David Cronenberg 75: auguri maestro!

Lo scorso 15 marzo il grande cineasta di Toronto ha celebrato un importante compleanno. Il 26 gennaio il Circolo del Cinema di Tortona (forse anche in omaggio alla pur vaga assonanza Tortona/Toronto…), nel quadro del suo ciclo permanente e ricorrente dedicato allhorror, ha organizzato lappuntamento Plasmare i confini del reale. Il cinema di David Cronenberg, affidandone la relazione introduttiva  a Emanuela Martini, direttrice del TTF, affiancata da Nicola Santagostino. Il testo che segue è desunto da appunti fissati durante lesposizione dell’amica Emanuela, ma non è stato rivisto dalla relatrice: responsabilità di eventuali imperfezioni o lacune sono quindi addebitabili in via esclusiva a me. Loccasione ha prodotto due ulteriori riflessioni sul maestro canadese -dello stesso Nicola Santagostino e mia- di prossima pubblicazione col n. 583 (aprile) di «Cineforum».  (Nuccio Lodato)

Ha settantacinque anni, ed è uno degli autori con la A maiuscola del cinema occidentale: tace da cinque con la sola eccezione di un corto del 2016. Forse non farà più film -lo ha detto all’ultima Venezia ritirando il suo sacrosanto Leone alla carriera – o forse si limiterà anche lui a serie Netflix. E’ stato anche, a lungo, un autore molto “dubbio” per una parte della critica: ma anche a questo arriveremo.

Ha sulle spalle mezzo secolo di intensa carriera provenendo, come ha giustamente sottolineato Gianni Canova nel “Castoro” dedicatogli, da quella “terra di mezzo” che è il Canada anglofono -quindi americano ma non statunitense- che nei suoi primi film, peraltro di ambientazione urbana (la natìa Toronto), viene raffigurato peraltro in esterni con connotazioni tendenzialmente quasi desertiche. Sebbene prevalgano gli interni, anche per evidenti motivi di low budget. Il sociale, insomma, almeno in apparenza, in questa sua prima fase non c’è: il contesto effettivo resta quasi sotterraneo. Americano senza originarie urgenze hollywoodiane, insomma.

Ambiente nativo intellettuale: padre giornalista, scrittore, editore e madre musicista. Cresciuto in mezzo ai libri, Burroughs e Nabokov tra gli autori prediletti. La bivalenza degli studi è precorritrice dei suoi interessi: la laurea è in lettere, ma gli interessi prevalenti si affacciano su chimica e biologia, e questa unione di scienza e tecnica con l’umanesimo prelude alla sua cifra artistica caratterizzante: l’unione della materia non vivente con mente e corpo. Così, negli anni universitari da una parte scrive racconti, dall’altra ama svisceratamente tutte le “macchine”, e in particolare le automobili: c’è in nuce l’operazione Red Cars che produrrà libro, mostra e progetto di film a tutt’oggi non più realizzato. Scrive però racconti.

Ma anche l’amore per il cinema si manifesta già durante l’università: i primi corti con gli amici partono da lì, dal bianco e nero si passa al colore, dalle sperimentazioni povere con voce off gradualmente al dare una dimensione professionale all’iniziale passatempo. Shivers, Rabid e Brood le prime tappe -a basso costo- di questa evoluzione: storie di contagi e contaminazioni. Poi salto di qualità e importanza con Scanners (con la celebre sequenza della testa dello scanner “buono” che viene fatta esplodere da quello malvagio), La zona morta col traino del romanzo di King e Videodrome che gli dà fama anche senza di quello, imponendolo in via definitiva all’attenzione internazionale. Qui il rapporto col cinema e la tecnologia della visione è materializzato attraverso una tv locale impostata su sesso e violenza, poi inghiottita da un format acquistato, in grado di mescolarsi con quanto è sul teleschermo.

Si crea il culto Cronenberg, in aree peraltro piuttosto ridotte di ammiratori. Ne La zona morta entrano anche i primi elementi di mutilazioni, che poi saranno costanti del suo lavoro. L’attenzione generale si concentra sul “re dell’horror venereo” (nelle sue prime opere molto spesso il contagio si trasmette sessualmente) oppure sul “barone del sangue”. Un autore che anticipa il cyber punk e si pone insieme come il guru della deriva dei media prevista decenni prima dal suo concittadino McLuhan.

Bisogna ripensare a quanto succedeva dal ‘75 al ‘90 nell’horror. L’aveva rilanciato già Romero nel ’68 con La notte dei morti viventi e il suo successo mondiale nonostante la serie B: il genere riconquista progressivamente il favore peraltro sempre goduto del pubblico, a differenza di quanto avveniva con la critica. Romero prosegue con la trilogia degli zombies. Decollano quindi Carpenter, che dopo Distretto 13 fa Halloween, Fog e via dicendo; Craven dal ’74 con L’ultima casa a sinistra, poi Le colline hanno gli occhi, poi negli anni ’80 i Nightmare; Tobe Hooper (Non aprite quella porta, Quel motel vicino alla palude e passerà a Poltergeist); Sam Raimi con la trilogia della Casa; George Miller con Mad Maxi. Aggiungo altri due grossi autori: Brian De Palma che nel ’73 ha fatto Sisters, poi Il fantasma del palcoscenico, Carrie e nel ’78 Furie, che pur col budget più alto ha molte connessioni con Scanners. Nel ’76 David Lynch esordisce con Erasehead, poi nell’80 Elephant Man e nell’86 Blue Velvet. E tantissimi altri. Nasce con loro il new horror, ma i successivi, tardivi e relativi remakes non varranno niente rispetto agli originali, perché si limitano a lavorare con gli effetti speciali anzi che sul senso interno.

E’ una delle materie su cui la critica italiana si divide: o non considera il genere, o ne etichetta le manifestazioni come splatter e gore sensazionalistico, nonostante tutti questi film girassero girassero per le sale regolarmente e con ottima accoglienza. Negli intenti degli autori, Romero e Cronenberg in testa, si trattava invece di metafore attinenti agli Stati Uniti e più in generale all’occidente, direttamente innestati sul filone della New Hollywood, come testimoniava il doppio registro di attività dei più significativi tra loro, da De Palma a Carpenter. Un genere sofisticato e “teorico”, anche se popolare e godibile: più politico/metaforici Romero e Carpenter; sperimentalista di visione e sguardo De Palma, che comincia facendo della nouvelle vague americana; Lynch poeta surrealista.

Cronenberg è all’epoca il più “filosofico”, maggiormente vicino a De Palma (sguardo, responsabilità, complicità e spettatore) che a Carpenter. E’ quello che si interroga di più sulle implicazioni morali, senza moralismi o riferimenti religiosi. S’interroga sulle responsabilità di chi fa i film, di chi ci è dentro e di chi li guarda: un mondo chiuso di riflessi e di riflessioni. Le implicazioni del progresso collegate alla natura umana e non umana: è il più intellettuale e il meno viscerale. Mentre De Palma esplode nella forza della visività, lui è assai più sorvegliato anche quando dispone di grandi mezzi: esercita su di sé un controllo molto preciso, senza passionalità esplicita, anche il fondo è molto doloroso e dolente. Lampante esempio tra i molti possibili: il rovello di dolore del protagonista di Zona morta, con la sua solitudine e telepatia che lo isola da tutto e da tutti. Non è esplosivo e visionario (nonostante nei suoi film siano frequenti le esplosioni), ma la materia resterà sotto controllo anche quando disporrà di molti mezzi. Non è propriamente un freddo, ma neppure certo un passionale. Nazzaro nella voce dedicatagli per la Treccani Cinema enumera benissimo le sue costanti: «il contagio e la mutazione, l’ibridazione dei corpi, le allucinazioni della mente, la contaminazione tra biologico e tecnologico, tra virtuale e corporale, tra patologico e anatomico, tra organico e inorganico» cui aggiungerei, per quanto la contaminazione sia sempre tra coppie, quella del doppio che è un altro tema fondante, suo ma esteso del resto a tutto il genere.

Come nella cui più classica tradizione, in tutto il suo primo periodo ritorna la figura di un medico (o scienziato o ricercatore) che spesso -se non sempre- è l’origine del male, anche se non necessariamente impersonante il male stesso. E sempre il tema appunto della duplicazione, interessantissimo già in Scanners.

In un dossier del British Film Institute all’inizio degli anni Ottanta, quindi dopo quattro-cinque film di Cronenberg, Scorsese racconta della sua visione dell’opera prima, Shivers, e descrive la propria reazione inizialmente negativa: “uno stato di crescente choc e depressione”. Cambia poi idea sul film, quando si accorge che,  a un anno dalla visione, non riesce a staccarsene col pensiero: dopo ne parla a tutti, e piano piano si convince e convince: «Non sono stato capace di scrollarmi di dosso il finale di Shivers, con il cast che se ne va a infettare tutto il mondo  con la demenza sessuale è qualcosa che non sono stato capace di scrollarmi di dosso. E’ un finale genuinamente choccante, sovversivo, surreale, e probabilmente quello che tutti ci meritiamo. Negli anni successivi ho visto The Brood, Scanners e Videodrome. Sono troppo vigliacco per vedere Shivers una seconda volta, per non parlare di The Brood. I suoi migliori film mi disturbano troppo: determinano uno choc culturale junghiano. Sono come i Buňuel o Francis Bacon: ingegno e trauma, ferocia e pietà. All’interno di un genere che per molti è restrittivo, Cronenberg ha elaborato una visione realmente originale: metafore interne, orrore esterno. Lho conosciuto personalmente, mi è sembrato tutt’altro: un… ginecologo di Beverly Hills!».

Un giudizio del genere da parte di un autore dal livello e dall’altrettanta capacità disturbante di Scorsese, indubbiamente colpisce e fa pensare: il dilemma interno/esterno è corpo/anima gli ha consentito di visitare più profondamente degli altri nominati il tema del doppio, intendendo come tale anche noi stessi.

Cronenberg è insomma l’autore del passaggio/interscambio chiave, oggi come trent’anni fa, tra scienza-tecnologia e umanesimo: accostabile al suo Burroughs e, più che a Philip Dick, a Ballard. Non tanto a quello della fantascienza pura, quanto all’autore trash di Condominio, Un gioco di bambini, L’isola di cemento: allucinazioni non del futuro ma di oggi, in cui succede qualcosa di legato alla meccanica per cui il mondo esplode o implode.

E infatti nel ’96 proprio da Ballard trae Crash, romanzo del ’73, con cui raccoglie la Palma a Cannes. Scoppia la bagarre critica italiana come già per tutti i film precedenti, come era già successo per De Palma, lo stesso Scorsese e poi, con meno clamore, Tarantino. Si crea cioé uno scandalo complessivo generale su quel verdetto, per un film accusato di avere imboccato strade troppo estreme e violente. Ad esempio, senza fare nomi, il «Corriere della Sera» del 18 maggio 1996 lo distrugge partendo “dal porno di Ballard”, stroncandolo totalmente, inclusa la messinscena e gli stessi interpreti, che pure avevano a loro volta vinto in passato Palme. «Repubblica» lo stesso giorno lo definisce morboso e voyeuristico. E siamo negli anni in cui l’AIDS la faceva da padrone! I più “teorici” Cronenberg e Lynch furono i più attaccati. Ma capitò anche a Jane Campion col suo primo Sweetie, considerato volgare.

In realtà già allora Cronenberg era molto al di là del trash e del sensazionalismo, perfino nel precedente La mosca, che nasce e prosegue come storia d’amore, come molti altri capisaldi del genere, a cominciare dal Mostro della laguna nera di Arnold negli anni Cinquanta. E’ stato insomma sì un maestro del body horror, dell’ibridazione, del rapporto carne-macchina: ma dal suo antico dualismo di formazione va a parare in un approccio umanistico molto forte sensibile e profondo, che si raccorda alla tradizione della classicità come molto horror e fantascienza.

Da quegli anni diventa imprevedibile, lasciando l’area canonica del genere: a cominciare da quello che continuo a considerare il suo capolavoro, Inseparabili, ispirato a un fatto di cronaca, ma spostandone l’ambientazione dalla New York del fatto (1975) alla sua Toronto: come se Scorsese ne avesse previsto lo shining quando lo aveva definito “ginecologo di Beverly Hills”. S’intitola in originale quasi come un vecchio film con Bette Davis (Chi giace nella mia bara?, Henreid 1964). Si possono rilevare le innegabili affinità con le Sisters di De Palma, ma ne viene modificato lo schema, evitandone lo schematismo buona/cattiva, com’era, prima ancora, anche nella coppia gemellare Davis ancora-De Havilland de Lo specchio scuro (Siodmak 1946).

Qui i gemelli, entrambi scienziati eccezionali, inventori di un divaricatore futuristico premiato ma di impossibile uso se le pazienti non sono sedate, hanno caratteri diversi: il timido e il brillante, interscambiabili, alle prese con una paziente dall’utero mutante. Non c’è il pazzo e il sano: i due caratteri pian piano si mescolano, e il tema è proprio la loro gemellarità, e la loro professione pongono il corpo al centro, in situazioni ardue per le spettatrici. L’argomento è il doppio, il riflesso: non c’è nulla di spaventoso, tranne un paio di incubi e l’ideazione dello strumento per operare su donna mutante. E’ in realtà un mélo travestito da horror. Eccezionali e premonitori sono sempre i suoi titoli di testa (a cominciare proprio da questi), che andrebbero guardati e riguardati, perché vi scorrono già elementi evocativi della successiva storia.

Leslie Fiedler, nel suo bellissimo libro Freaks parla dei gemelli siamesi  Chang ed Eng, che venivano esibiti in un luna park: «Guardandoli sentivo prender vita l’orrore supremo evocato dai freaks. Una sorta di vertigine simile a quella provata da Narciso quando contemplò la propria immagine riflessa nell’acqua e vi si tuffò per morirvi. Nei gemelli congiunti, la confusione tra l’Io e l’Altro, la Sostanza e l’Ombra, è ancora più terrificante di quanto lo sia per il bambino scorgere di fronte a nello specchio un’immagine che si muove come lui, ma chiaramente in un altro mondo, Però in questo caso, per lo meno, i partecipanti sono solo due: chi guarda e chi viene guardato, mentre davanti ai fratelli siamesi lo spettatore li vede non solo guardarsi tra loro, ma anche -e tutti e due contemporaneamente- guardare lui. E per un attimo può avere la sensazione di essere un terzo fratello, unito da un legame invisibile ai due che ha di fronte. E quindi la distinzione tra spettatore e oggetto esposto, tranoie loro, tra normali e freaks si rivela un’illusione che cerchiamo di difendere disperatamente, e forse anche necessariamente. Ma alla lunga insostenibile». Nel cuore di questo film Cronenberg riacchiappa la dimensione umanistica mai perduta, ricollegandosi al tema dominante del cinema americano anni Settanta-Novanta: quello del rapporto spettatore-autore-visione. Dello spettatore con se stesso nel momento in cui guarda.

L’ultimo film di cui parlo è il…gemello di Inseparabili (Cronenberg ha fatto spesso film “gemelli”…). E’ il quasi successivo  -in mezzo c’è solo Il pasto nudo dall’amato Burroughs- M. Butterfly (dove quell’M non è né MisterMistress, né MonsieurMadame!): mélo puro di nuovo originato da una storia vera adattato in una piéce teatrale. C’è ancora un Irons altrettanto straordinario come nella doppia parte del precedente. Contiene una delle sue tante chiuse eccezionali.

Con questo film arriva alla fusione totale: tutto il discorso sul doppio arriva al nucleo, il “dentro” e il “fuori” sono racchiusi in una persona unica, horror e mélo nella mescolanza narrativa ritrovano il proprio originario e inscindibile collegamento. Come poi molti del film successivi (la coppia noir A History of ViolenceLa promessa dell’assassino; quella “satirico hollywoodiana” Cosmopolis-Maps to the Star, o lo stesso, psicanalitico, sullo scontro Freud-Jung A Dangerous Method) questo è il primo nel quale il contesto socio-storico-culturale c’entra moltissimo: non si era mai visto nei precedenti. Perché qui tutto comincia nella Cina della Rivoluzione Culturale, e c’è l’impatto oriente-occidente: l’uomo occidentale e la cultura orientale. Sembra qui arrivato come alla fine di un percorso, che poi si aprirà ad altre cose: infatti nei film successivi il contesto sarà molto più visibile e importante.

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