faccia fronte all’imprevista situazione, facendosi carico di allestire una mensa improvvisata in “Campo” (con l’aiuto delle suore), in cui fornire ai bambini fino ai 12 anni e ai vecchi “latte a colazione, minestra a mezzogiorno e sera, oltre a 200 grammi di pane procapite”. Il vescovo Egisto Melchiorri lancia a sua volta un accorato appello, aprendo, con una personale offerta di lire 20.000, una sottoscrizione fra i tortonesi; quindi invita il prefetto De Sena, appena insediato, a venire a Tortona per rendersi conto della situazione. Nel pomeriggio di uno dei primi giorni di luglio il capo di gabinetto della Prefettura telefona a don Remotti, avvertendolo che il Prefetto è partito alla volta di Tortona. Dopo aver atteso inutilmente un paio d’ore, il sacerdote mette in allarme la Curia e il vescovo. In realtà il Prefetto aveva preferito andare direttamente in Caserma; il gesto, che avrebbe voluto rappresentare un segno di apertura, viene mal accolto dai profughi che circondano l’auto del rappresentante del governo, chiudono il portone d’ingresso e tagliano i fili del telefono. L’intervento del cappellano don Vittorino Pollastri riesce in qualche modo a quietare gli animi e l’auto viene fatta uscire, anche se con qualche difficoltà (il portone d’ingresso viene letteralmente tirato dietro l’auto che sta uscendo). De Sena, forse per riparare alla leggerezza compiuta, si reca dal vescovo, in qualche modo peggiorando ulteriormente la situazione; un folto gruppo di giovani profughi (circa 200) lo segue protestando fino in piazza del Duomo. La situazione si fa drammatica e alcuni profughi esasperati cercano di arrampicarsi sulle grondaie della Curia. Il Prefetto vorrebbe far intervenire la “Celere”, ma monsignor Merchiorri non ne vuole sapere ed esce alla finestra a parlare con i manifestanti, assicurando che sosterrà le loro esigenze e difendendo il Prefetto medesimo in quanto semplice rappresentante della volontà del governo. Gli animi si calmano, ma l’auto di De Sena viene prudentemente fatta uscire da una via secondaria. In certi momenti la Caserma ospitò contemporaneamente più di 1500 persone. Noi bambini eravamo tantissimi, e avevamo a disposizione un cortile immenso (100 metri per 100), dove giocavamo al pallone, a nascondino, a pindolo (cirimela), ai quattro cantoni, ci arrampicavamo sugli alberi alla ricerca di nidi, con le fionde colpivamo le bottiglie di vetro (e non solo), facevamo esplodere i barattoli vuoti di conserva con il carburo (gas di acetilene) e praticavamo tanti altri giochi di gruppo che i bimbi di oggi se li sognano. Avevamo formato due “bande”: una composta da bambini giuliano dalmati e l’altra da bambini greci, che si affrontavano con fitte e frequenti sassaiole (tipo “I ragazzi della via Pàl”) Durante queste “battaglie” per due volte (nella stessa settimana) sono finito con la testa rotta al pronto soccorso cittadino. Ed è in questo clima che si svolge la storia che vado a raccontare e che ha come protagonisti il sottoscritto, una suora e una pantegana.

Era una domenica pomeriggio d’estate, attorno al 1955-56, io avevo 10 o 11 anni, e in Cappella (oggi aula consiliare) venivano come al solito celebrati i vespri; ma, come non di rado succedeva, quella volta non vi partecipai, per indolenza o semplice spirito di contraddizione. Finita la funzione, tutti i bambini, maschi e femmine, si recarono nella sala tv (adiacente alla mia abitazione sotto il porticato) per vedere un film della serie “Rin tin tin”. Volevo anch’io entrare, ma fui fermato sulla porta dal mio amico Aldo il quale, incaricato dalla suora, mi disse: “non ti pol veder la television perché non ti xe vegnudo al vespro” (la “lingua” parlata in Campo dai bambini era quella giuliano-dalmata, in quanto la maggioranza dei profughi era di origine istriana, fiumana e zaratina). Mi ritrovai così in quell’immenso cortile senza alcun compagno con cui giocare. Cosa fare? Mi ricordai che presso la porta carraia vicino alla buca dello scovazzon (le scovazze sono, in italiano, le immondizie), vi erano i “servizi igienici” (in pratica alcune turche), al cui centro era un piccolo tombino, che conduceva alla fogna e che serviva a far defluire l’acqua durante le pulizie. Da quel tombino sapevo che spesso e volentieri uscivano delle pantegane, grossi ratti di fogna. Detto fatto, senza far rumore, mi avvicinai a queste latrine e riparato da un muro sbirciai dentro il locale, avendo presto conferma alle mie previsioni: 5 o 6 panciute pantegane erano in libera uscita. Pensai: “se entro all’improvviso e di corsa non riusciranno a rientrare nel tombino tutte insieme, da dove sono uscite una alla volta”. Misi in atto il piano: una volta entrato – come previsto – le pantegane cercarono di scappare tutte assieme nel tombino, ma una non vi riuscì e potei raggiungerla e sbatterla con diversi calci contro il muro, finché non rimase stecchita. Cercai tra le immondizie un filo di ferro con il quale la legai per la coda (ero sì uno scavezzacollo, ma mi faceva ribrezzo toccarla con le mani). Con la pantegana appesa al fil di ferro e nascosta dietro la schiena mi recai presso la sala tv, bussai, e quando venne Aldo ad aprirmi ripetendomi: “te gò deto che non ti pòl…”, gli esibii la bestia. E lui, essendo un “bandito” peggiore di me, non batté ciglio e disse: “vado a ciamar la suora”. Avendo campo libero, entrai con la pantegana nella sala tv folta di una sessantina tra bambini e bambine: fu il panico generale e le bambine terrorizzate urlavano come ossesse. Arrivò la suora che mi gridò: “Michelino, getta via quel topo!” Le risposi con una sghignazzata. Lei raccolse la veste tra le mani e iniziò a rincorrermi, mentre con la pantegana facevo lo slalom tra le panche. A un certo punto pensai: “suora o non suora, sempre donna è, e dei topi avrà paura”. Mi fermai di colpo e con aria di sfida alzai la pantegana verso di lei. Accadde l’impensabile: la suora, furibonda, con la mano sinistra mi afferrò e con l’altra prese la pantegana strofinandomela sul muso. Uscii di corsa nel cortile, e urlando “che schifo! che schifo!” mi gettai verso la fontana a lavarmi più e più volte la faccia. Da quella volta ho sempre avuto grande rispetto per le suore e imparato a non nuocere agli animali e non provocare il prossimo oltre misura. Il Campo Profughi di Tortona, aperto nell’ottobre 1946, chiude nel settembre 1959 con l’assegnazione dei tanto sospirati alloggi popolari (38 mq. cadauno) di via Saccaggi a Tortona e di quelli in Via Martiri della Benedicta ad Alessandria. Fu riaperto agli inizi degli anni ’60 per accogliere gli italiani profughi dalla Tunisia. Chiuso definitivamente nel 1971. Nel periodo di apertura sono state ricoverate ed assistite più di 10.000 persone, molte delle quali hanno trovato sistemazione definitiva a Tortona.

Michele Ventura

Tortona, 4 aprile 2023

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